L a seconda metà del Novecento ha visto passare per le aule di tribunale discriminazioni razziali e omofobia. Da quei processi, oltre che dalle piazze e dalle lotte, sono scaturiti mutamenti profondi della società. E infatti proprio quei processi sono finiti al cinema e sugli LP, sono stati messi in scena e cantati perché cinema e musica osservavano e restituivano le trasformazioni di una società in cambiamento. Nel 1962 Il buio oltre la siepe diretto da Robert Mulligan raccontava la storia di un giovane nero ingiustamente accusato di stupro e di un avvocato bianco che accetta di assumerne la difesa. Vinse tre Oscar. L’anno successivo Bob Dylan riportava un fatto di cronaca in una delle sue canzoni più belle e famose: in una tavola calda una cameriera nera di 51 anni era rimasta uccisa dal bastone che un giovane e ricco bianco faceva distrattamente roteare attorno all’anulare. L’uomo dopo poche ore era uscito su cauzione, il giudice aveva voluto un processo “giusto” per mostrare che anche i potenti vengono puniti. La condanna per omicidio era stata di sei mesi: “now”, cantava Dylan, “is the time for your tears”. In Philadelphia di Jonathan Demme (1993), un avvocato omosessuale e affetto da AIDS citava in giudizio i suoi ex datori di lavoro per discriminazione, e a difenderlo era un suo collega nero.
Se il Novecento ha portato in aula razzismo e omofobia, questo è il tempo in cui a essere condannate sono la violenza di genere e la violenza ambientale. In un verso o nell’altro, quando una piaga finisce alla sbarra è perché si sta iniziando, se non a curarla, almeno a vederla. A settembre è uscito uno studio pubblicato dalla ONG Oil Change International e da Zero Carbon Analytics secondo cui negli ultimi nove anni sono triplicati i processi intentati da gruppi di cittadini e gruppi no profit contro compagnie petrolifere, del gas e del carbone. Se fra il 2005 e il 2015 se n’erano avuti circa uno all’anno, con l’Accordo di Parigi qualcosa si è mosso, si è acuita e insieme estesa la consapevolezza sul tema, è cresciuta la fiducia nelle proprie forze e nelle proprie ragioni che serve a denunciare un abuso. Nel 2015 le denunce sono state 5, nel 2023 addirittura 14. Molte negli Stati Uniti e in Europa ma poi anche in Asia, Africa, America Latina.
Da febbraio Eni è sotto processo in Italia per eccesso di emissioni: l’accusa è costituita da due ONG, Greenpeace e ReCommon, e si affida ai dati dell’IPCC per dimostrare le responsabilità climatiche dell’azienda. A fronte dello scioglimento di un ghiacciaio sulle Ande, in Perù un agricoltore ha chiesto all’azienda tedesca RWE (produttrice di energia da carbone) di rimborsare parte delle spese che la sua comunità ha dovuto affrontare per implementare misure di protezione dalle inondazioni. Nel 2022 Shell era stata condannata dal tribunale dell’Aja a tagliare entro il 2030 le proprie emissioni del 45% rispetto ai livelli del 2019, in quanto “stavano contribuendo al riscaldamento globale e alle sue disastrose conseguenze”. E ora si trova di nuovo sotto processo per non essersi messa in linea con le disposizioni del 2022. Nel frattempo è stata denunciata pure da un gruppo di 14.000 cittadini nigeriani per aver inquinato il fiume Niger.
Nel gennaio 2023 Cile e Colombia hanno chiesto spontaneamente alla Corte interamericana per i diritti umani di pronunciarsi in merito agli obblighi degli Stati di fronte all’emergenza climatica, in modo da trovare soluzioni “opportune e giuste”, con una particolare attenzione alle comunità più vulnerabili. Molti di questi processi sono in corso e non è detto che finiranno con una condanna, ma è già una notizia importante che ci si senta sempre più in diritto di denunciare quelli che sono abusi a tutti gli effetti.
Quando una piaga finisce alla sbarra è perché si sta iniziando, se non a curarla, almeno a vederla.
Parallelamente al dilagare dei casi di climate litigation che finiscono in tribunale, anche l’onda dei processi per violenza sulle donne continua a montare: a settembre ne sono cominciati due importantissimi, uno in Italia e l’altro in Francia. Il primo è quello per l’omicidio di Giulia Cecchettin, uccisa lo scorso novembre dal fidanzato Filippo Turetta con 75 coltellate perché lei lo aveva lasciato, stava per laurearsi e la sua vita sarebbe andata avanti, mentre lui voleva trattenerla perché fosse solo sua. Il secondo è il processo Pelicot. Gisèle Pelicot è la donna che per dieci anni è stata drogata e violentata in casa propria. Suo marito l’addormentava a suon di sonniferi e vendeva il suo corpo a uomini che durante il processo sono stati in grado di dire “non pensavo fosse uno stupro: il marito era d’accordo”. Se Bob Dylan riscrivesse oggi The Lonesome Death of Hattie Carroll per Gisèle Pelicot forse lo posizionerebbe lì il suo verso finale: “now’s the time for your tears”.
