Guardare al sapere geografico per capire la crisi della modernità: un’intervista a Franco Farinelli.
Valentina Pigmei ha lavorato per varie case editrici. Ha scritto per La Stampa, Panorama, Elle, Grazia, Rolling Stone, GQ, D-Repubblica delle Donne, Messaggero. Oggi vive in Umbria e collabora con Vogue.
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ranco Farinelli è forse il più famoso geografo italiano. Per 40 anni professore all’Università di Bologna, a lungo presidente dell’Associazione Geografi italiani, è autore tra gli altri del classico La crisi della ragione cartografica (Einaudi, 2009). Intervistarlo è un’esperienza totalizzante: Farinelli ama le digressioni inaudite e i sentieri mai lineari, è in grado di ribaltare la traccia della domanda consapevole del fatto che una conversazione è tanto più interessante quanto più cambia lo sguardo di chi ascolta.
Lo spunto per l’intervista che leggerete non è la pubblicazione di un suo nuovo saggio ma di un volume a cui Farinelli non ha partecipato: La terra è rotonda (Iperborea), nuovo numero della collana “COSE spiegate bene” a cura della redazione del Post. La raccolta è dedicata proprio al sapere geografico come strumento di conoscenza, di comprensione del mondo, di libertà. La geografia è un sapere che si dà per scontato, e invece non si tratta affatto di una disciplina neutra. “La comprensione degli spazi e delle relazioni tra gli spazi, è un elemento prioritario della comprensione delle cose della vita”, scrive il direttore del Post Luca Sofri nell’introduzione.
Professore, la geografia è una materia bistrattata dalla scuola e ormai perlopiù ignorata da intellettuali, politici e giornalisti. Pubblicare un libro divulgativo sulla geografia, oggi, è un atto politico?
Oggi abbiamo un bisogno essenziale di questo tipo di sapere, di fronte al cambiamento del mondo. Altro non può fare la cultura occidentale che tornare a interrogarsi sull’archè, l’origine delle cose. I cambiamenti sono talmente totalizzanti che dobbiamo ripensarlo, il mondo. Si tratta di passare dall’epoca della riduzione del mondo a una carta geografica – la modernità –, all’epoca della globalizzazione, dove la terra, il globo, non è mappa, bensì una sfera. È un problema matematico, di irriducibilità: tra mappa e sfera si perde per forza qualcosa, c’è un lost in translation. Se la terra è una sfera, i problemi sono enormi: quali sono i centri di una sfera? Non c’è un solo punto, ma tutti i punti possono essere il centro.
Nel nostro quotidiano abbiamo bisogno di mappe, ma sappiamo che la globalizzazione si fonda sul modello opposto e contrario, in cui gli uomini e le cose si spostano continuamente. In più oggi lo spazio è in crisi perché la Rete ha annullato le distanze: informazione e denaro si spostano attraverso la Rete in un battibaleno. Tutti i principi che conoscevamo saltano nel mondo globale e con la Rete: la distanza tra due punti è ormai un valore residuo.
Una volta ha detto che “le mappe sono violente”. È questo che intendeva?
Certo. Basta guardare anche cosa sta succedendo in Ucraina: la guerra in Europa. Perché sta accadendo questa guerra? Non lo so, ma c’è un dato di fatto: un quarto della popolazione Ucraina parla russo. Oggi la superficie del globo si divide in 200 Stati. Lo Stato, lo dice la parola stessa, è qualcosa che programmaticamente non si muove, “statico”. Anche la parola “territorio” che nulla ha a che fare con “terra” ma viene da “terror”, terrore, è qualcosa di dipendente da poteri politici. Come deve essere un territorio? Deve avere tre caratteristiche: essere un pezzo unico, essere omogeneo e essere isotropico. Il che significa, in buona sostanza, che ci deve essere una continuità territoriale, una omogeneità di lingua e di religione e che ad esempio le capitali siano scelte non per ragioni storiche ma secondo un modello geometrico come ad esempio Ankara o Madrid. Ma lei conosce una nazione al mondo dove si parli la stessa lingua? No, perché oggi non esiste.
Gli Stati obbediscono alla geometria euclidea, i confini sono linee diritte. Ma oggi dobbiamo rovesciare il rapporto che c’è tra le mappe e la realtà: la mappa non è la copia della terra, ma il suo contrario. La globalizzazione ha fatto saltare questi modelli. Il problema è, appunto, che lo Stato moderno è costruito sulla staticità, mentre i soggetti oggi sono mobili. La modernità, il mondo moderno, nasce in un luogo preciso, in un momento preciso, in una città precisa. Nasce a Firenze sotto il portico dello Spedale degli Innocenti: l’opera di Filippo Brunelleschi, all’inizio del Quattrocento, con la quale la modernità si avvia al suo destino. È la nascita della prospettiva e della sintassi moderna. E dell’idea che l’uomo non sia mobile. Ma oggi non è più così. Uno dei presupposti principali della modernità è che i soggetti stiano fermi. Ma gli esseri umani non stanno fermi. Se tutta la modernità è stata governata dal modello e dal codice spaziale, oggi la modernità è finita. Anche per questo motivo, facendo un salto temporale, nessuno Stato è più in grado di operare politiche decenti nei confronti dei migranti.
Prima di Brunelleschi come funzionava il concetto di spazio?
