C hissà se, mentre sgranocchiava biscottini al burro girando “Colazione da Tiffany’s”, Audrey Hepburn ricordava l’occupazione tedesca in Olanda, quando cercava di placare i morsi della fame con erba e bulbi di tulipano. “Le conseguenze di quel periodo, inclusa la sua salute fisica cagionevole, l’avrebbero accompagnata per tutta la vita” scriveva nel 2011 Nessa Carey nel suo libro The epigenetic revolution. Secondo la ricercatrice britannica sarebbe stata la deprivazione alimentare estrema vissuta alla fine della guerra a determinare la struttura esile che avrebbe reso famosa l’attrice in un’epoca di maggiorate, e, suggerisce il Daily Mail nella recensione al libro, a provocare una serie di disturbi a cui sarebbe seguita una morte prematura. “In realtà è improbabile che, nel caso specifico, ci sia un legame diretto tra la fame sofferta in gioventù, il vitino da vespa dell’attrice, di costituzione già molto sottile fin da bambina, i suoi celebri mal di testa e il raro tumore dell’appendice di cui morì a 63 anni”, obietta George Davey Smith dell’MRC Centre for Causal Analyses in Translational Epidemiology all’Università di Bristol, in UK.
Ma è vero che gli studi sugli effetti a lungo termine della guerra e della carestia, estesi alla possibilità che questi effetti si trasmettano di generazione in generazione, sono di grandissimo interesse – e non solo per prevenire o mitigare i danni di chi ancora si trova coinvolto in conflitti o migrazioni. Studiare situazioni estreme che non sarebbe possibile, né etico, riprodurre sperimentalmente, ma che sono già avvenute indipendentemente dalla volontà dei ricercatori, consente di mettere in luce meccanismi molecolari importanti per capire meglio l’impatto dei fattori ambientali sulla salute fisica e psichica.
In uno di questi “esperimenti della storia”, si ritrovò davvero, suo malgrado, la Hepburn. La madre della futura attrice, una baronessa olandese, per sfuggire al rischio di un’invasione tedesca della Gran Bretagna, dove si era sposata con un banchiere, era infatti incautamente tornata con la figlia in patria, andando incontro al pericolo che sperava di evitare.
La giovane Audrey si trovò quindi a vivere i suoi 16 anni nel bel mezzo della “grande carestia olandese” provocata dal blocco dei rifornimenti imposto dagli occupanti tedeschi. Nel cosiddetto “inverno della fame”, tra l’autunno 1944 e la primavera 1945, al freddo, al dolore e alla paura si aggiunse infatti nella parte occidentale del Paese una gravissima carestia che si stima aver ucciso almeno 18.000 persone. Qualcosa di simile, perfino più prolungato nel tempo, si era verificato con l’assedio di Leningrado (oggi San Pietroburgo), che, su una popolazione di 2,7 milioni di abitanti, aveva provocato almeno 600.000 morti di fame, concentrati per lo più nell’inverno 1941-1942.
Gli studi sugli effetti a lungo termine della guerra e della carestia, estesi alla possibilità che questi effetti si trasmettano di generazione in generazione, sono di grandissimo interesse.
In questo caso il lavoro dei ricercatori è stato facilitato dal fatto che la guerra non smantellò le anagrafi né gli archivi degli ospedali. Dalla composizione delle razioni a disposizione di ogni adulto o bambino rigorosamente registrate dalla scrupolosa burocrazia nazista e sovietica, si può inoltre risalire, come in veri e propri esperimenti di laboratorio, all’apporto calorico medio a disposizione di ognuna di quelle involontarie cavie umane, e al contenuto relativo di carboidrati, grassi, proteine animali e vegetali. È quindi possibile collegare gli esiti di salute successivi alla guerra con l’alimentazione delle popolazioni colpite in relazione all’età o, per chi fu concepito in quel periodo, alla fase della vita intrauterina in cui la madre aveva sofferto più la fame.
Lo hanno fatto diversi gruppi di ricerca. L’Hunger Winter Families Study per esempio ha seguito nel tempo lo stato di salute dei sopravvissuti alla grande fame olandese, dimostrando che a distanza di decenni dalla fine della guerra questi avevano un tasso di demenza e soprattutto di malattie delle coronarie maggiore rispetto alla popolazione generale. Ischemia cardiaca e infarti, insieme a un aumento del rischio di ictus e di ipertensione arteriosa, erano più comuni della norma anche tra gli uomini usciti vivi dall’assedio di Leningrado.
