A fine luglio dell’estate scorsa mi trovavo in vacanza sulla costa adriatica, per la precisione a Lido delle Nazioni: mare e sabbia monocolore, zanzare assenti a causa della secca del Po e temperature, sia dentro che fuori dall’acqua, difficilmente inferiori ai trenta gradi. La sensazione era quella di una costante e appiccicosa umidità che non trovava riposo nemmeno dopo una doccia fredda o la notte, quando vagavo tra le stanze della casa che avevo preso in affitto cercando una corrente d’aria che mai avrei incontrato. A causa del poco sonno, la mattina mi risvegliavo stanca, nervosa e irritabile. Non mi era mai successo prima di avvertire, così chiaramente, gli effetti del caldo sul mio umore e sul mio benessere, fisico e mentale. Ho iniziato sul serio soltanto in quei giorni a domandarmi come facciano le persone che costantemente vivono ad alte temperature a mantenere la serenità, a trovare l’energia per affrontare anche le più piccole incombenze quotidiane e a non perdere irrimediabilmente la pazienza ogni volta che qualcosa va storto. E mi sono chiesta, nel caso in cui il termometro non si fosse mai più abbassato, come avrei potuto ritrovare pace e calma.
Ho iniziato così a leggere storie di persone che soffrono di eco ansia, ovvero l’angoscia che nasce dal constatare che il mondo sta andando inesorabilmente a rotoli. Tra i tanti reportage della stampa anglosassone sul tema, mi ha colpito in particolare la testimonianza di una donna, Alina Black, di Portland, riportata in un articolo del New York Times. Black, 37 anni, un bebè appena nato, racconta di venir assalita da angoscia e senso di colpa a ogni cambio di pannolino, consapevole che anche quel gesto quotidiano contribuisce all’inquinamento del pianeta e alla crisi climatica. Per prima cosa al mattino, dopo aver allattato il bambino, Black racconta di cadere in un buco nero, spinta giù dalle notizie su siccità, incendi ed estinzioni di massa.
Sono sempre più numerose le storie di persone che soffrono di eco ansia, ovvero l’angoscia che nasce dal constatare che il mondo sta andando inesorabilmente a rotoli.
Ad agosto sono andata a fare un giro sul Mar Baltico, la temperatura è tornata a livelli accettabili e per un po’ non ho pensato più ad Alina Black. A settembre però, rientrata a Milano, per lavoro mi hanno chiesto di montare un video realizzato da una ONG italiana in Mozambico. Le persone intervistate raccontavano come avevano affrontato, ed erano sopravvissute, al ciclone Idai che, nel marzo 2019, aveva colpito il paese, provocando centinaia di morti e migliaia di sfollati. Una signora ricordava di essere scappata di casa con in braccio sua figlia piccola e di aver nuotato con tutte le forze, mentre il forte vento la sballottava contro banani e anacardi, finché non era riuscita a raggiungere un posto sicuro in collina. Un’altra donna diceva che, mentre si rifugiavano sugli alberi, i suoi bambini erano stati morsi dai serpenti e si erano salvati solo perché era riuscita a portarli in tempo in ospedale. Tutti i testimoni avevano perso le loro case, per lo più capanne di fango con tetti di paglia, ed erano stati accolti nella scuola del villaggio, malmessa ma almeno più sicura. Questo, però, aveva causato la sospensione delle lezioni per settimane.
Ecco che allora Black mi è tornata in mente e ho iniziato, forse cinicamente, a comparare il suo malessere, e il mio da villeggiante, con quello provato dalle donne mozambicane che ascoltavo. Quelle donne non solo non avevano mai avuto pannolini da buttare e per i quali chiedere perdono al mondo, ma vivevano piuttosto in uno stato di perenne allerta, consapevoli del fatto che un minimo innalzamento delle temperature avrebbe potuto causare terremoti, tempeste e inondazioni, mettendo nuovamente in grave pericolo la vita loro e delle loro famiglie.
Provavano quelle donne la stessa angustia per il futuro del pianeta provata da Alina Black? Avevano, come avevo avuto io durante l’estate, tempo e modo di soffermarsi sulle loro sensazioni? O sopravvivere era già talmente impegnativo da non lasciare spazio alle inquietudini interiori? “La salute mentale non è appannaggio esclusivo di coloro che vivono nei paesi sviluppati del Nord globale”, mi risponde diretta la professoressa Mala Rao, del Dipartimento di Assistenza primaria e Salute pubblica dell’Imperial College di Londra, quando le giro i miei dubbi. “Le persone che vivono in condizioni di estrema povertà sopportano gravi stress. Il rischio per la salute mentale è quindi considerevole e l’assistenza psicologica non dovrebbe essere un lusso, ma considerata un aspetto cruciale del servizio sanitario fornito a qualsiasi popolazione. Tuttavia, nei paesi che dispongono di livelli di risorse inferiori o in cui vi sono conflitti, la cura delle malattie fisiche può finire per essere considerata una priorità più urgente”.
