I l 2 marzo del 2004 sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana compaiono le nuove indicazioni ministeriali riguardanti la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado. Letizia Moratti, ministra dell’istruzione, dell’università e della ricerca firma un documento contenente 110 pagine, 4 allegati e specifiche di ogni genere. C’è chi si accorge di un grande assente: Charles Darwin. Da queste nuove linee guida per l’insegnamento delle scienze viene infatti eliminato ogni accenno alla teoria dell’evoluzione. Centinaia di accademici insorgono e con una lettera che riceve molta attenzione mediatica riescono a rimediare: la ministra si vede costretta a tornare sui propri passi. È stato un malinteso, “Darwin si studierà sin dalle elementari”.
Sedici anni più tardi, oggi fortunatamente Darwin è ancora presente nei libri di testo. Ma il modo in cui viene trattato nei programmi non è ancora privo di problemi e approssimazioni. Il più grande di tutti: nei programmi evoluzionismo equivale a evoluzione biologica e naturale, di esclusiva competenza del docente di scienze. Un errore che può rivelarsi grave, perché durante lo scorso secolo e mezzo, l’evoluzionismo ha invece influenzato i contenuti e i metodi di ricerca della quasi totalità delle scienze umane, portando a scoperte fondamentali nei campi più disparati: evoluzione del senso morale, studio scientifico delle emozioni, analisi del cosiddetto “libero arbitrio”. Ha provocato grotteschi scivoloni (il darwinismo sociale, in primis), è vero, ma in generale ha contribuito in modo essenziale alla comprensione, o a una maggiore conoscenza, di molte caratteristiche umane. Basti guardare la nascita dei campi di ricerca dell’antropologia evoluzionistica e della psicologia evoluzionistica, che hanno affiancato la biologia negli ultimi decenni nel tentativo di ricostruire la storia filogenetica umana, con particolare riguardo all’evoluzione di Homo sapiens.
Nei programmi scolastici italiani l’evoluzionismo è di esclusiva competenza del docente di scienze. Eppure l’evoluzionismo è un paradigma il cui perimetro d’indagine comprende ormai la gran parte delle scienze umane e delle discipline che si occupano di studiare l’umanità.
Insomma, la ricerca scientifica ha preso atto da tempo del grande potenziale epistemologico e interdisciplinare che l’evoluzionismo racchiude. La scuola italiana invece pare andare ancora in un’altra direzione. Ad esempio, le indicazioni relative all’insegnamento della biologia nei licei (perché solo per l’insegnamento della biologia viene menzionato l’evoluzionismo) esplicitano solamente la parola “evoluzione” e non riportano nemmeno il nome di Darwin. Si parla genericamente di “introduzione allo studio dell’evoluzione”, risolvendo la questione in una riga scarsa di testo. Inutile sottolineare che il tema non appare in nessun altro punto, né all’interno del paragrafo dedicato a storia, né a quello di filosofia o, per i licei preposti, a quello di scienze umane.
Si tratta di una grave lacuna per almeno due ragioni. In primo luogo perché l’evoluzionismo è un paradigma il cui perimetro d’indagine supera abbondantemente quello della biologia e delle scienze naturali, comprendendo la gran parte delle scienze e delle discipline che si occupano di studiare l’umanità, nelle sue varie declinazioni. In secondo luogo perché a un’analisi approfondita delle grandi questioni della contemporaneità (come crisi climatica e perdita di biodiversità) è essenziale l’approccio evoluzionistico. Cerchiamo di raccontare perché.
L’evoluzione e Homo sapiens
Prima che il genere Homo comparisse, circa due milioni di anni fa, le forze dell’evoluzione biologica naturale plasmavano le specie viventi. C’era la selezione naturale con la sua cieca forza, che permetteva la sopravvivenza e garantiva la riproduzione o che, viceversa, condannava a morte gli individui in base alle loro caratteristiche. E c’erano poi la selezione sessuale e gli altri meccanismi ben noti oggi alla biologia evoluzionistica che possedevano potere esclusivo su tutte le specie. La comparsa del genere Homo, dalla tribù degli Hominini, portò qualche piccolo cambiamento locale nel rapporto organismi-ambiente. L’evoluzione biologica naturale conservò tuttavia il primato che possedeva fino all’arrivo della vera rivoluzione, quando una specie di Homo, Homo sapiens, che batteva i territori dell’Africa orientale già da oltre centomila anni senza provocare clamore maggiore degli scimpanzè attuali, iniziò la sua diaspora “fuori dall’Africa”. Iniziò così l’ultima grande migrazione umana preistorica, questa volta destinata a cambiare tutto.
