M a alla fine che cosa è un umano? Che cosa lo rende propriamente tale? Che cosa significa essere degli esseri umani? Se occorresse ricavare una sola lezione, sarebbe questa: tra essere qualcosa e significare qualcosa c’è una bella differenza. Che cosa significa essere umani? C’è un solo modo per stabilirlo: intersoggettivamente, come accade per il significato delle parole e per il senso della vita. Tornerò a domandarmi che cosa significa essere degli esseri umani e, in prospettiva, quale sia “il senso della vita”, provando a suggerire alcuni elementi di risposta in vista di futuri negoziati, appunto, intersoggettivi. Per ora mi accontento di riepilogare in che cosa consiste l’umanità dell’uomo: è l’esperienza di un animale dotato di facoltà come l’immaginazione, il linguaggio, la coscienza, la capacità scientifica, il senso morale e un certo margine di libertà – caratteri che distinguono la nostra specie da tutte le altre.
Due cose, però vanno assolutamente chiarite. Riconoscere che l’essere umano è una specie “unica” o “eccezionale” non vuol dire che lo saremmo da ogni punto di vista né, tantomeno, che gli esseri umani sarebbero moralmente superiori alle altre creature viventi. Significa solo che gli esseri umani posseggono al di là di ogni ragionevole dubbio, almeno in forma potenziale, certe capacità cognitive e certe abilità che non si riscontrano altrove nel regno animale. Forse (anzi è probabile) alcune specie se la possono vedere con l’uomo in termini di intelligenza bruta, ma l’intelligenza non è una delle facoltà esclusive che definiscono l’uomo. Anche gli “scemi”, se posso esprimermi così, sono a tutti gli effetti degli esseri umani umani: anche loro partecipano della coscienza, del linguaggio, dell’immaginazione (senza dimenticare che gli intelligenti, a volte, sono moralmente “ottusi”).
In secondo luogo, essere degli esseri umani non significa sempre, purtroppo, partecipare dell’“umanità”. Altrimenti saremo tutti buoni, generosi, tolleranti e pacifici, e il mondo sarebbe un posto meno atroce. In altre parole, ci è dato scegliere, almeno in linea di principio, se essere o diventare “più umani” o “meno umani”. Uso il termine “umano” in modo puramente descrittivo e scientifico, senza connotazioni etiche, normative o ideologiche.
Essere degli esseri umani non significa sempre, purtroppo, partecipare dell’‘umanità’.
Genetica a parte, e al di là delle leggi fisiche che governano il micro e il macrocosmo, come descrivere o caratterizzare il fatto dell’umanità? La prima conclusione, la più importante, è che l’attributo di umanità (in questa accezione estesa) non è una proprietà innata. Se la storia che abbiamo raccontato è corretta, almeno nelle grandi linee, Homo sapiens sapiens è diventato l’essere che siamo solo grazie a una scoperta sfociata in un’innovazione e in un’invenzione, non sulla scia di mutazioni casuali e determinismi genetici. Questo presuppone nei nostri predecessori la capacità cognitiva di innovare, come dimostrano i primi rudimentali utensili. Più esattamente, la capacità di elaborare categorie sotto forma di rappresentazioni mentali fondate sulla rassomiglianza. Ma è a dir poco improbabile che l’innovazione decisiva, la stessa rappresentazione simbolica arbitraria, in virtù della quale una cosa qualunque può “stare per” qualunque altra cosa, sia dipesa da specifici fattori genetici, come ben poco di genetico ha il fatto che abbiamo imparato a controllare il fuoco e a consumare cibi cotti piuttosto che crudi. Anzi, a rischio di espormi vorrei osservare che le teorie puramente genetiche (o puramente evoluzionistiche) sminuiscono impunemente l’importanza delle innovazioni, della creatività e della tecnologia nello sviluppo dell’essere umano e nel suo comportamento.
Gli scienziati duri e puri tendono a inorridire quando si parla di causalità “top-down”, cioè dall’alto verso il basso, ma come negare che le innovazioni introdotte dall’uomo – la contraccezione, gli antibiotici, l’agricoltura e moltissime altre novità – abbiano inciso in modo cruciale sul valore adattativo delle mutazioni fortuite? Con questo non voglio dire che i fattori ambientali possano trasformare in presa diretta il nostro corredo genetico e trasmettere quei cambiamenti per via ereditaria tramite il DNA, ma solo che trasformando l’ambiente in cui viviamo tendiamo anche a favorire (noi uomini, non la natura) determinate mutazioni, rendendo il gioco più difficile per altre. Sappiamo per esempio che nei campi di concentramento, come in certi casi di anoressia, il corpo delle donne sospendeva il ciclo mestruale, come se avesse capito che non era un buon momento per riprodursi. Sappiamo inoltre che la radioattività emessa dalle centrali e dalle bombe nucleari, oltre a risultare fortemente oncogena e patogena in genere, ha accelerato il ritmo delle mutazioni genetiche. In questo e altri casi il decorso dell’evoluzione non è più “solo” fortuito, ma viene influenzato nell’uno o nell’altro senso dall’ambiente antropico. Gli animali, con rare eccezioni, si adattano al mondo nel quale si ritrovano. L’essere umano, per contro, tende a adattare l’ambiente stesso, con esiti più o meno felici a seconda dei casi.
