I n principio l’universo era un ammasso inconcepibilmente caldo e precario di energia in contrazione. Un giorno remoto e violento, la sua densità superò una certa soglia estrema, e fu il grande scoppio del Big Bang. L’energia originaria si effuse e generò la materia. In un abbrivio di tempo che durò miliardi di anni, coagularono costellazioni e galassie sterminate, lo spazio-tempo si flesse nel dedalo del cosmo, pianeti incandescenti si raffreddarono e solidificarono. In origine, si dice, furono l’energia e il nulla.
Tre miliardi e mezzo di anni fa, su un anonimo pianeta della Via Lattea, fu una nuova concentrazione di energia. Negli abissi marini della Terra si addensarono le sostanze chimiche del brodo primordiale e la vita ebbe inizio. L’evoluzione della vita sulla Terra, e dunque anche l’intera vicenda delle società umane, può essere riletta come la storia di transizioni energetiche successive. Gli esseri ancestrali si alimentavano originariamente delle risorse geochimiche presenti nelle sorgenti idrotermali degli abissi marini, ma nell’arco di miliardi di anni impararono a ricavare energia dal Sole e dall’atmosfera. Col balzo energetico successivo, alcuni organismi cominciarono a nutrirsi di altri organismi, e la biomassa divenne una nuova, dirompente fonte di energia. Tra questi esseri divoratori di vita, gli umani ebbero controllo sul fuoco con cui ampliarono la loro dieta frugivora e, millenni dopo, bruciarono la materia vegetale e animale fossilizzata per ricavarne una quantità di energia immensa, mai vista prima di allora e sconosciuta a tutti gli altri viventi.
Dall’uso intensivo dei combustibili fossili dipendono oggi la libertà e il potere degli umani, ma prima che questi cominciassero ad adoperare i fossili come fonte principale di energia – in quel lasso di tempo sterminato che dall’origine della vita conduce alla rivoluzione industriale – le uniche fonti in circolazione erano puramente organiche. I viventi primordiali che comparvero sulla Terra erano dei batteri anaerobi che prosperavano sospesi nelle correnti geotermiche sottomarine, assimilando calore dalla fioca luce solare filtrata nelle plaghe oceaniche.
Due miliardi e mezzo di anni fa, degli esseri fotosintetici chiamati cianobatteri o “alghe azzurre” cominciarono a prelevare molecole di anidride carbonica (CO₂) dall’atmosfera e a combinarle con quelle d’acqua (H₂O) per mezzo della luce solare. L’esito di questa combinazione è energia chimica sotto forma di glucosio (C₂H₁₂O₆) con cui i cianobatteri sostenevano la propria biomassa e si moltiplicavano a gran ritmo, espellendo ossigeno come materia di scarto. È questo il processo che noi umani siamo soliti chiamare fotosintesi, il più raffinato tra i meccanismi noti di trasformazione energetica, capace di convertire ogni anno meno dell’1% dell’energia solare che irradia la biosfera in oltre 230miliardi di tonnellate di nuova biomassa vegetale.
“Agli inizi”, ricordano tuttavia Simon Lewis e Mark Maslin nel loro Il pianeta umano (Einaudi, 2019), “i minerali nelle rocce reagivano con l’ossigeno prodotto per fotosintesi e si modificavano visibilmente eliminandolo dall’atmosfera. Nel corso del tempo, la capacità naturale della Terra di assorbire il prodotto di scarto di questi nuovi organismi smise [però] di essere sufficiente e l’ossigeno iniziò ad accumularsi nell’atmosfera”. I batteri anaerobi che si erano evoluti per vivere in assenza di ossigeno perirono innumerevoli in quello che venne definito il “grande evento ossidativo”.
L’evoluzione della vita sulla Terra, e dunque anche l’intera vicenda delle società umane, può essere riletta come la storia di transizioni energetiche successive.
Alcuni esemplari sopravvissuti si rifugiarono in ambienti in cui l’ossigeno non riusciva a penetrare, altri (gli eucarioti) svilupparono un metabolismo aerobico e presero a utilizzare il nuovo gas atmosferico come propria fonte di energia, producendo anidride carbonica come materia di scarto. Da allora, gli organismi che si alimentano di anidride carbonica espellendo l’ossigeno (per semplificare, i vegetali) e quelli che si nutrono di ossigeno scartando l’anidride carbonica (gli animali) hanno continuato a co-evolvere e si sono diffusi su tutta la Terra. Quello che per gli uni era rifiuto per gli altri divenne fonte di energia. La natura sembra apprezzare la simbiosi, la frugalità e il riciclo, specie quando si tratta di energia.
