I l mese di giugno del 2010 resterà per sempre negli annali dell’informatica. È in quei giorni che Sergey Ulasen, all’epoca impiegato della società bielorussa VirusBlokAda, viene contattato dai gestori della centrale nucleare di Natanz, in Iran, per risolvere una serie di anomalie che impedivano il corretto funzionamento di diversi PC industriali della struttura. Qualche mese dopo il pubblico venne così a conoscenza di Stuxnet, un virus informatico progettato in tandem dai governi statunitense e israeliano con lo scopo di sabotare le centrifughe dell’impianto energetico e che, a causa di un errore di programmazione, aveva finito per diffondersi in tutto il mondo. La sua ultima apparizione risale al 25 dicembre 2012, circa tre anni dopo la data in cui gli esperti di sicurezza informatica ipotizzano ne sia stata realizzata la prima versione.
Se per gli esperti di cyber security la scoperta di Stuxnet rappresenta una pietra miliare della disciplina, questo non vale per l’apparato militare. Il primo attacco informatico rivolto a un’infrastruttura risale al 1982, quando la CIA, alterando il funzionamento di un software sovietico, riuscì a causare un’esplosione lungo il gasdotto Trans-Siberiano. Tuttavia, pur non trattandosi del primo attacco informatico sferrato da una nazione sovrana contro le infrastrutture di un’altra – la vicenda di Stuxnet si carica di un più ampio significato e valenza. Il fatto di essere stato individuato da tecnici civili e portato all’attenzione del pubblico fa della sua scoperta il momento in cui il mondo ha preso piena consapevolezza del fatto che il cyberspazio era ormai diventato un dominio bellico e che la guerra condotta con strumenti informatici era una realtà in atto, piuttosto che una potenzialità latente nelle trame di film e romanzi thriller o nelle parole di paper scritti da analisti militari.
Netwar e cyberwar
La cyber guerra è già tra noi; a dirlo è John Arquila che, insieme al collega David Ronfeldt, introdusse il concetto in un saggio seminale dal titolo Cyberwar is Coming!, pubblicato da RAND nel 1997 all’interno di una collettanea – In Athena’a Camp. Preparing for Conflict in the Information Age – dedicata all’analisi dei cambiamenti generati nella natura dei conflitti dalle trasformazioni proprie dell’età dell’informazione. Nel saggio, Arquila e Ronfeldt individuano due forme di conflitto influenzate da queste trasformazioni. Chiamano netwar la prima e cyberwar la seconda. Sono entrambe forme di conflitto che hanno a che fare con la conoscenza: la prima opera a livello della società ed è portata avanti tramite forme di comunicazione connesse in rete; la seconda opera invece a livello delle strutture militari.
La netwar o information warfare, come la definisce il colonnello Richard Szafranski in un altro paper – A Theory of information warfare – anche questo datato 1997, è un conflitto tra nazioni e società in cui l’obiettivo è disgregare, danneggiare o modificare quello che una data popolazione sa o crede di sapere su se stessa e il mondo che la circonda. L’obiettivo di questa categoria di attacchi è quello di recapitare un numero di messaggi sufficienti a convincere l’avversario ad abbandonare il conflitto o a modificare il suo atteggiamento. All’interno di questo quadro teorico, le tattiche operative con cui l’agenzia russa Internet Research Agency (nota anche come “la fabbrica dei troll”) ha agito negli Stati Uniti, utilizzando pagine e profili social per diffondere diverse tipologie di messaggi – dalle fake news su Hilary Clinton a contenuti favorevoli al nazionalismo nero, fino alla propaganda filo russa – acquisiscono un senso che va oltre il tentativo di influenzare il risultato di una o più tornate elettorali. Operazioni di questo genere acquisiscono senso in un’ottica di lungo periodo: tramite l’inoculazione di materiale memetico, ovvero singole unità di informazione facilmente replicabili che spesso hanno la forma di contenuti digitali virali, un paese mira a modificare le percezione che il corpo sociale di un paese avversario ha di lui: senza con ciò voler ottenere dei risultati chiari, definiti e misurabili.
