L’ equilibrio della natura non esiste”, recita il titolo di un articolo di Marco Ferrari, uscito qualche settimana fa sul Tascabile. È un’analisi molto approfondita della storia del concetto di equilibrio naturale, di come viene utilizzato oggi, applicato agli ecosistemi, e dell’uso improprio che spesso ne fanno ricercatori e comunicatori della scienza. Il fulcro dell’articolo è questo: in natura gli equilibri statici non esistono, non ci sono ecosistemi in cui nulla cambia perché si è raggiunta l’armonia, in assenza di disturbo – ma nonostante questo, scrive Ferrari, il concetto di “equilibrio naturale” è un’idea che fatica a essere abbandonata dal pubblico, troppo ancorato all’idea di una natura perfetta, primigenia e incontaminata, di uno stato ideale a cui si dovrebbe ritornare, contrapposto alle violenze dell’azione umana.
Ferrari esamina quindi in breve le teorie più recenti, come quella di flusso e la teoria del caos – senza soffermarsi troppo sulle ripercussioni di queste nuove idee – e chiude il ragionamento citando gli interventi umani per la conservazione della natura che, afferma, possono avere risultati positivi e in alcuni casi, come per esempio per il cambiamento climatico, sarebbero indispensabili. “La biologia della conservazione e la politica ambientale quindi dovrebbero allontanarsi da un approccio che vede la natura sempre in grado di fare da sola, per ritornare a stadi antichi e più felici”. Stadi che però, sarebbero spesso impossibili: “gli ambienti naturali di tutta la Terra sono ormai così profondamente modificati dall’azione umana che il loro completo ritorno a uno stato primigenio, senza interventi della nostra specie, risulta quasi impossibile”.
Parto quindi dalla dotta analisi di Ferrari per aggiungere qualche dubbio: se le cose stanno così, è davvero necessario il nostro intervento? Per fare cosa? Per riportare gli ecosistemi a un equilibrio che non esiste? E se pure esistessero degli stati stazionari, a quale “età dell’oro”, o soglia di accettabilità, dovremmo riportare la natura? A com’era nel 1492? Nel 1815? Nel 1918?
Se l’equilibrio perfetto degli ecosistemi in natura non esiste, è davvero necessario il nostro intervento?
Le vecchie teorie ci hanno sempre insegnato che un nuovo ambiente, per esempio un’ isola vulcanica appena affiorata, viene colonizzata prima da specie di piante e animali detti pionieri, perché si adattano ad ambienti poveri e instabili; poi man mano la complessità aumenta e le prime specie vengono sostituite da altre seguendo una serie di successioni ecologiche con una gamma di specie ben definite per quell’ambiente, sino ad arrivare al cosiddetto climax, uno stato stabile e perenne in cui l’ecosistema si autoperpetua indefinitamente in un equilibrio inalterato.
I primi a ventilare l’idea del perenne disequilibrio degli ecosistemi furono Gleason e Watt negli anni Venti, ma si sono dovuti aspettare gli anni Sessanta per arrivare a una formalizzazione della teoria: le successioni ecologiche non sono prevedibili, non portano da nessuna parte e non esistono climax di lunga durata. Ogni specie infatti si comporta in modo individualistico, le comunità si disgregano o si aggregano perché è fisiologico che nuove specie arrivino e altre si estinguano, che animali e piante si evolvano in altre specie e che il numero di individui vari nel tempo, perché continui e imprevedibili sono i disturbi. Se si guarda alla geografia degli ecosistemi, la risultante non è quindi un paesaggio omogeneo tendente a un deterministico e inevitabile climax, ma un puzzle a macchia di leopardo in cui ogni tesserina ha la sua storia.
Si delineano quindi le cosiddette successioni multidirezionali: ogni comunità va per la sua strada e non segue un percorso predefinito per sfociare verso un singolo, predeterminato, equilibrio. Questo è per esempio il motivo per cui è un grave errore teorico comparare ecosistemi differenti e aspettarsi che accadano le stesse cose, a parità di disturbo. Se, per dire, introduco dei gatti o delle manguste in Nuova Caledonia o a Creta, ecosistemi differenti reagiranno in modo differente, non posso aspettarmi che gli ecosistemi si muovano tutti omogeneamente in un’ unica direzione, e questo vale anche per ecosistemi vicini.
I primi a ventilare l’idea del perenne disequilibrio degli ecosistemi furono Gleason e Watt negli anni Venti, ma si sono dovuti aspettare gli anni Sessanta per arrivare a una formalizzazione della teoria.