Gli esseri fotosintetici completarono la colonizzazione delle terre emerse circa 470milioni di anni fa, mentre nel giro di altri 70-80 milioni di anni gli organismi aerobi attraversarono una nuova transizione energetica ed evolutiva che prese il nome di “esplosione cambriana”: le specie esistenti passarono da organismi per lo più unicellulari a una panoplia di forme di vita complesse.
La natura sembra apprezzare la simbiosi, la frugalità e il riciclo, specie quando si tratta di energia.
Le cause di questo straordinario evento evolutivo sono ancora incerte: “si ritiene”, raccontano sempre Lewis e Maslin, “che all’epoca dell’esplosione cambriana un aumento dei livelli di ossigeno superò una soglia, innescando una corsa agli armamenti fra prede e predatori, che provocò alcune estinzioni e un rapido aumento delle innovazioni evolutive difensive, come i gusci e gli esoscheletri comuni negli animali da preda, seguite da innovazioni come i denti nei predatori”. Quel che è importante sottolineare è che da esseri unicellulari alimentati a ossigeno si passò a creature che si nutrivano di altre creature, ricavando energia chimica dalla biomassa dei loro corpi animali o dalle loro strutture vegetali. Fu una nuova transizione energetica e, conseguentemente, un’accelerata evolutiva irremeabile.
Cibo ed energia
Con la sintesi clorofilliana le piante convertono l’energia solare in energia chimica accumulata sotto forma di biomassa vegetale. Questa è la principale fonte energetica degli animali erbivori, che la metabolizzano in proteine e grassi, a loro volta sorgente di energia primaria per i carnivori lungo una linea trofica che conduce fino agli esseri umani. Anche noi ricaviamo l’energia innanzitutto dal cibo: come gli altri animali, un po’ dell’energia alimentare ci serve a sostenere il nostro metabolismo basale e l’intensa attività celebrale che ci caratterizza, e un po’ ci rimane per svolgere lavoro utile ad altri scopi, come ad esempio la riproduzione. “In un processo quasi circolare”, puntualizza Massimo Nicolazzi nel suo Elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019), “il lavoro utile più importante in cui si cimenta un animale non in stato di allevamento/domesticazione è [l’ulteriore] ricerca di cibo”. L’energia viene impiegata innanzitutto per procurarci altra energia, un vincolo questo da cui dipende l’efficienza o meno di tutte le fonti note.
L’energia viene impiegata innanzitutto per procurarci altra energia, un vincolo questo da cui dipende l’efficienza o meno di tutte le fonti note.
In origine, si dice, noi umani fummo cacciatori-raccoglitori: ricavavamo l’energia per il nostro sostentamento da fibre e zuccheri dei raccolti vegetali e da proteine e grassi delle prede animali – “la bacca e il mammut”, sintetizza Nicolazzi. Il tutto con la sola forza dei nostri muscoli più qualche utensile, “qualcosa che aumenta ed estende a parità di consumo energetico il lavoro utile che puoi ottenere attraverso il tuo convertitore-muscolo”. Armato di lancia, il cacciatore-raccoglitore preistorico poteva procurarsi attivamente l’energia dalla biomassa di un grosso animale; sprovvisto, si doveva invece accontentare della polpa succosa dei frutti, o al massimo delle carcasse putrescenti degli animali morti in cui poteva imbattersi. Prima di diventare cacciatori fummo perciò raccoglitori ed esseri saprofagi: ci servivamo dei chopper, le celeberrime pietre scheggiate, per frantumare le ossa delle carogne animali e succhiare via i preziosi nutrienti chimici del midollo. I nostri cervelli poterono essere alimentati con molta più energia chimica, e si ingrossarono notevolmente.
Una svolta nella quantità di energia utilizzabile da parte dei nostri antenati si ebbe poi con la domesticazione del fuoco, il primo vero convertitore energetico esosomatico, ossia esterno al corpo umano e alla sua forza muscolare. “Una volta dominato il fuoco”, scrivono John McNeill e Peter Engelke in La grande accelerazione (Einuadi, 2018) “i nostri antenati ominini furono in grado di raccogliere una quantità maggiore di energia sia sotto forma di cibo che prima non avrebbero potuto digerire, sia sotto forma di calore”.