Basta leggere il Milione di Marco Polo! Lì non esistono, ad esempio, i punti cardinali, le cose non hanno estensione ma durata, non si dice quante miglia da un posto all’altro ma quanti giorni ci si impiega per andarci. Questo cambia completamente con la modernità. La modernità è sottomessa alle mappe; ma lo spazio come lo intendiamo noi oggi è una categoria che fa cilecca.
Quando è nata invece la geografia come la intendiamo noi?
La geografia è nata grazie a una sconfitta dei francesi durante la Battaglia di Sedan, nel 1870. I francesi individuarono nella geografia le ragioni della sconfitta e la introdussero come materia di studio. Prima di allora i geografi erano archeologi.
Il mare, tuttavia, è regolato da altre leggi. Giusto qualche settimana fa è stato approvato dall’ONU il trattato di alto mare per proteggere quei tratti di oceani che non appartengono a nessuna nazione.
Ecco io davvero non ho mai capito come mai la terra si chiami così. Anche questa è una forzatura, il globo terracqueo si compone per due terzi d’acqua salata, e per un terzo soltanto di terra. Nel mare non ci sono confini. Guardi cosa sta succedendo con le politiche migratorie: la modernità si fonda su un modello per cui non ci si sposta e non si ha diritto alla mobilità. Qui si tratta di riconoscere modelli che non funzionano più. È il pianeta che ci impone un cambiamento. Per questo, la disastrata geografia è importante. E ciò che resta del sapere occidentale. Si è creduto che lo spazio non conti più nulla, e invece no, dobbiamo solo cambiare i modelli.
Quali sono questi nuovi modelli? Come ci si può adattare alla nuova realtà che viviamo?
Non lo so, anche se credo che la strada sia una sola e ho ben chiara l’inevitabilità del tragitto. Dobbiamo andare dalla mappa alla sfera, dobbiamo ripensare il mondo non più in termini cartografici. Nonostante esista la Rete – la Rete! – noi continuiamo a pensare in termini tabulari, a due dimensioni. Nel concreto non so come si fa, le teorie non funzionano più e non sappiamo come sostituirle, ma è una rivoluzione che è già in atto. Bisogna uscire dalla compartimentazione. In qualche campo si fa già: ci si chiede per esempio da un po’ come si possa raccontare una storia globale dell’arte.
Oggi invece si parla soprattutto di geopolitica, e so che anche lei sta scrivendo un libro su questo tema.
La geopolitica è un esempio di sapere geografico finalizzato a scopi particolari. Il suo inventore è il tedesco Karl Ernst Haushofer. Lui venne fatto prigioniero e interrogato per giorni interi dai professori della Georgetown che tradurranno in termini anglosassoni il suo sapere geopolitico. Alla fine dell’interrogatorio lo studioso si uccise per le accuse di filonazismo. La mia teoria, ma solo mia, è che Haushofer si sia ucciso perché aveva capito che la geopolitica non ha cambiato nulla, che le decisioni sono state prese comunque. Ma già negli anni Venti del Novecento la geopolitica era un coprivergogna, figuriamoci ora, e se ne abusa a livello linguistico per spiegare i fenomeni. Nel 1929 Siegfried Passarge, che allora insegnava ad Amburgo, e che poi passò anch’egli tra i geopolitici, la definì “Il circo delle capriole linguistiche”.
Che rapporto c’è tra sapere geografico e potere?
Più un popolo è potente e più non conosce la geografia. Lo diceva Strabone, il primo geografo della storia e figlio del re del Mar Nero. Quando arriva a Roma si accorge che i romani, che erano allora i padroni del mondo, non sapevano niente. Il suo trattato di geografia comincia parlando dei filosofi pre-socratici che secondo lui sono stati i primi geografi della storia perché hanno dovuto mettere a punto la concezione del mondo. La geografia ancora una volta riguarda l’arché, il ritorno alle origini. I popoli potenti, come gli americani oggi, semplicemente non hanno bisogno di conoscere. C’è un abisso tra comprendere e fare le cose.
E invece come viene trattata oggi la geografia a scuola, in Italia?
Anni fa ho incontrato Luigi Berlinguer quando era ministro dell’Istruzione e ho avuto un’impressione, come dire, pessima, mi sono scontrato con una volontà formale a riconoscere l’importanza di questa materia ma poi i discorsi venivano lasciati cadere. Non ho avuto la stessa impressione invece dalla ministra Carrozza nel suo brevissimo incarico [qualche mese, dal 2013 al 2014 durante il governo Letta, ndr] che si era dimostrata sensibile e ricettiva. Ma il vero problema di scuola e geografia risale ai tempi del fascismo quando il sapere geografico è stato smantellato. La mia generazione, quella del ‘68 ha cambiato un po’ le cose: ha rimosso ciò che era stato prima e assicurato la produzione di un altro discorso. Ora non voglio incensare la mia generazione, ma prima di allora si insegnava la geografia senza nessun tipo di coscienza. Tutto ciò, comunque, conferma come il sapere geografico sia e rimanga finalizzato al rapporto con il potere.
E oggi?
Oggi siamo in piena crisi dello Stato. La crisi dei migranti è l’esempio perfetto di un modello in crisi. Da una parte non siamo ancora in grado di sostituire con un nuovo modello dall’altra… [ride] ha presente le macchine della polizia? “Stazione mobile”, questo modello ossimorico sarebbe quello da perseguire, quello di uno Stato che sia “mobile”.