I n principio fu Lassie, il fedelissimo scotch collie, protagonista indiscusso del film Torna a casa Lassie (1943) e delle successive serie tv giunte fino agli anni Novanta. Lassie è diventata un’icona senza tempo, tanto famosa da meritare una stella sull’Hollywood Walk of Fame. Il suo nome è diventato sinonimo della razza canina che, solo negli USA, ha visto impennare le vendite del 40% nei due anni successivi al rilascio del film, secondo i dati dell’American Kennel Club. Sia chiaro, solo dello scotch collie a pelo lungo, vale a dire il rough collie: la varietà a pelo corto del pastore scozzese non è mai stata sfiorata dalla popolarità di Lassie.
La stessa sorte è toccata a molte altre razze, spesso più impegnative e difficili da gestire. È successo con il dalmata, quando hanno invaso i grandi schermi di tutto il mondo con il film d’animazione La carica dei 101. La razza canina croata, nata come cane da caccia, è diventata il nuovo pet del desiderio negli anni Ottanta e Novanta. Solo negli USA si è passati da circa 5.000 cuccioli iscritti all’American Kennel Club nel 1985, anno della prima riedizione del film, a quasi 43.000 nel 1993, due anni dopo l’edizione del 1991. Passato qualche tempo, però, i cani a macchioline nere sono stati abbandonati o affidati ai canili. Per ottenere più cucciolate e soddisfare la domanda di mercato, gli allevatori – spesso improvvisati – hanno incrociato sempre gli stessi animali provenienti dagli stessi allevamenti. Sono andati ad acuirsi alcuni problemi di salute tipici di questa razza, come la sordità congenita (circa il 30% dei dalmata ne soffre), la tiroide autoimmune che colpisce il 10% della razza, la displasia all’anca e la forte predisposizione alla formazione di calcoli renali.
Ma questa esperienza non ha evitato che la storia si ripetesse con il San Bernardo, cane combina-guai del film Beethoven (1992). E con labrador, bulldog, setter irlandesi, husky e persino gatti siamesi, come rilevato da uno studio pubblicato su Plos One, che analizza 87 film usciti tra i gli anni Trenta e il 2004. Arrivando anche ai ratti. Oltre due secoli di domesticazione del ratto bruno (Rattus norvegicus) hanno prodotto linee di ratti meno reattivi agli stimoli, a luci e rumori forti, abituati alla presenza dell’uomo, resistenti alle malattie e con il manto di diverse tonalità. Ma a sdoganare l’idea che potessero diventare perfetti animali domestici è stato – di nuovo – un film d’animazione: Ratatouille, del 2007. In Francia la vendita di questi roditori ha subito un aumento del 40% dopo l’uscita del film.
Cosa succede quando le mode cinematografiche si spingono oltre i confini della domesticazione e finiscono per coinvolgere animali selvatici?
Tra gli ultimi casi non si può non nominare l’akita: la razza giapponese di cani da lavoro, protagonista del film Hachiko con Richard Gere, uscito nel 2009. Solo in Italia, in sei anni le iscrizioni all’Ente nazionale cinofilia italiana (Enci) di cuccioli di akita sono più che quintuplicate: da circa 300 nel 2009 a oltre 1700 nel 2016.
Into the wild
Cosa succede, poi, quando le mode cinematografiche si spingono oltre i confini della domesticazione e finiscono per coinvolgere animali selvatici? Com’è facilmente immaginabile, i problemi sono diversi: dalla diluizione dell’identità genetica di una specie alla sua cattura in natura, dal rischio di estinzione al rilascio di specie aliene.
Prendiamo a esempio il lupo. Prima la saga di Twilight (2008-2012) e poi la serie tv Il trono di spade, uscita nel 2011 e arrivata alla settima stagione, hanno dato il via a una serie di incroci cane-lupo. Entrambe le storie, infatti, vedono alleati dei protagonisti licantropi o metalupi, animali di fantasia, certo, ma interpretati da norther inuit, nati dall’incrocio fra husky siberiani e cani eschimesi, o da lupi veri condotti da addestratori e ritoccati al computer per enfatizzarne le dimensioni. Il loro fascino è insindacabile e su quest’onda è cresciuta la mania dell’American Wolf Dog. Un ibrido cane-lupo, ottenuto dall’incrocio del lupo grigio americano (Canis lupus) con razze canine come l’alaskan malamute, il siberian husky, il pastore tedesco, il cane lupo cecoslovacco o più raramente il pastore belga malinois e il cane lupo di Saarloos.