Il fuoco cambiò infatti la dieta e l’assetto delle società tradizionali, favorendo le attività venatorie e la cultura del focolare.
Il fuoco cambiò infatti la dieta e l’assetto delle società tradizionali, favorendo le attività venatorie e la cultura del focolare. La capacità di approvvigionamento dell’energia alimentare immagazzinata nella carne della selvaggina crebbe sino alla fine del Pleistocene avvenuta circa 11mila anni fa, quando si raggiunse un consumo planetario stimato di 2 milioni di tonnellate di carne. “In mammut equivalenti”, calcola Nicolazzi, sono “da 250 a 400.000 capi [di selvaggina abbattuti ogni anno]”. Il fuoco fu dunque da subito una scoperta rivoluzionaria, ma ci volle quasi mezzo milione di anni prima che venisse impiegato come convertitore energetico nelle produzioni industriali, tra le quali la fusione dei metalli e la combustione di legno o idrocarburi per compiere lavoro meccanico. Molto prima di inaugurare l’era industriale, gli umani si specializzarono in altre tecniche di accumulo e sfruttamento dell’energia, tra le quali l’agricoltura e l’allevamento, fautrici di nuove transizioni energetiche e trasformazioni sociali.
Coltivare l’energia
Con il fuoco e gli altri utensili preistorici i cacciatori antichi si fecero sempre più abili. Le sterpi venivano incendiate per far uscire allo scoperto la selvaggina minore o spingere gli animali di grossa taglia verso trappole e imboscate. Per ragioni diverse, tra le quali rientra senz’altro anche la caccia, la megafauna da cui dipendeva l’alimentazione umana collassò verso la fine dell’ultima era glaciale, e molti grandi mammiferi si estinsero. La caccia si rivelò essere una trappola del progresso: gli umani la padroneggiarono così bene che alla fine non c’erano più abbastanza prede da cacciare. Urgeva trovare nuove fonti di cibo e di energia, così si finì per approfondire la raccolta dei vegetali che, controllata e pianificata, divenne poco alla volta agricoltura.
La coltivazione selettiva dei sementi fu scoperta separatamente in diverse aree del mondo a partire da 11mila anni fa.
La coltivazione selettiva dei sementi fu scoperta separatamente in diverse aree del mondo a partire da 11mila anni fa. “La transizione all’agricoltura non fu [però] un processo né lineare né immediato”, avverte Nicolazzi. “In funzione di clima e facilità di accesso al cibo il sedentario ridivenne a volte mobile, e il mobile sedentario”. Per qualche millennio fummo agricoltori e raccoglitori, per una parte dell’anno sedentari e per l’altra nomadi, ma presto – scrivono Lewis e Maslin – “l’energia in più offerta dai primi esperimenti agricoli si dimostrò irresistibile”. A parità di terra disponibile, la quantità di energia netta ricavata per mezzo dell’agricoltura fu inizialmente da 10 a 100 volte quella ottenuta con caccia e raccolta. Parallelamente, cominciammo ad addomesticare alcuni animali e ad allevarli in cattività per usi alimentari. L’agricoltura e l’allevamento consentirono così di concentrare l’energia ambientale nell’accrescimento della biomassa vegetale e animale compatibile con l’alimentazione umana, sottraendo terra utile alle specie non commestibili o meno produttive. Un animale d’allevamento – accuratamente selezionato, ingrassato a cereali, limitato nel movimento e nel consumo energetico – è un concentrato di energia potenziale che da solare si è fatta fibra vegetale e da fibra vegetale a proteine e grassi. Dallo stato selvatico alla cattività, il peso medio di una vacca è passato da 170 a 360 chili.
Con l’agricoltura e l’allevamento abbandonammo la raccolta spontanea di energia solare intrappolata nell’ambiente in favore della sua coltivazione pianificata. Fu una nuova transizione energetica, e col tempo ci trovammo tra le mani un sovrappiù di energia accumulata sotto forma di eccedenze alimentari durevoli, immagazzinabili, distribuibili. “Per la prima volta”, osserva Nicolazzi, “[fu possibile] decidere se consumare o accumulare”, e magari anche vendere il cibo e dunque l’energia a qualcun altro. Surplus, accumulo di energia in forma di cibo e ricchezza finirono così per coincidere, e dall’egalitarismo delle società di caccia e raccolta si transitò alla stratificazione sociale di quelle agricole.
