I filosofi sono famosi per essere sempre in disaccordo sui temi di cui si occupano. La moralità è oggettiva? La mente è identica al corpo? Le nostre azioni sono libere o determinate? Alcuni filosofi di professione risponderanno di no a questi interrogativi, ma quasi altrettanti affermeranno il contrario. Come se non bastasse, tutto questo è anche confermato da dati empirici: l’indagine PhilPapers, condotta da David Bourget and David Chalmers e ampiamente pubblicizzata, mostrò come tra i filosofi contemporanei vi fosse poco o alcun accordo rispetto alle tesi filosofiche principali. Stando così le cose, può la filosofia fare progressi?
La risposta, è ovvio, arriva da sola: se i filosofi non riescono a mettersi d’accordo sulle proprie posizioni, la conclusione inevitabile è che non fanno alcun passo in avanti. O, perlomeno, non lo fanno tranne che per la metadomanda sull’esistenza o meno del progresso: su questo non può esserci disaccordo. Peccato che i filosofi riescano a contraddirsi persino sulla metadomanda!
Un recente scambio di vedute dalle colonne del Times Literary Supplement rende bene l’idea. Sul versante ottimistico, David Papineau, professore al Kings College di Londra e alla City University di New York, descrive la filosofia come impegnata su un insieme continuo di interrogativi, dall’antichità ad oggi: i filosofi hanno fatto passi avanti ma, vista la complessità dei temi, con un’andatura assai lenta. Per Papineau, quindi, il progresso esiste, solo che muovendosi a passo di lumaca, al rallentatore, è facile non notarlo. Sul versante pessimistico, invece, secondo Carlos Fraenkel, professore alla McGill, i filosofi contemporanei lavorano su tematiche alquanto diverse da quelle del passato e, per questo, sostiene che la visione di Papineau non sia convincente: se non c’è continuità, non c’è progresso. Che fare? Dovremmo forse trarre la conclusione paradossale che non solo non esiste progresso in filosofia ma non esiste neppure nel dibattito circa l’esistenza o meno del progresso stesso?
Dovremmo forse trarre la conclusione paradossale che non solo non esiste progresso in filosofia ma non esiste neppure nel dibattito circa l’esistenza o meno del progresso stesso?
Personalmente non lo credo. Operare una distinzione chiave nel passato della filosofia ci consente di constatare cosa funziona e cosa no sia nell’ottimismo che nel pessimismo, e ci permette anche di capire che i motivi per essere ottimisti sono ancora più fondati di quanto Papineau pensasse. La distinzione a cui mi riferisco, che non è sempre chiara nel nostro linguaggio quotidiano, è quella fra gli argomenti della filosofia e le domande che le persone fanno a proposito di tali argomenti.
I primi sono quelli che molti di noi hanno incontrato nei corsi di base ma sono naturalmente presenti anche in tante altre fonti: la relazione mente-corpo, la portata e la natura della conoscenza umana, l’oggettività della morale. A questi temi si sono interessate persone diverse in epoche diverse. Le domande, invece, fatte su di essi, sono specifiche a seconda delle diverse circostanze epistemologiche e quindi cambiano nel corso del tempo. Ad esempio, i dibattiti attuali sulla mente e il corpo risentono spesso dell’influenza dell’informatica, della biologia, della linguistica e della logica, cosa che prima non accadeva.
Ritorniamo al confronto fra Papineau e Fraenkel tenendo a mente quanto appena detto. Papineau sostiene che la filosofia contemporanea si occupi delle stesse questioni del passato: intende “stessi temi” o “stessi quesiti su quei temi”? Nel primo caso, la sua affermazione è plausibile, nel secondo è falsa. Del resto, lui stesso indica alcune aree della filosofia (ad esempio l’etica) in cui gli interrogativi sono cambiati. Analogamente, Fraenkel è convinto che la filosofia contemporanea sia diversa da quella di un tempo: se intende “domande diverse su argomenti filosofici” allora ciò che dice è vero, se si riferisce alle domande di per se stesse, allora non è plausibile. Al contrario, egli identifica distintamente alcune tematiche per mostrare la differenza tra gli antichi greci e noi.