A questo proposito le scienze naturalistiche sono curiosamente contraddittorie. Da un lato, si mostrano tendenzialmente deterministe, cioè non ammettono la scelta, il libero arbitrio e l’autodeterminazione; dall’altro, gli scienziati non fanno che scegliere: non solo decidono che cosa è utile o importante studiare, ma anche come applicare le conoscenze acquisite, intervenendo in maniera flagrante sui meccanismi “naturali” del processo evolutivo (posto che nel caso dell’essere umano ne esistano di naturali). Nessun gene o combinazione di geni ha “obbligato” o predisposto alcuni dei nostri simili a costruire la bomba atomica, uno strumento che potrebbe annientare l’intera nostra specie, anzi la stessa vita sulla Terra. Nessun gene o combinazione di geni spiega come siamo giunti a elaborare la teoria dell’evoluzione (o qualunque altra teoria scientifica, fisica compresa).
Gli animali si adattano al mondo nel quale si ritrovano. L’essere umano, per contro, tende ad adattare l’ambiente stesso.
L’umanità dell’essere umano dipende quasi in toto da facoltà acquisite, o potenzialmente acquisibili. Le conseguenze sono rilevanti, eppure pochi ne hanno scritto. La prima e principale è questa: possiamo smarrire, farci portare via o addirittura non sviluppare mai le facoltà caratteristiche dell’essere umano. E non mi riferisco a gravi malattie, disturbi psichiatrici o fenomeni degenerativi come la demenza o l’Alzheimer: parlo di esseri umani per il resto ragionevoli e sani. Né alludo a sindromi specifiche, riconducibili a geni o gruppi di geni.
Non è solo un’ipotesi teorica, ma una tragica realtà, come è emerso dalle testimonianze di alcuni reduci, sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Per esempio dalle memorie di Primo Levi, Se questo è un uomo. I carcerieri nazisti hanno provveduto in modo sistematico e capillare a spogliare gli ebrei e i rom di ogni traccia di umanità, agendo sul piano fisico e su quello mentale. Al loro arrivo nel campo i prigionieri venivano privati di tutti i loro beni e perfino del nome, rimpiazzato con un numero tatuato sul braccio. Le coppie e le famiglie venivano smembrate, e quindi derubate di un aspetto fondante della loro identità di esseri umani: quello intersoggettivo. L’unica cosa che restava era il linguaggio, ma il programma di deumanizzazione prevedeva che tutti gli ordini fossero impartiti in tedesco, comprensibile solo a pochi. Levi è convinto di esserne uscito vivo, seppure non indenne, proprio perché aveva studiato il tedesco a scuola (oltre a essere un perito chimico, come tale autorizzato a lavorare al chiuso).
Ma di che cosa parlavano i prigionieri che parlavano la stessa lingua? Perlopiù erano tanto indeboliti dalla malnutrizione e dal lavoro massacrante che restavano in silenzio. E chi parlava troppo veniva picchiato. Quasi a ogni pagina Levi menziona Häftlinge (“detenuti”) che avevano perduto quelle facoltà dalle quali, biologia a parte, abbiamo visto dipendere l’umanità di Homo sapiens sapiens: l’immaginazione, la libertà, la consapevolezza di sé e degli altri, l’empatia e gli atti di umanità. Sui compagni di prigionia che avevano perso il sentimento del futuro, per esempio, Levi scrive: “Eravamo dei vecchi Häftlinge: la nostra saggezza era il ‘non cercar di capire’, non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito; non porre e non porsi domande”.
Nessun gene o combinazione di geni spiega come siamo giunti a elaborare la teoria dell’evoluzione.
Ma c’era anche una categoria che di umano non sembrava avere più nulla. Quei detenuti, curiosamente, erano detti Muselmänner, “mussulmani”: erano quelli che avevano ceduto, quelli che avevano gettato la spugna, i morti viventi in attesa di venire mandati nelle camere a gas. Anzi, perfino parlare di “attesa” era improprio, nel loro caso. Non aspettavano nulla, erano e basta. Levi scrive:
La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla.