La netwar opera a livello della società ed è portata avanti tramite forme di comunicazione connesse in rete; la cyberwar opera invece a livello delle strutture militari.
Diversamente, la cyberwar è una forma di conflitto che fa riferimento alla progettazione ed esecuzione di operazioni militari secondo principi collegati alla nozione di informazione. Per Arquila e Ronfeldt non si tratta di una novità. Aspetti cibernetici possono essere ritrovati nella storia delle dottrine militari, perché hanno di fatto a che fare con capacità superiori al nemico di organizzare e sfruttare le catene di comando, controllo, comunicazione e intelligence.
L’organizzazione della cavalleria mongola, con strutture di comando decentrate ed efficaci strumenti di comunicazione a lunga distanza, permetteva di mandare in confusione gli avversari, puntando a colpire il cuore della loro catena di comando, senza doversi necessariamente impegnare in uno scontro per eliminarne le forze. La presa di Samarcanda è l’esempio perfetto dell’efficacia di questa impostazione strategica. Grazie alla loro intelligence i Mongoli furono in grado di aggirare l’esercito avversario, numericamente preponderante, per attaccare indisturbati la capitale, rimasta sguarnita. La fuga del regnante di Samarcanda consegnò loro la città senza obbligarli a scendere in combattimento. In modo simile, Stuxnet, muovendosi indisturbato nello spazio digitale, ha attaccato le infrastrutture iraniane rallentando in modo considerevole il programma di sviluppo nucleare del paese. Un obiettivo raggiunto senza il bisogno di mobilitare apertamente le forze armate, ottenuto senza distruggere o ingaggiare apertamente le difese avversarie. Questo fattore è fondamentale anche per evitare conseguenze o ritorsioni, per esempio le risoluzioni con cui l’ONU condannò Israele dopo il bombardamento della centrale nucleare irachena di Osirak nel 1981.
Campi di battaglia
Al centro dell’attenzione di entrambe le forme di guerra che Arquila e Ronfeldt individuano c’è la volontà di minare la facoltà dell’avversario di proseguire le ostilità o, addirittura, di impedirgli di impegnarsi in un conflitto. Questo avviene o agendo a livello sociale attraverso azioni che influenzano le conoscenze e le credenze dei soggetti che determinano l’opinione pubblica (elite intellettuali o popolazione fa poca differenza), oppure operando a livello militare, prendendo di mira la catena di comando, controllo, comunicazione e intelligence del nemico.
Tutto questo influisce, tanto a livello strategico che tattico, sulla natura del campo di battaglia che ne risulta così profondamente alterato. È tenendo conto di questo fattore che Charles Heal e Robert J. Bunker hanno elaborato il concetto di “operazioni pentadimensionali”.
Secondo i due autori, l’evoluzione del campo di battaglia ha inizio con la civiltà classica dove a scontrarsi sono due armate che si fronteggiano in uno spazio caratterizzato da due dimensioni: la durata e la lunghezza. La forma geometrica che caratterizza questo modo di fare la guerra è la linea, il vettore lungo cui i due eserciti di muovono fino al momento dello scontro.
Col medioevo la concezione del campo di battaglia si modifica. Alla durata e alla lunghezza si aggiunge la dimensione dell’altezza. Gli scontri in campo aperto si fanno più rari e, in un panorama di città stato fortificate, diventa prevalente la modalità dell’assedio. Il campo di battaglia si estende quindi tanto in orizzontale quanto in verticale, con le mura delle città fortificate che ne diventano parte. La forma geometrica che caratterizza questo modo di fare la guerra è il piano.
Applicato al campo di battaglia, il concetto di cyberspazio rappresenta tutto ciò che accade al di là dei sensi.
L’avvento dell’epoca moderna aggiunge a durata, lunghezza e altezza la dimensione della profondità. Le armi da fuoco rendono infatti possibile estendere l’ampiezza del campo di battaglia oltre la linea del fronte o la testa delle armate nemiche. Per poter assorbire meglio i colpi dell’artiglieria le mura delle città vengono abbassate e ispessite, in modo da resistere meglio all’impatto dei proiettili. La gittata e il potenziale distruttivo dei proiettili diventano così fattori fondamentali durante lo scontro. La forma geometrica che caratterizza questo modo di fare la guerra è il piano.