Possiamo quindi affermare che almeno a partire da settantamila anni fa, l’epoca a cui stiamo facendo riferimento, l’evoluzione cessò di essere un fenomeno esclusivamente biologico e si trasformò, in assoluta sinergia con le vicende umane, in qualcosa di molto più grande. Quel periodo coincide infatti con la prima delle grandi rivoluzioni umane: la rivoluzione cognitiva (o “grande balzo in avanti”). Le specie del genere Homo, in realtà, si erano tutte distinte dagli altri cugini Hominini per un aumento del quoziente di encefalizzazione, ovvero del rapporto tra la massa cerebrale di un individuo e quella che ci si aspetterebbe di trovare in un altro animale di taglia simile. In sapiens, tuttavia, questo aumento prese una piega del tutto inusuale. Il cervello cessò di espandersi in direzione antero-posteriore, ovvero in orizzontale, per prendere una forma globulare, ossia verticalizzata, aumentando la superficie della fronte. E proprio dietro a quest’ultima si celava il segreto del successo: la corteccia prefrontale.
La capacità di astrazione, l’autocontrollo, la presa di decisione, l’intelligenza emotiva e tantissime abilità neurocognitive sono emerse grazie allo sviluppo di questa piccola e recentissima porzione cerebrale. In sostanza, possiamo dire che la capacità di produrre cultura (nel senso più ampio e universale del termine, umanamente inteso) è emersa insieme alla corteccia prefrontale. Tutte queste capacità tipiche di Homo sapiens (e, seppur in misura molto minore, anche di altre specie del genere Homo, soprattutto di neanderthal), non apparirono dal nulla. Non rappresentano il frutto di un intervento trascendentale, non si manifestarono in un sol colpo. Furono anch’esse la conseguenza di un percorso evolutivo, analogo a quello responsabile del cambiamento dei tratti fisici. L’esempio più emblematico e forse più ricco dal punto di vista epistemologico è l’evoluzione del linguaggio.
La capacità di astrazione, l’autocontrollo, la presa di decisione, l’intelligenza emotiva, la capacità di produrre cultura sono emerse insieme alla corteccia prefrontale, conseguenza di un percorso evolutivo.
Il filosofo Francesco Ferretti dell’Università di Roma Tre sostiene che questa facoltà sia emersa grazie a exaptation (termine del linguaggio evoluzionistico che indica cooptazione funzionale, ossia una nuova utilizzazione di elementi originariamente sviluppatisi per assolvere ad altre funzioni) di tre abilità cognitive preesistenti: mindreading, ossia la capacità di cogliere, inferire e interpretare gli stati mentali altrui, mental time travel e mental space travel: le abilità di muoversi con la mente, rispettivamente, nel tempo passato, presente, futuro e nello spazio. Originariamente emersi per altri scopi, o in seguito ad altre dinamiche evoluzionistiche, questi tre meccanismi cognitivi si sarebbero uniti, probabilmente in seguito a pressioni selettive, consentendo a Homo sapiens di sviluppare un linguaggio articolato.
Exaptation, termine coniato per la prima volta dal biologo Stephen J. Gould e dalla paleontologa Elisabeth Vrba, è un fenomeno di grande interesse per gli evoluzionisti contemporanei al fine di spiegare l’evoluzione dei tratti biologici. In questo caso vediamo come in realtà si applichi analogamente anche all’evoluzione dei tratti neurocognitivi, come la capacità di produrre linguaggio. È un primo caso che mostra come i meccanismi evoluzionistici sconfinino dalle dinamiche strettamente biologiche e influenzino l’essere umano (ma non solo) anche su altri livelli.
Un altro esempio riguarda l’evoluzione del senso morale. Uno dei più noti esperti in questo campo è lo psicologo Michael Tomasello, attuale co-direttore del Max Planck Institut per l’antropologia evoluzionistica. Tomasello sostiene che la nostra capacità di percepire e agire moralmente, anche se in realtà la sua teoria si irradia a tutte le abilità tipicamente umane, è diretta conseguenza del suddetto mindreading: l’abilità di cogliere, inferire e interpretare gli stati mentali altrui. In questo caso, tale capacità sarebbe frutto del classico adattamento darwiniano, evolutosi quindi per diretta influenza della selezione naturale. Anche qui vediamo come termini, concetti, ragionamenti che siamo abituati ad associare di default agli studi di biologia evoluzionistica permeano in realtà anche le ricerche delle scienze umane, in questo caso della psicologia.
Cultura e rivoluzione
La rivoluzione cognitiva di Homo sapiens, seppur unica, rappresentò il fenomeno che diede avvio allo sconvolgimento dei meccanismi evolutivi. Ma la lentezza dei processi di sviluppo e l’assenza di una finalità nel loro emergere, circoscrivono questa fase della nostra storia evolutiva ancora nel perimetro dell’evoluzione biologica naturale.