Con l’agricoltura e l’allevamento ci trovammo tra le mani un sovrappiù di energia accumulata sotto forma di eccedenze alimentari durevoli, immagazzinabili, distribuibili.
Il sovrappiù energetico che si riesce ad accumulare tramite l’agricoltura e l’allevamento dipende innanzitutto da quanta terra è possibile coltivare o destinare al pascolo. I primi agricoltori ricorrevano alla pratica del debbio per deforestare ampie aree boschive con incendi controllati e ricavarne terreni spogli per l’agricoltura. Finché c’è terra libera da convertire in agricoltura, più energia muscolare si ha da tradurre in lavoro nei campi e più surplus si può generare. Presto al lavoro umano si aggiunse così anche quello animale, con le bestie da soma che cominciarono a essere messe al traino degli attrezzi agricoli o delle ruote per la molitura. “Il bovino prima era solo fonte di energia”, scrive Nicolazzi, “e invece adesso che lo porti nei campi e ci attacchi un aratro è diventato anche convertitore. Il muscolo animale che si aggiunge a quello umano aumentando la produzione di lavoro utile, e che aumenta perciò l’energia disponibile”.
Gli animali da soma sono energeticamente meno efficienti degli esseri umani – noi convertiamo in lavoro il 20% dell’apporto calorico che assumiamo col cibo, il bue il 15% e il cavallo appena il 10% – il che significa che hanno bisogno di più quantità di cibo (energia chimica sotto forma di biada e fieno) per unità di lavoro prodotta. Il lavoro che possono compiere è anche meno versatile: “se c’è da fare falegnameria, o tirare su un muro”, commenta Nicolazzi, “al massimo puoi usarli per farti portare pietre e legno e mattoni”. Però la loro potenza (la quantità di lavoro sprigionata nell’unità di tempo) è nettamente maggiore di quella umana e per trainare un aratro è perfetta. Come riportano accuratamente Cristophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz nel loro La terra, la storia e noi (Treccani, 2019), la quantità di lavoro utile degli animali da soma fu accresciuta enormemente mediante l’allevamento selettivo: “i cavalli da tiro americani del 1890 sono più potenti del 50% rispetto a quelli del 1860. La velocità del trotto passa da tre a due minuti per miglio dal 1840 al 1880”. Con la potenza degli animali selezionati per il lavoro agrario fu possibile coltivare più campi, produrre più energia, sfamare popolazioni più numerose.
La civiltà agricola, ricorda però Nicolazzi, “tende strutturalmente all’economia stazionaria, a un equilibrio di finitezza della terra e finitezza della popolazione”. I rendimenti agricoli sono infatti decrescenti: più si coltivano i campi, meno sono produttivi. Fu allora necessario inventare tecniche di coltura intensiva per mantenere e addirittura aumentare la resa dei raccolti senza bisogno di ulteriore terra. Tra le tecniche che accrebbero l’intensità dei raccolti rientrano la recinzione dei terreni comuni, la rotazione delle colture, il sovescio agrario e il maggese, il perfezionamento dell’aratro, l’introduzione del giogo e del basto, la ferratura dei cavalli e la castrazione dei bovi da tiro, che divennero più mansueti e la loro energia muscolare più facile da convertire in lavoro.
Dal Cinquecento al Settecento, nella moderna Inghilterra la produttività agricola aumentò del 90% e precipitò il numero di contadini.
Con la colonizzazione del Nuovo Mondo e il successivo “scambio colombiano” la produttività crebbe anche grazie a una più efficace selezione delle colture, che diffuse su tutto il globo le fonti energetiche vegetali e animali più efficienti. Dal ‘500 in avanti il maiale cominciò a ingrassare anche nelle Americhe mentre il mais e la patata ad allignare anche nei terreni più difficili dell’Eurasia, estendendo le superfici coltivabili e innalzando vertiginosamente il potenziale energetico a disposizione degli esseri umani. “A partire dal Cinquecento”, fanno notare Lewis e Maslin, “gli agricoltori ebbero improvvisamente un numero molto più grande di colture e animali tra cui scegliere. Potevano impiantare la coltura migliore per le condizioni ambientali locali, da qualunque parte del mondo provenisse”.