Il risultato è un ibrido con un peso sui 40 kg, molto schivo e con un forte istinto predatorio. Insomma non il lupo docile al servizio dei protagonisti dei film. Una “razza” che non ha uno standard e che quindi razza non è: non è riconosciuta dalla FCI – Federazione Cinofila Internazionale. Ma pare che tra USA e Canada ce ne siano già 300.000, tra esemplari high content, cioè di prima generazione più simili ai lupi, mid content cioè di seconda e terza generazione più simili ai cani e con il quinto dito nelle zampe posteriori, e low content cioè ibridi dalla quarta generazione in poi. Eleganti, potenti, agili, muscolosi e pesanti, questi ibridi hanno bisogno di grandi spazi, di trascorrere ore all’aperto e di un adeguato addestramento. Così troppo spesso finiscono abbandonati da chi credeva di avere in casa un semplice pet dalle sembianze affascinanti di un lupo, senza pensare che al guinzaglio c’è un animale più selvatico che domestico.
Altra grave preoccupazione è la cattura in natura, una pratica illegale che finanzia il mercato nero e che, in determinate circostanze, rischia di portare una specie sull’orlo dell’estinzione.
L’ibridazione con i cani rappresenta poi un serio problema di conservazione per il lupo: rischia di diluire la sua identità genetica, sfumando sempre più i confini della specie. Soprattutto in paesi come l’Italia, che ospita una sottospecie endemica: il Canis lupus italicus. Nel nostro paese la moda dell’American Wolf Dog non ha attecchito, ma si è rivolta verso una razza già esistente, che ha visto aumentare le vendite negli ultimi 10 anni: il cane lupo cecoslovacco, ottenuto proprio dall’incrocio tra pastore tedesco e lupo. Se nel 2008 all’Enci erano iscritti meno di 500 cuccioli l’anno, nel 2016 i registri ne hanno contati oltre 1500.
Altra grave preoccupazione è la cattura in natura, una pratica illegale che finanzia il mercato nero e che, in determinate circostanze, rischia di portare una specie sull’orlo dell’estinzione. Un caso recentissimo riguarda Zootropolis (2016), il film d’animazione Walt Disney da oltre un miliardo di dollari di incassi. Protagonisti della storia sono l’aspirante poliziotta-coniglio Judy e i suoi nuovi amici Nick e Finnick, la versione animata di due animali selvatici: la volpe rossa (Vulpes vulpes) e il fennec (Vulpes zerda). Ed è su quest’ultimo che si concentrano i nuovi desideri del mercato.
Con un peso di circa 1,5 kg, il fennec è il canide più piccolo al mondo, con il manto dorato e orecchie tanto grandi (fino a 17 cm) da essere sproporzionate. Una serie di caratteri che lo ha reso desiderabile soprattutto agli occhi dei Cinesi, che sono impazziti alla ricerca di cuccioli di fennec, pagati fino a 3.000 dollari l’uno. Agli zoologi è bastato dare una rapida occhiata sul motore di ricerca cinese Baidu, per capire l’impatto di questa specie sul commercio: in soli 20 giorni le ricerche relative alle parole chiave “Fennec foxes” sono passate da 0 a più di 6.500 al giorno come riportato da The Guardian. Ed è a questo punto che gli scienziati hanno iniziato a prestare attenzione al caso. Il piccolo canide, abitante endemico del deserto nordafricano con abitudini notturne e la tendenza a scavare, è una specie inserita nell’appendice 2 della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES). Non è una specie in grave pericolo, o almeno non ancora. Ma se la domanda dovesse aumentare, se la moda si estendesse ad altri paesi, il commercio illegale e il prelievo in natura potrebbero condurre il fennec sull’orlo dell’estinzione.
I gufi di Harry
Una saga è riuscita dove gli altri film non sono arrivati: coinvolgere un intero gruppo di animali selvatici. A partire dal 1997 gli Strigiformi, meglio noti come rapaci notturni, sono stati travolti dal successo di Harry Potter sulla carta stampata e sul grande schermo. Tutta colpa del sistema postale adottato dai maghi: i gufi, appunto. Harry Potter ha Edvige, una civetta delle nevi (Bubo scandiacus); Ron e Pearcy Weasley hanno rispettivamente Leotordo, un assiolo faccia bianca (Ptilopsis leucotis) e Hermes, un barbagianni (Tyto alba); Errol è invece il vecchio gufo postale della famiglia Weasley con problemi di orientamento e memoria, ed è un allocco di Lapponia (Strix nebulosa); il cattivo Draco Malfoy, ha un gufo reale (Bubo bubo). E se qualche rapace notturno manca all’appello lo si può trovare esposto, con tanto di cartellino e prezzo, all’Emporio del Gufo di Diagon Alley: la principale via dello shopping dei maghi.