Levi precisa che né i loro volti né i loro sguardi tradivano la benché minima “traccia di pensiero”, segno che i Muselmänner non avevano solo rinunciato a vivere, ma avevano smarrito la consapevolezza di essere vivi. Sul finale Levi conclude:
Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.
Se mai fosse necessario dimostrare che essere degli esseri umani è più che sopravvivere come organismi biologici, e che l’umanità non è garantita dalla genetica, queste pagine tolgono ogni dubbio. Ma il caso di Helen Keller e quello dei ragazzi selvaggi, cresciuti senza alcun contatto con la loro specie, oppure quello dei detenuti relegati per lunghi anni nel più totale isolamento dimostrano anche che le teorie dell’umanità fondate su argomenti genetici e innatisti non corrispondono alla realtà.
Possiamo smarrire, farci portare via o addirittura non sviluppare mai le facoltà caratteristiche dell’essere umano.
Umani non si nasce: al massimo possiamo diventarlo. E non solo: l’umanità conquistata si può perdere in qualunque momento, possiamo venirne derubati, come dimostra l’esempio dei campi di sterminio e il caso specifico dei Muselmänner, i morti viventi. La nostra umanità non è garantita e non si può dare per scontata, come Levi dimostra con la sua testimonianza, che forse poteva anche intitolarsi Se questo fosse un uomo.
Il primo corollario della rappresentazione simbolica arbitraria, insomma, è questo: la condizione umana è precaria. La seconda ricaduta fondamentale è altrettanto evidente, o dovrebbe esserlo: nessuno può accedere a una piena umanità da solo, agendo per conto proprio. Biologia e fisiologia a parte, solo l’interazione con altri esseri umani ci permette di accedere all’umanità. Nessun essere umano definito come tale in termini biologici può diventare umano da solo (né sopravvivere, peraltro). Al tempo stesso, per nostra sfortuna, non occorrono l’aiuto o la solidarietà di tutti gli esponenti della nostra specie per diventare o per rimanere umani. Se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che non basta appartenere a una stessa specie, Homo sapiens sapiens, per essere propriamente degli esseri umani o per venire trattati a pieno titolo come tali. Come nel caso di altri mammiferi, è sufficiente appartenere a un sottoinsieme della specie, come un gregge o un branco: in termini di convivenza umana, a una famiglia, a una stirpe, a una tribù, a un clan, a una gang, a una “razza”, a un’etnia, a una religione, a una nazionalità. Anzi, la nostra storia è insanguinata da conflitti e guerre incessanti tra gruppi di esseri biologicamente affini, e questo, purtroppo, è un argomento empirico in favore della teoria che sto svolgendo, non una prova in contrario.
Il problema, allora, è con chi accedere all’umanità. Alcuni pensano che il rimedio opportuno o necessario, in termini morali, sia coabitare umanamente con l’intera umanità: nasce così, per esempio, il progetto della Dichiarazione universale dei diritti umani voluto dalle Nazioni Unite, che non per nulla è detta “universale”. Così la pensano anche gli umanisti e gli illuministi in genere, anche se alcuni fanno presente, non senza qualche buona ragione, che il nostro moderno umanesimo è politicamente e ideologicamente sospetto, perché compromesso da valori essenzialmente europei e americani che fanno il gioco delle democrazie capitaliste di orientamento individualista e liberale.
La condizione umana è precaria, e nessuno può accedere a una piena umanità da solo, agendo per conto proprio.
Al tempo stesso la storia insegna che i diritti umani e la solidarietà umana non riguardano quasi mai l’intera umanità. Il fatto di appartenere a una stessa specie sul piano biologico non basta a motivare un trattamento paritario, improntato agli stessi diritti e agli stessi valori. Anzi, la solidarietà umana è sempre scissa tra il “noi” e il “loro”, tra le nazioni, le tribù, i clan, i gruppi etnici, le comunità di religione o di lingua, i generi e le ideologie. A quanto sembra un embrione di solidarietà internazionale si vede solo di fronte alle più gravi catastrofi naturali, cioè quelle di origine non antropica.
Purtroppo la storia che abbiamo raccontato non esclude a priori la scissione tra il noi e il loro, che si ritrova anche in tutte le teorie dell’essere umano, siano esse scientifiche, morali, ideologiche o religiose: per essere degli esseri umani, oltre ad appartenere a una stessa specie, basta instaurare un certo grado di intersoggettività con alcuni dei propri simili – “tutto” qui. Da un lato, nessuno può accedere a una piena umanità per conto proprio; dall’altro, non è indispensabile relazionarsi con tutti gli altri membri della specie per essere un essere umano dotato di immaginazione, linguaggio, coscienza, senso morale e un margine di libertà.