Che ne è, quindi, della disputa tra pessimisti e ottimisti a proposito del progresso filosofico? Dovremmo dar ragione a entrambi e finirla qui? Ancora una volta, personalmente non ne sono convinto. Supponiamo che in epoche diverse i filosofi sollevino interrogativi diversi su ciò a cui sono interessati: allora, l’esistenza dell’attuale disaccordo nella filosofia contemporanea – qualcosa di ampiamente dimostrato sia dall’indagine PhilPapers che altrove – perde di forza. Certo, i filosofi sono in disaccordo sulle questioni specifiche di volta in volta oggetto di studio, ma questo accade in tutti i campi quindi non ne consegue nulla per la filosofia in particolare. Inoltre, se in momenti diversi i filosofi si concentrano su domande diverse, è possibile identificare le prime che hanno avuto risposta. E, a sua volta, diviene quindi possibile, contrariamente alla posizione di Papineau, osservare lo schema del successo e del fallimento nella filosofia al pari di quanto accade nelle altre discipline.
Ecco due esempi, che hanno entrambi il vantaggio di chiamare in causa la “memoria istituzionale”. Nel 1960, nel suo Parola e oggetto, W.V.O. Quine pose una questione di assoluta rilevanza circa il ruolo del significato semantico nel mondo naturale, un tema strettamente connesso al problema mente-corpo. Si chiese come fosse possibile il significato, dato che a) il significato dev’essere determinato dal comportamento e, tuttavia, b) non lo è – cosa che Quine illustrò attraverso il suo famoso esempio del “Gavagai”. A che punto siamo con questa problematica? Oggi, in filosofia della mente e nella scienza cognitiva, e nei campi correlati, c’è consenso unanime sul fatto che l’opzione a) sia falsa: il comportamentismo di Quine è stato rifiutato. Se così è, allora il suo quesito ha ottenuto risposta ma questo non vuol dire che l’argomento che lo interessava sia sparito dalla circolazione. I filosofi contemporanei continuano, infatti, a ragionare circa il posto, il ruolo del significato nel mondo naturale: semplicemente, questo loro interrogarsi non parte dalla premessa del comportamentismo e ha una struttura abbastanza diversa.
I filosofi contemporanei continuano a ragionare circa il posto, il ruolo del significato nel mondo naturale.
All’incirca nello stesso periodo di attività di Quine, c’era una notevole mole di letteratura sulla filosofia della storia, oggi spesso trascurata, come ad esempio la Filosofia della Storia (1964) di William Dray. Una questione fondamentale, posta da tale letteratura, era: com’è possibile la causazione nella storia, dato che a) le cause richiedono leggi rigorose e, tuttavia, b) non esistono leggi rigorose nella storia? Che ne è stato di questo dilemma? Grazie a Donald Davidson e a molti altri, oggi sappiamo che può esservi una causazione in cui la connessione tra leggi e cause è più remota rispetto a quanto suggerito dall’opzione a), sicché la faccenda sembrerebbe risolta. E invece no, di nuovo: non è che i filosofi non facciano più ricerca sul tema della storia, è solo che gli interrogativi interessanti, oggi, sono altri. Alcuni sono più associati alla filosofia “continentale” rispetto alla sedicente filosofia della storia “analitica” del passato; altri riguardano domande ontologiche sulle entità storiche, simili per molti aspetti alle questioni relative alla costruzione sociale della razza e del genere, alle quali si sono dedicati Sally Haslanger e altri.
“Se solo facessimo tutte le distinzioni che esistono”, scrisse una volta Jerry Fodor, “dovremmo essere felici come re”. Non sono sicuro che sia una verità generale, ma lo è in qualche misura quando dibattiamo il caso del progresso filosofico.
Traduzione di Silvia Crupano. Articolo originariamente pubblicato sull’Oxford University Press Blog.
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