L’agricoltura ne uscì radicalmente trasformata: dal Cinquecento al Settecento, nella moderna Inghilterra la produttività agricola aumentò del 90% e precipitò il numero di contadini. Con le tecniche estensive prima e intensive poi si cominciò a produrre più di quanto fosse necessario alla riproduzione dei produttori, pertanto una quota crescente di individui della comunità poté essere dispensata dal lavoro agricolo e fu possibile alimentare eserciti sempre più nutriti, ma anche e soprattutto un’inedita élite di inventori. I primi tra questi misero a punto la scrittura, che nacque proprio per misurare il surplus agrario. Altri, più avanti, perfezionarono le tecnologie per la cattura di nuove forme di energia – idrica ed eolica prima, fossile poi. Per alcuni secoli l’umanità visse così in un tempo energetico ibrido e instabile, sospeso tra l’energia “organica” e quella fossile, che nonostante sia a sua volta il residuo di una remota vita organica, emanciperà i cicli e i ritmi dell’uomo da quelli del resto della natura.
Tra l’organico e il fossile
Nonostante il surplus di cibo prodotto da agricoltura e allevamento, in epoca pre-industriale di energia non ce n’era mai abbastanza rispetto gli usi sociali possibili. La ricerca di nuove fonti era incessante soprattutto per scopi diversi dall’alimentazione umana, come il lavoro meccanico o l’illuminazione. “A questo proposito”, osservano Lewis e Maslin, “si può citare l’esempio del grasso di balena, che veniva usato per l’illuminazione, sotto forma di olio per le lampade”. Le prime battute di caccia furono inaugurate nel 1611 dall’Inghilterra, al largo dell’isola norvegese di Spitsbergen, ma presto arrivarono anche le baleniere olandesi, danesi, spagnole e francesi, e la caccia ai cetacei si fece intensiva. La popolazione originaria delle balene della Groenlandia crollò da 100-250 mila esemplari originari alle poche decine ancora in vita oggi, mentre si calcola che complessivamente l’industria baleniera abbia condotto alla sterminio oltre un milione di cetacei nel corso del solo XIX secolo. Solo a inizio ‘900 l’illuminazione a olio venne sostituita da quella a gas, una fonte più pulita ma dal rendimento energetico disastroso: “un terzo del carbone”, evidenziano Cristophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, “veniva bruciato per produrre il gas, un terzo del gas si disperdeva fuoriuscendo dai condotti e in conclusione la sua potenza illuminante era tutto sommato molto scarsa”. La perdita secca di energia rimase per lungo tempo altissima.
In epoca pre-industriale la ricerca di nuove fonti era incessante soprattutto per scopi diversi dall’alimentazione umana, come il lavoro meccanico o l’illuminazione.
Se all’olio di balena si ricorreva come fonte d’illuminazione, l’energia cinetica dell’acqua e del vento venne inizialmente addomesticata per il trasporto delle eccedenze agricole. “Si commercia tra vicini, utilizzando anche le vie fluviali”, scrive Nicolazzi. “Con il limite per queste ultime che l’energia si muove in una sola direzione; il che ti impone di riportare il mezzo a monte trainandolo; o, se la corrente ti permette di andare a braccia e remi, con un carico comunque ridotto rispetto all’andata”. Lungo gli argini vengono predisposte delle vie percorribili di modo che le chiatte possano risalire i fiumi per mezzo della forza motrice dagli animali da soma. Le traversate oceaniche diventano invece possibili solo quando le tecnologie e le conoscenze nautiche arrivano a catturare abbastanza energia da venti, correnti e maree.
Ma in epoca pre-industriale l’energia cinetica di acqua e vento veniva anche convertita in meccanica per mezzo dei mulini. “I mulini a vento”, scrive Prem Shankar Jha ne L’alba dell’era solare (Neri Pozza, 2019), “sono stati la prima fonte di energia esterna non biologica usata dagli esseri umani”. A far girare la macina non fu più la forza motrice degli animali da soma, ma le pale azionate dal fluire di vento o acqua. Di lì fu un attimo intuire che l’energia cinetica dei fiumi o dei venti potesse essere usata per azionare anche i macchinari industriali, che a fine Settecento erano alimentati pressoché completamente ad acqua.