Lei non si è mai accorta di nulla e nulla avrebbe scoperto se lui non si fosse fatto beccare un giorno al supermercato a scattare fotografie sotto le gonne delle clienti. Quel giorno è stato arrestato, i poliziotti hanno sequestrato il computer e hanno trovato il materiale necessario per ricostruire circa 200 stupri, una cinquantina di uomini fra i 26 e i 74 anni, con tanto di filmati ed elenchi di nomi e cognomi. Tutto questo avveniva fra il 2011 e il 2020 a Mazan, un comune francese della Provenza, meno di seimila abitanti. Chissà quanti sapevano, nessuno ha mai denunciato.
Sembrano non aver niente a che fare, violenza sulla terra e violenza sulle donne, crisi climatica e patriarcato, i processi Pelicot e Cecchettin e quelli contro Big Oil in tutto il mondo. Invece fanno parte della stessa cultura possessiva, patriarcale, estrattivista. Le donne così come la terra, il nonumano, sono state rappresentate come oggetti da sfruttare e ammirare, comunque possedere e controllare. Giulia Cecchettin era per Filippo Turetta la cosa più bella del mondo, come un paesaggio, e doveva poterne disporre sempre. Doveva essere di sua proprietà, come si compra un appezzamento di terra. Il corpo di Gisèle Pelicot è stato usato come una miniera di carbone o una riserva di petrolio, una fonte di guadagno e di godimento. Lo dimostra quella frase agghiacciante, “non pensavo fosse uno stupro: il marito era d’accordo”. Quasi si trattasse davvero di un giacimento di petrolio e il governo avesse dato il permesso per il fracking. Il marito è il proprietario e il corpo della donna inerte e desoggettivato.
Ritroviamo questa sovrapposizione anche nel linguaggio che usiamo, basti pensare alla locuzione “foresta vergine”, che rinvia a un’immagine illusoria e distorta di purezza e di natura non ancora posseduta. Proprio perché la cultura da cui vengono queste forme di sfruttamento è la stessa ha senso allora guardare a questi processi come facce di una stessa medaglia, spia dello stesso tempo storico, in cui capitalismo, estrattivismo e patriarcato sono massimamente vincenti, massimamente crudeli. Ma dall’altra parte troviamo anche una resistenza sempre più forte, fatta di ribellioni, movimenti, presa di coscienza e cause intentate al patriarcato e all’estrattivismo.
Il corpo di Gisèle Pelicot è stato usato come una miniera di carbone o una riserva di petrolio, una fonte di guadagno e di godimento.
La maggior parte delle vittime di molestia non denuncia perché si rischia di non essere credute e anzi di venire colpevolizzate. Allo stesso modo molti dei processi per violenza ambientale – sì, chiamiamola così – ad oggi vengono vinti non dalle vittime ma dai carnefici. Però tutto cambia, anche le abitudini mentali più radicate. Forse ci saranno canzoni e film a raccontare quest’epoca in cui la cultura del possesso e dello stupro, dell’estrattivismo e del patriarcato è stata portata alla sbarra. Di violenza ambientale parla da tempo la rivista eco-femminista IAPh Italia, che si riferisce al pensiero di filosofe come Lea Melandri, Silvia Federici, Federica Giardini in Italia, Judith Butler e Donna Haraway all’estero, definendola in questi termini:
quella [violenza] che si attua contro il benessere dei nostri corpi e gli ecosistemi in cui viviamo attraverso pratiche di sfruttamento biocida, ossia attraverso uno sfruttamento che impiega mezzi e sostanze nocivi per la salute dei microrganismi animali e vegetali; (…) quella che non riconosce l’interdipendenza tra gli esseri viventi, la coappartenenza tra esseri umani e ambiente avvalendosi di una visione scientifica coloniale e colonizzatrice incentrata sulla definizione e normazione di corpi, etnie, culture e sulle istituzioni di rapporti gerarchici e di dominio tra essi.
Corpi ed ecosistemi s’intersecano come le mani di chi li sfrutta:
a partire da qui affermiamo pertanto la necessità del superamento del modello antropocentrico corrente: soggezione, sfruttamento della natura, degli esseri umani e delle altre specie e patriarcato si intrecciano infatti nella concezione delle relazioni come dominio e proprietà proprie di questo modello.