Fu con la nascita della cultura che, invece, cambiò tutto. Non bisogna dimenticarsi, certo, che il termine cultura è molto ampio e può essere declinato secondo un’infinità di accezioni. Una determinata tipologia di cultura appartiene alle specie animali a noi più vicine, come gli scimpanzé, ma anche ad altre molto più filogeneticamente distanti da noi, come i delfini. Cultura significa diversità dei costumi, della cui analisi, e non solo, si occupa l’antropologia culturale; cultura significa il profilo di conoscenze che un determinato individuo possiede; ancora, cultura significa complesso delle istituzioni economiche, sociali, politiche, artistiche di un determinato paese. L’elenco non è esauribile in queste righe.
In questo caso, però, con il termine cultura intendiamo in particolare quel fenomeno di trasmissione dei saperi, esclusivamente umano, dinamico e diacronico, che si realizza grazie a un processo cumulativo: l’effetto “dente d’arresto”, termine coniato proprio da Tomasello. È il meccanismo che permette alle tradizioni culturali di evolvere “con l’accumularsi delle modificazioni apportate nel tempo da individui differenti, le quali diventano più complesse e riescono a far fronte a una più ampia varietà di funzioni”. In sostanza l’essere umano, grazie alle sue abilità neurocognitive, è in grado di apprendere nuove informazioni, o di modificarne altre già acquisite, e trasmetterle stabilmente al conspecifici. Scimpanzé e bonobo, i nostri cugini più stretti, possono tramandare tanti tipi di saperi, anche articolati, ma non in forma cumulativa, non quindi attraverso il dente d’arresto, che “congela l’idea”. Se una nuova conoscenza emerge nel gruppo, è destinata a morire nel gruppo, nel giro di poco tempo. Dunque le innovazioni, seppur presenti, sono circoscritte, fugaci e, aspetto evoluzionisticamente determinante, non reggono quasi mai il susseguirsi delle generazioni e non coinvolgono l’intera specie.
Natura e cultura, un binomio da sempre considerato irriducibile, due mondi considerati indipendenti e non comunicanti, sono ora considerate da molti esperti due dimensioni unite in una fortissima sinergia.
L’emergere in Homo sapiens di una cultura dal potenziale cumulativo, mai apparsa prima, innescò un altro, inedito meccanismo evolutivo: l’evoluzione culturale, appunto. Luigi Luca Cavalli Sforza, genetista di fama internazionale ma anche esperto di storia e di antropologia, descrisse analogie e differenze, seppur superficiali, che accomunerebbero l’evoluzione biologica a quella culturale. Entrambe possiedono un’unità minima isolabile e replicabile: in un caso il DNA, nell’altro l’idea.
Sia il DNA che l’idea sono soggetti a cambiamenti, il primo dei quali va sotto il nome di mutazione, il secondo di innovazione o invenzione. Entrambi gli elementi si trasmettono ad altri individui; nel caso del DNA per via riproduttiva, nel caso dell’idea attraverso modalità socioculturali: l’insegnamento, ad esempio. Tra DNA e idee ci sono anche molte differenze, ovviamente, innumerevoli e sostanziali. Ci limitiamo a evidenziarne due: la rapidità e l’intenzionalità. Se da un lato per l’evoluzione biologica un millennio equivale a poco più di un battito d’ali, dall’altro l’evoluzione culturale è in grado, in pochi secoli, di provocare conseguenze su larghissima scala. Anzi, talvolta basta qualche decennio: pensiamo alla crisi climatica. Quest’ultima, rappresentando una conseguenza dell’attività umana, è figlia dell’evoluzione culturale che ha consentito lo sviluppo di innovazioni tecnologiche sempre più sofisticate e, in questo caso, dannose per il pianeta. Inoltre, se gli effetti l’evoluzione biologica naturale sono afinalistici, l’evoluzione culturale ha sempre qualche livello di intenzionalità. Un esempio efficace è la trasmissione dei saperi intergenerazionale: quando le informazioni vengono trasmesse da genitore a figlio, non avvengono casualmente, ma attraverso uno specifico schema sociale, culturale ed educativo, con obiettivi specifici.
Fino a qui, tuttavia, questi due meccanismi evolutivi (biologico e culturale) sembrano correre su binari separati; posti in parallelo, ma separati. Da un lato lentissimi e ciechi mutamenti biologici, dall’altro scatti culturali e innovazioni pervasive e globalizzanti. In realtà natura e cultura, un binomio da sempre considerato irriducibile, due mondi considerati indipendenti e non comunicanti, ora sono considerate da molti esperti due dimensioni unite in una fortissima sinergia. Dovremmo parlare, allora, di evoluzione bioculturale.