La saga di Harry Potter ha certamente contribuito a modificare l’immaginario collettivo e a far diventare normale l’idea di avere un gufo come animale domestico. A nulla sono valsi i ripetuti appelli della Rowling, “madre” di Harry Potter. Dopo l’acquisto, in molti li hanno abbandonati o portati in centri di recupero: hanno bisogno di gabbie molto spaziose, mangiano topi vivi, sono sporchi, rumorosi e molto longevi.
A chi spetta il compito di prevenire i problemi di conservazione delle specie? Solo agli scienziati e ai comunicatori scientifici? O anche ai produttori?
A preoccupare gli ornitologi è anche la quota di strigiformi prelevati in natura sull’onda della saga. Secondo uno studio pubblicato su Global Ecology and Conservation la vendita di gufi e civette sarebbe aumentata a dismisura in Indonesia, a Bali e Java. Tanto che il loro nome ora è “Burungu Harry Potter”. Se nel 2001 in 20 mercati indonesiani si trovavano in tutto un centinaio di gufi, nel 2016 ce n’erano 13.000, venduti a prezzi bassissimi: dai 6 ai 30 dollari. E come se non bastasse la quasi totalità viene prelevata in natura. Anche se la legge indonesiana vieta il commercio di fauna selvatica, le autorità non fanno alcun controllo in merito, e nessuno si occupa di fare stime di popolazione di questi animali. Così a oggi non si sa a quanto ammonti il danno, né se questi animali stiano già affrontando il rischio di estinguersi su scala locale.
Forse, visti i numerosi casi in passato, ci sarebbe da chiedersi se non sia il caso di prevenire questi problemi di conservazione con massicce opere di comunicazione, come fu per il caso Dory. Ma a chi spetta il compito? Solo agli scienziati e ai comunicatori scientifici? O anche ai produttori? La domanda resta aperta.
Il caso Nemo
Nel 2016 è uscito un film d’animazione che aveva tutte le carte in regola per creare uno sconquasso tra le barriere coralline indopacifiche: Alla ricerca di Dory, sequel di Alla ricerca di Nemo (2003). Protagonisti del primo episodio sono due pesci pagliaccio (Amphiprion ocellaris) e un pesce chirurgo blu (Paracanthurus hepatus). La storia raccontata è quella di Nemo, prelevato in natura e finito nell’acquario di un dentista, e l’affannosa ricerca intrapresa dal padre Marlin e dall’amica Dory per portarlo in mare. Il messaggio però dev’essere arrivato in qualche modo distorto: dopo l’uscita del film tutti volevano un pesce pagliaccio in casa e, solo negli USA, la domanda di questa specie è aumentata fino al 40%. Fortunatamente i pesci pagliaccio possono essere allevati in cattività, perciò il prelievo in natura è stato in qualche modo limitato, anche se non lo si è capito subito. Secondo il report From Ocean to Acquarium del 2003 dell’UNEP, dei circa 24 milioni di pesci commercializzati, il 50% erano pesci pagliaccio (ce ne sono 28 specie diverse). Molti venivano catturati nel sud est asiatico, spesso con pratiche dannose, imbustati con acqua marina insufficiente per affrontare viaggi che durano anche 48 ore, alla fine dei quali arrivano morti dall’altra parte del globo. Secondo il report, nel 2003 negli Usa sono arrivati dall’Indonesia 4.233 Amphiprion ocellaris su 5.565 spediti.
In ogni caso Nemo ha insegnato qualcosa in termini di comunicazione anche ai biologi marini che, con l’approssimarsi dell’uscita di Alla ricerca di Dory, hanno agito in anticipo. Così già prima dell’uscita nelle sale, è partita una massiccia campagna che chiariva un punto fondamentale: Nemo si riproduce anche in cattività, i pesci chirurgo come Dory no. Averli in acquario significa per forza di cose prelevarli in natura. E se quello che è stato definito “the Nemo effect” si fosse ripetuto anche per i pesci chirurgo blu, il prelievo indiscriminato in Sri Lanka, Filippine, Indonesia avrebbe portato rapidamente al collasso la specie. Fortunatamente giocare d’anticipo sembra aver funzionato.