L’impatto è stato forte anche per i bambini concepiti in Olanda in quei mesi, in cui è stato riscontrato un maggior tasso di schizofrenia, diabete e obesità. È come se l’organismo, in una situazione di grave carenza, fosse stato programmato a privilegiare l’accumulo di tessuto adiposo, a scapito di altri tessuti, come quello nervoso. La magrissima Audrey Hepburn non può quindi essere considerata un caso tipico a riprova delle conseguenze di quella vicenda, tanto più che l’attrice non è stata esposta in utero alla malnutrizione, ma quando era già grande.
Gli effetti della nutrizione durante la gravidanza sono invece quelli che ai ricercatori interessano di più, perché è in questa fase che l’ambiente, gli stili di vita, quel che si mangia, sembra possano lasciare più il segno sull’organismo in formazione. “Con il nostro lavoro abbiamo dimostrato per primi negli esseri umani l’impatto biologico lasciato dalla malnutrizione nelle prime settimane di gestazione” spiega il professor Lambert H. Lumey, epidemiologo di origine olandese in forze alla Columbia University di New York. “Le persone che furono concepite durante l’inverno della fame, infatti, a sessant’anni di età avevano ancora una sorta di ‘contrassegno’ molecolare che mancava nei fratelli dello stesso sesso non esposti durante la gestazione a condizioni così estreme, ma anche tra coloro che erano nati in quel periodo, ma concepiti due o tre mesi prima, quando ancora le razioni era sufficienti”. Ed è interessante che questa impronta riguardasse proprio un gene che produce una proteina simile all’insulina, l’insulin-like growth factor 2 (IGF2), coinvolta nei meccanismi della crescita e del metabolismo.
Gli effetti della nutrizione durante la gravidanza sono tra i più importanti, perché è in questa fase che l’ambiente e gli stili di vita sembra possano lasciare il segno sull’organismo in formazione.
In cosa consistono queste “firme molecolari”? Non sono altro che gruppi chimici, i metili, che si legano al DNA senza modificarne la sequenza. Attaccati sopra i geni come post-it, segnalano ai macchinari delle cellule quali proteine produrre in abbondanza e su quali invece rallentare, come in una catena di montaggio che si adegua alle esigenze del mercato. Dal grado di “metilazione” del DNA, una sorta di memoria della cellula, gli scienziati ne misurano in qualche modo la storia, in relazione agli stimoli esterni a cui è stata esposta. Per ora non riescono ancora però a leggerla in maniera chiara. La scienza che studia questi fenomeni, detta epigenetica perché non riguarda la struttura dei geni ma quel che ci sta “sopra” (epì), pur non essendo nuovissima, è infatti ancora ai suoi primi passi. Studi come quelli che stiamo raccontando servono a dare solidità ad alcune sue conclusioni.
Per esempio, uno dei concetti più rivoluzionari proposti dall’epigenetica è che le alterazioni che regolano l’attività del DNA senza modificarne la sequenza, indotte dall’ambiente o dagli stili di vita, possano passare di generazione in generazione, come nel caso della metilazione di alcuni geni, appunto. Questo avverrebbe in maniera simile ma meno automatica di quanto avviene per le mutazioni genetiche, ed è un comportamento riscontrato nel modello animale ma ancora oggetto di discussione per quanto riguarda gli esseri umani.
Paradigmatico, a questo proposito, è stato un lavoro condotto sui sopravvissuti alla Shoa. Se quelli scampati ai campi di concentramento hanno portato per tutta la vita sull’avambraccio, oltre che nella loro mente, il ricordo di quella terribile esperienza, il trauma è rimasto impresso sul DNA anche in chi è riuscito a nascondersi o scappare per sfuggire alla deportazione. “Abbiamo studiato il grado di metilazione di un gene correlato all’aumento dei tassi di cortisolo, l’ormone dello stress, in una quarantina di sopravvissuti ebrei con storie diverse e nei loro figli” spiega Rachel Yehuda, psichiatra della Mount Sinai School of Medicine di New York. “A distanza di sessant’anni dalla fine della guerra, abbiamo trovato nei sopravvissuti una metilazione del gene superiore rispetto a quella di parenti coetanei che si trovavano fuori dall’Europa durante la Seconda guerra mondiale. Viceversa, nei figli, si è osservato un fenomeno opposto: una metilazione inferiore rispetto ai controlli”.
Si tratta quindi di dati che segnalano la possibilità di un effetto a lungo termine di stress fisici e psichici, forse anche trasmissibile di generazione in generazione, ma che richiama alla cautela: le cose sono complicate, e ancora poco chiare. Si prenda per esempio il caso dei 49.000 bambini messi al riparo dal governo finlandese, sempre durante la Seconda guerra mondiale, nella neutrale Svezia, dove famiglie di vario livello socio-economico si offrirono di ospitarli.