Un esempio pratico di questo ci viene dalle isole Krakatoa, che dal 20 maggio al 27 agosto 1883 furono devastate da una immensa eruzione vulcanica che cambiò la geografia dell’arcipelago e che portò alla distruzione totale degli ecosistemi preesistenti, sterilizzando in molti casi l’area. Nello Stretto della Sonda ci sono 4 isole, Rakata, Sertung, Panjang e Anak Krakatoa, equidistanti da Giava e Sumatra (circa 44 km), un perfetto laboratorio a cielo aperto per studiare l’evolversi dei sistemi naturali. Mentre le comunità vegetali lungo la costa in ciascuna delle tre isole principali (Anak Krakatoa è emersa dopo) hanno visto il succedersi nel tempo di specie analoghe, così non è stato per le foreste interne: tutte le componenti della fauna e della flora continuano a cambiare in modo diverso su ciascuna isola, dando luogo a successioni ecologiche “personalizzate” man mano che arrivano nuove specie o vi è un disturbo vulcanico. Per esempio, l’architettura delle foreste di Panjang e Sertung tra il 1983 e il 1989 è cambiata molto rapidamente, mentre i cambiamenti su Rakata sono stati molto lenti. Il chiudersi della volta forestale a Rakata è stato il momento col maggior tasso di estinzione di animali e piante. Insomma, ognuna delle tre isole ha le proprie specie e mostra modelli di cambiamento differenti.
Ora, proviamo a fare delle ipotesi. Su Rakata all’inizio del XX secolo il tedesco Johann Handl ottenne una concessione per estrarre pomice, attività che durò per due anni. Mentre era lì Handl piantò un orto con una trentina di specie commestibili, e il suo insediamento è probabilmente implicato nell’arrivo dei ratti sull’isola. Ricordo che questa è l’isola la cui componente forestale si è dimostrata più stabile e dove i cambiamenti sono stati più lenti. Cosa succederebbe a Rakata se, per dire, decidessi di eliminare i ratti perché sono antipatici? Viste le continue successioni ecologiche, si tratterebbe di un intervento di “risanamento” o un ulteriore disturbo, giusto ora che i ratti si sono integrati nella comunità ecologica? E quale sarebbe la conseguenza?
Questo ci porta a un ulteriore sviluppo della nostra comprensione dell’evoluzione degli ecosistemi poiché negli anni Sessanta il concetto generale di non-equilibrio fu formalizzato da Edward Lorenz nella “teoria della dinamica caotica”, o “teoria del caos”. L’idea di base è che i processi naturali sono fondamentalmente erratici, discontinui e imprevedibili. L’idea è ben riassunta dalla metafora dello scrittore di fantascienza Ray Bradbury nel racconto “Rumore di tuono” del 1952: un viaggiatore del tempo uccide per sbaglio una farfalla nel Giurassico e al suo ritorno il presente è cambiato, perché anche un evento apparentemente insignificante potrebbe avere enormi ripercussioni a lungo termine.
Negli anni Sessanta il concetto generale di non-equilibrio fu formalizzato da Edward Lorenz nella teoria del caos: l’idea di base è che i processi naturali sono fondamentalmente erratici, discontinui e imprevedibili.
I modelli matematici che hanno permesso il salto a questa nuova visione dell’ecologia hanno anche provato che le proprietà delle comunità emergenti, come per esempio le reti ecologiche e la resilienza all’invasione di specie alloctone, emergono dalle interazioni individuali tra i membri della comunità, e a loro volta le caratteristiche della comunità influenzano le interazioni. “I sistemi caotici”, mi spiega Marcello Abbrescia, professore associato del Dipartimento di fisica dell’Università di Bari ed esperto di dinamica dei sistemi, “esibiscono un fenomeno detto biforcazione. Possono cioè evolvere all’improvviso verso stati molto differenti fra loro anche quando le loro condizioni iniziali sono molto simili. O possono anche presentare degli attrattori, cioè degli stati verso cui evolvono partendo invece da condizioni iniziali molto diverse”.
Grazie alle simulazioni matematiche si è per esempio dimostrato che la biodiversità, ovvero la ricchezza in numero di specie, è in teoria un fattore determinante che previene l’invasione da parte di altre specie (e questo spiegherebbe perché le isole siano più a rischio di invasioni alloctone rispetto alle masse continentali), ma che la composizione in termini di specie è irrilevante.