La corrente dei fiumi era però intermittente, d’estate spesso insufficiente, e quando non riusciva a far girare le ruote idrauliche dei mulini i lavoratori dovevano fermarsi. I proprietari delle fabbriche aggiunsero questi tempi morti alle numerose ore di lavoro che gli operai erano già costretti a fare, innescando scioperi e sabotaggi. L’intervento delle autorità pubbliche a ricomporre i conflitti accelerò il passaggio dall’industria dalle ruote idrauliche ai motori a vapore, un tipo nascente di convertitore energetico a carbone che trasformava l’energia termica della combustione in energia meccanica. “Con la limitazione delle ore di lavoro”, notano Lewis e Maslin, “l’attrattiva del vapore divenne irresistibile, nonostante il carbone fosse molto più costoso dell’acqua, poiché il vapore poteva essere acceso all’arrivo dei lavoratori e spento alla fine della giornata”. A differenza dell’energia idraulica ed eolica, la cui quantità e abbondanza è decisa dalla natura, i primi motori a vapore alimentati a carbone permettevano il pieno controllo del lavoro operaio. “Quando e come lo usiamo dipende da noi”, osserva Nicolazzi, “e non, come per le fonti organiche, dal tempo che fa”.
A differenza dell’energia idraulica ed eolica, la cui quantità e abbondanza è decisa dalla natura, i primi motori a vapore alimentati a carbone permettevano il pieno controllo del lavoro operaio.
L’idea che bruciando un combustibile si potesse far muovere un oggetto era nota da tempo: la polvere da sparo, ad esempio, era stata inventata in Cina già nel X secolo. Come scrivono Lewis e Maslin, “il cannone e la palla di cannone non erano completamente diversi dal pistone e dal cilindro di un motore, che fu inventato molto dopo”. Anche l’utilizzo del carbone a fine Settecento vantava ormai una lunga tradizione, soprattutto in Inghilterra. Con un decreto regio del 1566, Elisabetta I aveva limitato la proprietà esclusiva della Corona alle sole miniere d’oro e d’argento, mentre le cave di carbone potevano essere sfruttate liberamente dai privati. “Appena il carbone iniziò a essere di proprietà privata”, riportano Lewis e Maslin, “la sua produzione aumentò rapidamente”: 35mila tonnellate estratte in Inghilterra nel 1560, 200mila nel 1600, 2,7 milioni nel 1700, 20 milioni nel 1800. Ad ogni secolo un ordine di grandezza in più.
E pensare che originariamente, ricorda Nicolazzi, “lo usava, e poco, solo il povero che non poteva permettersi la legna”. Quando il prezzo del legname cominciò ad aumentare per via delle limitazioni imposte alla deforestazione e del crescente costo dei trasporti, lo sporco e puzzolente carbone divenne competitivo per il riscaldamento domestico, semplicemente perché costava meno: “agli inizi del Settecento, a parità di contenuto energetico, addirittura la metà dell’equivalente in legname”. Il regno del carbonfossile comincia con la diffusione nei consumi domestici, e solo dopo che vennero inventati la macchina a vapore e l’altoforno anche in quelli industriali e metallurgici (qui la combustione della legna non è abbastanza efficiente: ne servono 72 chilogrammi per farne uno di vetro e addirittura 50 tonnellate per fonderne una di ferro). Col carbone il mondo ci cambia nuovamente: “utilizziamo per la prima volta una fonte la cui disponibilità non è funzione della fotosintesi”, sintetizza Nicolazzi. “Il fossile è fotosintesi passata, residuo organico che, intrappolato in un ambiente anaerobico o simile per mancanza d’aria, non è riuscito a decomporsi sulla superficie della terra ed è sprofondato di sotto. Ormai è ‘prodotto’; e la terra ce lo ha tenuto a magazzino per qualche milione di anni”.
Il regno del carbonfossile comincia con la diffusione nei consumi domestici, e solo dopo che vennero inventati la macchina a vapore e l’altoforno anche in quelli industriali e metallurgici.
Dall’inizio della nostra storia evolutiva alla rivoluzione industriale abbiamo fatto uso di sola energia “organica”, convertita in lavoro per via muscolare. Col carbone prima e petrolio e gas naturale poi inauguriamo invece una nuova stagione energetica, una parentesi fossile giovane duecento anni ma giocoforza limitata, per via dell’esaurimento delle fonti o per il riscaldamento globale che la loro combustione sta causando. Per quanto precaria ed avventizia, dalla parentesi fossile non abbiamo tuttavia ancora trovato una via d’uscita percorribile senza sconvolgimenti sociali o drastiche riduzioni dei consumi energetici. Sappiamo però con certezza che, abbandonate le fonti fossili, il nostro futuro ripiegherà su sole, vento e acqua – così com’è sempre stato nel nostro passato. “Organici” eravamo e “organici” torneremo ad essere. “Come” è la grande domanda di questo secolo sventurato.