Non stupisce l’alto tasso di disturbi post traumatici da stress in chi è stato in guerra o è cresciuto sotto i bombardamenti, ma non vanno trascurate le conseguenze di situazioni apparentemente più tranquille.
Una volta rientrati in patria, a distanza di decenni, tra il 1971 e il 2011, il rischio di ricoveri psichiatrici in questa popolazione non era significativamente superiore a quella dei fratelli che non erano stati esposti allo stesso distacco dalla famiglia, anzi, per gli uomini era leggermente inferiore. Ma scorporando i dati in relazione ai diversi disturbi mentali, si trovava nelle donne che da bambine erano state strappate alla famiglia un maggiore tasso di ricoveri per disturbi dell’umore. Forse le femmine sono più vulnerabili al distacco? Forse sono più esposte a possibili abusi nelle famiglie ospitanti? Nulla lo fa pensare, ma l’ipotesi ovviamente non si può escludere. Uno studio successivo, appena pubblicato, condotto sulla stessa popolazione, conferma però che la differenza di genere si mantiene anche nella generazione successiva: le figlie femmine di donne che da piccole trascorsero almeno due anni durante la guerra in una famiglia svedese hanno oggi infatti un rischio di finire in ospedale per disturbi psichiatrici doppio, e per depressione quasi cinque volte maggiore, rispetto alle figlie di cugine non evacuate, indipendentemente dal fatto che la madre avesse avuto a sua volta problemi mentali tali da provocare il ricovero.
Certo, questi studi si limitano ai casi estremi, mentre le malattie mentali che arrivano in corsia sono solo la punta dell’iceberg rispetto alla ben più vasta realtà del disagio, che invece può influire in maniera significativa sugli stili educativi e sull’approccio affettivo di un genitore. La differenza di genere però resta inspiegata, e potrebbe chiamare in causa altri fenomeni biologici ancora tutti da scoprire.
Se non stupisce l’alto tasso di disturbi post traumatici da stress in chi torna dalla guerra o è cresciuto sotto i bombardamenti, non vanno quindi trascurate le conseguenze per l’individuo e la società di situazioni apparentemente più tranquille. “In ogni caso, è importante sottolineare che gli effetti della guerra non sono di tipo deterministico” commenta Theresa Betancourt, della School of Public Health di Harvard, una delle massime esperte al mondo su questi temi. “Uno studio condotto su 529 giovani reduci dal conflitto in Sierra Leone ha dimostrato che la maggior parte di loro riusciva a migliorare col tempo il proprio disagio conseguente ai traumi vissuti, anche in assenza di un supporto specialistico”. L’11% di loro, tuttavia, non riusciva a riprendersi, o andava peggiorando con il tempo.
Altrove si osserva una difficoltà ad approfittare delle occasioni di recupero e reinserimento lavorativo offerte per esempio dalle organizzazioni non governative: per la Betancourt non si tratta di pigrizia, ma dell’impatto dei gravi traumi subiti sulla corteccia cerebrale prefrontale, che nei giovani è ancora in fase di sviluppo.
Una revisione di 17 studi su quasi 8.000 tra bambini e ragazzi cresciuti durante la guerra in Bosnia, Cambogia, America centrale, Medio oriente e Rwanda hanno dimostrato che, in contesti tanto diversi, le situazioni estreme di stress, pericolose per la salute mentale di un minore, sono frequenti, e associate a tassi elevati di disturbo post traumatico da stress, depressione e ansia.
Anche se non dovesse essere confermato un meccanismo biologico diretto di trasmissione di generazione in generazione degli effetti di un trauma, è noto che i figli dei reduci di guerra hanno in media un rischio di disturbi mentali superiore alla media, e che nelle famiglie in cui un genitore soffre di un disturbo post traumatico da stress i figli possono sviluppare sintomi analoghi. “Persone che hanno subito violenza spesso hanno uno stile educativo più duro e punitivo e una madre depressa o traumatizzata fa fatica a sintonizzarsi nel dialogo di sguardi, voci e gesti con un bambino fin da quando è neonato” prosegue Betancourt.
Milioni di bambini e adolescenti vivono oggi in zone belliche, sempre più spesso sono coinvolti in prima persona nei combattimenti o sono costretti a fuggire, soli o insieme alle loro famiglie. Secondo l’UNICEF, circa un terzo dei migranti e rifugiati in arrivo in Europa sono minori. Il modo in cui riusciremo ad assisterli non si rifletterà solo sul benessere loro, e sulle loro possibilità di integrazione, ma probabilmente anche sul destino dei loro e dei nostri figli.