In compenso è difficile immaginare che due sole persone, lasciate a tu per tu, possano sviluppare e mantenere in essere sul lungo periodo quelle facoltà specificamente umanizzanti che la simbolizzazione arbitraria rende almeno teoricamente possibili. Dei gruppi umani di piccole dimensioni sarebbero in grado di esprimere un linguaggio, per quanto limitato, di concordare specifici significati condivisi solo dagli appartenenti al gruppo o di elaborare norme morali caratteristiche, ma le altre facoltà che definiscono l’essere umano, per esprimersi con pienezza, esigono il concorso di molti più individui.
La condizione dell’essere umano umano non è un dato, ma una potenzialità.
Quanti di preciso? È la “domanda da un milione di dollari” che forse non riceverà mai una risposta chiara, quantomeno in ambito scientifico. In linea di massima, per ovvie ragioni, non scegliamo in modo consapevole con chi instaurare quell’intersoggettività che ci rende umani. I primi rapporti sono già dati insieme all’intersoggettività nella quale nasciamo e veniamo socializzati. Almeno per quanto concerne la lingua madre e le nostre credenze di base. Con buona pace delle teorie deterministe e innatiste, però, l’avvento della simbolizzazione arbitraria, fondamentale innovazione, ha regalato ai nostri simili una reale possibilità di scelta: siamo noi a decidere con chi praticare l’intersoggettività. Possiamo cambiare idea, religione, nazionalità, e questo lo sanno tutti. Più di rado ricordiamo le persone che smettono di parlare una lingua per adottarne un’altra, come a volte capita a intere comunità nel giro di una o due generazioni: pensiamo all’Irlanda o alla Bretagna. I bambini adottati in giovane età, trapiantati in paesi, culture o contesti religiosi completamente diversi da quelli di origine, non rimangono la persona che sarebbero diventati se nei primi anni di vita fossero stati allevati nel paese natale. Sul piano empirico non è corretto affermare che gli individui o i gruppi umani sono incapaci di cambiare nel corso di una vita o di un paio di generazioni, e di cambiare in modo anche molto radicale. Perlopiù, come nel caso delle adozioni, quel cambiamento è coatto, imposto dalle circostanze e dall’iniziativa di altri esseri umani. In altre circostanze, però, è l’individuo stesso a volerlo: pensiamo alle conversioni religiose, all’emigrazione o agli amori interculturali con nozze e figli al seguito.
Si profila così una terza decisiva conseguenza di quell’umanità che procede dalla simbolizzazione arbitraria: la condizione dell’essere umano umano non è un dato, ma una potenzialità. Ed è sempre questione di gradi. Si può essere più o meno coscienti, più o meno liberi, più o meno orientati al futuro, più o meno aperti all’intersoggettività, più o meno creativi a seconda dei casi; insomma, si può essere più o meno umani. A costo di ripetermi, devo sottolineare che “umano”, almeno nel presente contesto, è un vocabolo puramente descrittivo, non un giudizio di valore. In altri termini, nessuno merita un trattamento inumano solo perché ha smarrito, non ha mai posseduto o ha ripudiato una delle facoltà che ci rendono umani. Se attribuiamo un valore all’umanità in questo senso non connotato, però, occorre anche prepararsi a difendere e sviluppare le facoltà che fanno di noi quello che siamo: un certo grado di immaginazione, un certo margine di libertà, il linguaggio, la coscienza e, in generale, la capacità di porci il problema del mondo e dell’esistenza umana (poco importa se in chiave scientifica o artistica), insomma per domandarci se convenga lasciare le cose come stanno, secondo la forma che hanno preso. Balzac osserva da qualche parte che lo scrittore deve avere i piedi per terra e la testa tra le nuvole, cioè essere insieme realista e romantico. Letteratura a parte, la metafora descrive bene la condizione esistenziale dell’essere umano che aspira all’umanità.
Per concludere, allora, una quarta conseguenza, quella che tenevo a dimostrare quando ho iniziato a scrivere questo libro, anzi un principio che ho incarnato per tutta la mia vita adulta, è il seguente: in quanto esseri umani disponiamo di un margine di libertà, possiamo scegliere in che modo e con chi vivere le nostre vite, come individui e come collettività. Quello che resta da capire è se la nostra condizione potenzialmente umana di esseri simbolici e intersoggettivi ci fornisca qualche orientamento intorno alle scelte che dovremmo compiere, cioè sulla questione dei valori, delle norme, della morale e dell’ideologia, e se ci dica con chi, ovvero in quale compagnia.
Un estratto da Essere o non essere umani di Björn Larsson (Raffaello Cortina, 2024).