Infine, con l’avvento della nostra epoca post moderna, al campo di battaglia si aggiunge una quinta dimensione, quella che i due autori indicano con il termine “cyber”. Si tratta di uno spazio che coesiste con lo spazio fisico del campo di battaglia ma è da esso separato da una barriera sensoriale. Quindi, applicato al campo di battaglia, il concetto di cyberspazio rappresenta tutto ciò che accade al di là dei sensi. La forma geometrica che caratterizza questo modo di fare la guerra è il tesseract o ipercubo.
In questo reame, all’interno di questa configurazione spaziale, a fare la differenza è la capacità di operare in segretezza per trasformare in contigui due spazi separati senza che, da parte dell’avversario, vi sia consapevolezza di quanto sta accadendo. È il principio con cui funziona la dottrina degli omicidi mirati. Un drone o una squadra di intervento come quella responsabile dell’uccisione di Osama Bin Laden pianificano le proprie operazioni in base ai dati raccolti sull’obiettivo grazie a dispositivi di sorveglianza sempre più sofisticati e diffusi e le eseguono o cercano di eseguirle al di là della barriera dei sensi degli avversari. Di fatto, quando entrano in azione, non fanno altro che materializzare uno spazio di guerra all’interno di uno spazio che, fino all’istante precedente, ne era estraneo tanto alla logica quanto alle convenzioni o al diritto. Allo stesso modo è in base a questo stesso principio che il moderno terrorismo deve la sua efficacia sia pratica che simbolica. Non sembra dunque scorretto notare come sia proprio la loro capacità di rendere invisibile una rete di comunicazione a determinare il grande rilievo dato dall’opinione pubblica all’utilizzo di app di messaggistica e sistemi di comunicazione criptati da parte dei reclutatori dell’ISIS. Rilievo che appare ingiustificato in relazione al loro impatto effettivo che è stato tutt’altro che determinante nelle strategie del Califfato, come riporta Carola Frediani in un capitolo del suo recente Guerre di rete.
La guerra smette di essere un momento di eccezionalità sancito da una serie di elementi formali per diventare una qualità che si può materializzare in qualunque luogo e in qualunque momento.
Concepiti in questo modo, i confini del campo di battaglia si fanno più sfumati, indefiniti. La guerra smette di essere un momento di eccezionalità sancito da una serie di elementi formali per diventare una qualità che si può materializzare in qualunque luogo e in qualunque momento, perché lo spazio in cui essa si sviluppa e si prepara è il cyberspazio. La guerra diventa così un’estensione della nostra quotidianità che prosegue così la sua marcia verso una forma di mobilitazione permanente, di coscrizione pervasiva a cui siamo costantemente sottoposti. In questo collude con quella nostra condizione di esistenza che Mark Jarzombek definisce “digital post-onthology”. Ovvero una nuova forma di paranoia diffusa, che riposa sulla consapevolezza di abitare un mondo popolato da entità digitali invisibili che sono in grado di condizionare la nostra esistenza creando al suo interno numerose rotture e discontinuità.
Credo perciò che non sia un errore individuare in questa deterritorializzazione della guerra come potenzialità sempre presente una delle cause dei fenomeni di territorializzazione a cui assistiamo di frequente in questi ultimi anni. Mano a mano che le tecnologie dell’informazione e i loro usi bellici sfumano i confini di quello che eravamo abituati a chiamare stato nazione, assistiamo al ritorno del nazionalismo come serbatoio di miti e forma di identificazione: sono proposte gradite a un corpo sociale che fatica a orientarsi in uno spazio caratterizzato da ampie sacche di opacità da cui può materializzarsi in qualsiasi momento, in ogni luogo e a una qualsiasi grado di intensità, lo spettro della guerra, col suo potenziale di morte e distruzione.