Ibridare i programmi
L’ibridazione dei due processi è stata recentemente tentata da Edmund Russell, ideatore di una nuova e affascinante disciplina alla quale attribuisce il nome di “storia evoluzionistica”. Il risultato del connubio tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale dà vita a una forza evolutiva straordinariamente impattante, la più impattante: l’evoluzione antropogenica. Con questo termine intendiamo i processi di cambiamento delle specie viventi la cui causa non è da ricercare nelle forze dell’evoluzione naturale, bensì nelle conseguenze dell’evoluzione culturale.
Quindi l’evoluzione culturale è in grado di modificare l’evoluzione biologica. La prima, pervasiva e rapidissima, ha introdotto l’agricoltura, l’allevamento, l’industria, i pesticidi, gli antibiotici e l’editing genetico. Le conseguenze di queste attività rispecchiano, a oggi, la pressione selettiva più potente sul pianeta. Nel caso dell’editing genetico pare lapalissiano, ma anche i traguardi più antichi dell’evoluzione culturale hanno modificato il mondo naturale in termini netti e sorprendenti. L’estinzione della megafauna pleistocenica, ad esempio, fu da un lato conseguenza dell’ultima glaciazione, dall’altro un effetto della presenza dei primi esseri umani moderni. L’incremento delle abilità di caccia, dovute a un arricchimento culturale, consentirono ai primi sapiens arrivati in America dallo stretto di Bering (allora ghiacciato e quindi transitabile) di sterminare completamente non solo gli animali ormai estinti, ma anche cavalli, suini, bovini e altre specie da allevamento che continuarono invece a prosperare oltre gli oceani e che tornarono nel continente solo dopo l’arrivo delle caravelle nel 1492.
Proprio con la scoperta del Nuovo Mondo (ma in misura inferiore anche in precedenza) abbiamo iniziato a srdaricare dalla nicchia ecologica originaria vegetali, animali (e, con essi, i patogeni che veicolano) e li abbiamo importati ed esportati in tutto il mondo. Durante l’ultimo secolo l’uso di pesticidi e antibiotici è stato spesso sregolato. Così facendo, abbiamo consentito a virus e batteri resistenti a tali sostanze di emergere, emigrare, prosperare e… evolversi, a tal punto che la ricerca di antibiotici alternativi è diventata una necessità impellente della scienza biomedica. Tutti questi sconvolgimenti causati da Homo sapiens non sono al di fuori dei meccanismi evoluzionistici, anzi, ne sono parte integrante e ne accelerano le dinamiche. Abbiamo assaporato gli amari frutti dell’evoluzione antropogenica l’11 marzo 2020, quando l’OMS ha dichiarato COVID-19 “pandemia”, considerata oggi con ogni probabilità frutto di zoonosi (il passaggio di un patogeno da una specie a un’altra).
L’approccio evoluzionistico è in grado di insegnare molto sulle crisi della contemporaneità, come quella relativa ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità, sulle crisi sanitarie e addirittura sulle crisi di valori e dei rapporti con i diversi membri della nostra specie.
Insomma, l’approccio evoluzionistico è in grado di insegnare molto sulle crisi della contemporaneità, come quella relativa ai cambiamenti climatici e alla perdita di biodiversità, sulle crisi sanitarie e addirittura sulle crisi di valori e dei rapporti con i diversi membri della nostra specie. La ricerca scientifica ne ha preso atto ormai da decenni. Il dibattito e il lavoro interdisciplinare animano le conferenze e caratterizzano i laboratori di scienziati umani e naturali, come dimostra la Cultural Evolution Society, istituita pochi anni fa con questi propositi. I comunicatori della scienza continuano a sensibilizzare pubblici eterogenei sull’importanza dell’interdisciplinarità nell’approccio al panorama scientifico contemporaneo. Gli esperti di didattica informale insistono sulla trasversalità delle conoscenze e delle competenze, promuovendo percorsi di apprendimento aperti e co-costruiti da esperti di differente orientamento, come dimostra l’esperienza pluridecennale di Fondazione Golinelli, la “cittadella della conoscenza e della cultura”, che sta sperimentando da tempo i benefici di approcci interdisciplinari attraverso mostre e incontri.
Forse, allora, a scuola è l’ora di una riscossa. È giunto il momento di garantire agli studenti, ai cittadini di domani, gli strumenti necessari per sviluppare uno sguardo critico, attento e globale alle questioni contemporanee, partendo dalla reale comprensione di Homo sapiens e del suo singolare percorso. I tempi sono maturi per chiedere che di evoluzionismo si parli anche dopo la fine della lezione di scienze.