Già negli anni Settanta l’attivista francese Françoise d’Eaubonne metteva in rapporto queste forme di violenza come conseguenza diretta del capitalismo. Fu lei a introdurre il termine “ecofemminismo”, come relazione fra sfruttamento del corpo femminile e dell’ambiente in quanto prodotti della stessa cultura capitalistica e patriarcale. Negli anni Novanta Vandana Shiva e Maria Mies si chiesero invece se fosse corretto parlare di patriarcato, visto che non in tutte le società incentrate sul ruolo maschile si è prodotta altrettanta violenza sull’ambiente. La risposta che trovarono fu che il patriarcato per come lo intendiamo non è un concetto autonomo dal capitalismo, ma al contrario ne fa parte.
Proprio perché la cultura da cui vengono queste forme di sfruttamento è la stessa, ha senso guardare a questi processi come spia dello stesso tempo storico.
Per potersi sostenere, il capitalismo ha sempre avuto bisogno di “territori non monetizzati”: insomma, di lavoro e materia prima gratuiti. Già Rosa Luxembourg ne L’accumulazione del capitale (1913) aveva definito le donne come “ultima colonia”. Il capitalismo funziona appropriandosi di questi territori non monetizzati, per cui si è costituito grazie alle enclosures e alle colonie (terre che non appartenessero sulla carta a nessuno, se non a chi ci viveva da generazioni), e al lavoro non monetizzato, ossia degli schiavi, delle donne, delle specie nonumane. Diversi decenni più tardi, in Patriarchy and Accumulation on a World Scale (1986) fu Maria Mies a riconoscere nello sfruttamento di donne, natura e colonie la precondizione necessaria alla continuazione del modello di divisione del lavoro globale sotto il dominio dell’accumulazione capitalistica.
Posto l’uomo (bianco) al centro, tutto il resto serviva e serve a nutrire il sistema capitalistico su cui poggia la sua stessa esistenza e il suo benessere. Tutte le forme di dominio hanno in comune una stessa modalità di sfruttamento e soggiacciono a una stessa visione del mondo. E se il lavoro di riproduzione oggi non compete più solo alle donne, la cultura capitalistico-patriarcale da cui proviene quella struttura della società non ha certo finito di disfarsi, anzi. Trovandosi di fronte a una donna che decide di lasciarlo e di laurearsi, Filippo Turetta preferisce eliminare la persona che più ama anziché accettarne la libertà. Forse proprio allo stesso modo le violenze sugli afroamericani aumentarono proprio quando smisero di farsi sfruttare.
Quando Giulia venne uccisa, sua sorella Elena disse ai giornali che Filippo Turetta non era un’eccezione ma un figlio sano del patriarcato: quel gesto non era altro che la conseguenza ultima della cultura in cui era inscritto. A quei giorni è seguita una delle manifestazioni di Non una di meno più partecipate in Italia, forse la più partecipata di sempre. Intanto C’è ancora domani di Paola Cortellesi riempiva le sale cinematografiche anche di chi al cinema non ci va quasi mai e vinceva David di Donatello e nastri d’argento. Per le strade sembrava non si parlasse d’altro, la parola “patriarcato” era sulla bocca di tutti: non della minoranza che ne ha sempre avuto consapevolezza, ma per una volta della maggioranza delle persone.
Ora grazie al coraggio di Gisèle Pelicot in Francia le manifestazioni hanno per slogan “La vergogna cambia campo”. Non è più la vittima a doversi vergognare, come sempre è stato per i reati sessuali, ma finalmente il carnefice. In questo caso la vittima è una donna di 71 anni che ha deciso di metterci la faccia non tanto per se stessa quanto per tutte le altre. Ha chiesto al tribunale di Avignone che il processo avvenisse a porte aperte, ha voluto che i video dei suoi stupri fossero dati in pasto al mondo intero. Perché non è lei a doversi vergognare ma suo marito, tutti gli uomini che hanno partecipato a quegli stupri, tutti quelli che non c’erano ma avrebbero potuto esserci. E tutto ciò affinché questo processo raggiunga le coscienze di tutti, vi prenda casa, non sia mai dimenticato, le trasformi in coscienze nuove.
La cultura omofoba e razzista che si portava in aula nel Novecento è la stessa combattuta oggi da ecoattivismo e femminismo. Le violenze e gli abusi citati in giudizio – ambientali o di genere che siano – non sono anomalie ma conseguenze sistemiche di quella cultura. E questa a sua volta è fondamento del modo di produzione capitalistico. Forse siamo immersi in un percorso lungo e tortuoso che lega Il buio oltre la siepe a Gisèle Pelicot e al contadino peruviano che chiede a RWE di risarcire le ferite inferte all’ambiente in cui vive. Forse coincideranno il momento in cui nessun uomo penserà più a una donna in termini di purezza e possesso e quello in cui gli umani smetteranno di recintare foreste “vergini” e spremere terreni fino a esaurirne la linfa vitale. Guardare questi processi in una stessa ottica ci aiuta a inserirli in una critica sociale più vasta e profonda che mette in discussione l’intero sistema di pensiero in cui queste violenze affondano le proprie radici.