Sotto queste premesse, la biologia delle popolazioni cambia radicalmente prospettiva. Siamo ancorati per esempio alla vecchia concezione dei cicli preda-predatore descritti dalla semplice equazione di Lotka-Volterra e dall’immortale esempio della lepre e della volpe artica, coi loro cicli periodici: se aumentano le lepri, dopo un po’ aumentano i loro predatori specializzati, le volpi artiche, ma questo porta a un crollo della popolazione di lepri, e di conseguenza diminuiscono le volpi, a cicli regolari. Solo che questa regolarità non esiste davvero.
I modelli matematici che usiamo sono delle semplificazioni. Ci dicono in che direzione potrebbe andare un certo scenario considerando determinati parametri, in un certo intervallo di probabilità statistica. Per esempio, le previsioni del tempo a breve termine, che si basano su questi modelli, sono relativamente attendibili, ma su un tempo più lungo il comportamento caotico prevale e non è possibile affermare con sicurezza se tra due settimane ci servirà l’ombrello.
I sistemi caotici possono evolvere all’improvviso verso stati molto differenti fra loro anche quando le loro condizioni iniziali sono molto simili.
Gli ecosistemi sono sistemi ancora più complessi e meno conosciuti dei fenomeni atmosferici. Se rilascio 10 orsi, 100 lupi, 1000 cervi, o se li rimuovo dall’ecosistema, o se uccido la farfalla di Ray Bradbury, che succede? Chi può dirlo con certezza? Chi può dire qual è l’attrattore che ci porta più vicini al collasso ecologico, se non conosciamo e non comprendiamo appieno il sistema? Quale potrebbe essere l’evento verso la catastrofe? Ci sono infiniti esempi di disastri ambientali causati dai nostri interventi di restaurazione maldestri.
Uno, da manuale, è quello delle chiocciole del genere Partula, distribuite nelle isole dell’Indo-Pacifico. Nel 1967 il governo della Polinesia francese introdusse sulle isole la chiocciola africana gigante come fonte di cibo, ma alcuni individui scapparono e cominciarono a devastare gli orti. Per rimediare a questo errore, le autorità ne fecero un altro, importando Euglandina rosea, una chiocciola carnivora. Invece che mangiare le chiocciole giganti, la chiocciola carnivora preferì cibarsi delle chiocciole Partula, native, più piccole, più lente e più facili da predare, portandole in molte isole all’estinzione. Reintrodurre le specie sopravvissute senza rimuovere Euglandina è insensato, ma ora se rimuoviamo Euglandina che conseguenze ci saranno sulle attuali prede?
La domanda di fondo rimane la stessa: che scelte abbiamo, se intervenire attivamente potrebbe portare a conseguenze imprevedibili? Potremmo non fare assolutamente niente, e lasciare che gli ecosistemi se la cavino, se ci riescono. Oppure potremmo cercare di minimizzare il disturbo umano. Ridurre le emissioni di CO2, smettere di importare nuove specie bloccando il commercio di animali esotici smettere di intervenire sulle foreste convinti che non possono sopravvivere senza di noi, e così via. Paradossalmente tuttavia, anche la rimozione improvvisa di un fattore di disturbo antropico potrebbe avere conseguenze. Se domani eliminassimo all’improvviso tutti gli scoiattoli grigi americani importati per “estetica” in Inghilterra in epoca vittoriana, non sappiamo chi farebbe da dispersore di semi vista anche l’assenza di scoiattoli comuni, quelli che erano nativi ma che si estinsero nel XIX secolo e furono reintrodotti dall’Europa, per poi quasi estinguersi nuovamente sotto la pressione delle malattie e degli scoiattoli americani.
La domanda di fondo rimane: che scelte abbiamo, per tutelare la natura, se intervenire attivamente potrebbe portare a conseguenze imprevedibili?
In Italia la gestione della fauna è spesso affidata agli Ambiti Territoriali di Caccia (ATC), che fondamentalmente dovrebbero prendere decisioni sull’entità prelievo venatorio, su quali specie necessitano di “selezione”, su quali specie cacciare e su eventuali rilasci di specie di interesse venatorio come lepri e pernici. In passato le associazioni venatorie hanno rilasciato specie come cinghiali, minilepri, siluri, con conseguenze disastrose, fondamentalmente perché non avevano idea di cosa stavano facendo. Oggi la situazione non sembra molto migliorata.
Gli equilibri in natura non esistono, gli ecosistemi sono caotici e imprevedibili, e noi siamo immersi in questo vortice senza meta. Ma considerando la complessità di tutto questo, ogni nostra scelta in materia ambientale dovrebbe essere cautamente studiata e modellizzata da esperti, nel tentativo, almeno, di ridurre la probabilità statistica di avvicinarci al punto di non ritorno.