Rosa Luxo e Helenia Molinaro lavorano in Mozambico con la ONG italiana WeWorld. Rosa è psicologa e offre supporto psicosociale, mentre Helenia coordina i progetti educativi nelle scuole. Tra le loro zone di intervento c’è la provincia di Cabo Delgado, sulla costa nord orientale, una regione tra le più colpite dalle tempeste tropicali e nella quale da cinque anni infuria l’insurrezione jihadista di al-Shabaab.
Chi è già pesantemente colpito dalla crisi climatica ha tempo e modo di soffermarsi sulle proprie sensazioni? O sopravvivere è già talmente impegnativo da non lasciare spazio alle inquietudini interiori?
Cerco di non sembrare irriguardosa quando chiedo loro se le persone con le quali si relazionano soffrono di eco ansia. “È logico che sia più semplice in certo modo rispondere alle necessità di base di una popolazione”, mi spiega Luxo, “e tra gli stessi operatori a volte c’è chi banalizza l’ansietà o altri tipi di disturbi. Nella società in cui viviamo poi, spesso chi cerca attenzione psicologica viene additato come matto e magari allora sono gli stessi pazienti a negare i propri problemi. È da poco che si è iniziato a parlare di questo tipo di servizi e solo le persone scolarizzate ne capiscono l’utilità”.
Luxo e Molinaro trattano bambini e bambine vittime due volte: dei cicloni e del conflitto armato. Non fanno accompagnamento individuale ma di gruppo, e attraverso il gioco cercano di far emergere il trauma che i minori hanno vissuto e offrono formazione agli insegnanti perché possano fare altrettanto. “Le conseguenze, tanto di un trauma come di una situazione di ansia sono crisi di pianto, regressione, apatia, aggressività, depressione”. I bambini più vulnerabili vivono spesso situazioni di abbandono e negligenza e i genitori, quando ci sono, tendono a reagire con metodi correttivi, sgridando e punendo. Altre volte invece sono la madre e il padre a portarli in ospedale. “Anche se non ci sono medicine per curare queste situazioni, è un primo passo”, spiega Luxo, “vuol dire che sono consapevoli del momento che stanno vivendo e si può iniziare una terapia familiare”. Le chiedo secondo lei quali caratteristiche deve avere una psicologa che tratta questo tipo di pazienti. Mi risponde che deve essere altruista. “Io non ho vissuto la guerra, così come non ho vissuto un ciclone, ma devo mettermi per prima cosa nella pelle di chi ha avuto queste esperienze per poter poi intervenire in maniera efficace”.
“I professionisti della salute mentale”, mi spiega ancora la professoressa Rao, “stanno sviluppando nuovi modi per gestire l’eco ansia, che è un problema nuovo, e si stanno anche rendendo conto che devono aiutare a ridurre l’eco ansia a livello di popolazione, non solo nei singoli pazienti. Non abbiamo bisogno di una psicoterapia individuale per l’eco ansia in ‘Occidente’ così come nei paesi in via di sviluppo. Dobbiamo invece lavorare adottando un approccio di salute pubblica, promuovendo la speranza, la resilienza e l’adattamento”. I governi, mi dice, devono facilitare programmi e interventi volti a migliorare il benessere di chi è più colpito dai cambiamenti climatici, sostenendo ad esempio progetti di generazione di reddito per i pescatori che lavorano in aree con stock ittici di mare impoveriti o per gli agricoltori che affrontano gravi siccità e fallimenti dei raccolti.
“Una delle ragioni per le quali spesso l’ansia verso il futuro cresce nelle persone, è data dai governi, le cui risposte o non ci sono o sono in ritardo e inappropriate rispetto alla gravità della situazione”, ha detto la professoressa Monika dos Santos del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Sud Africa, durante il webinar organizzato lo scorso 27 settembre dalla professoressa Rao per presentare un numero speciale dell’International Review of Psychiatry dedicato proprio alla crisi climatica e alla salute mentale.
La stretta e deleteria relazione tra ansia climatica e politica inefficiente è particolarmente evidente a Porto Rico. “Viviamo in un’isola dei caraibi”, spiega Wilfred Labiosa, “da noi l’epoca di cicloni e uragani inizia a luglio e termina a novembre. Quando un uragano arriva verso la fine, da settembre in poi, sappiamo che sarà più potente”. Labiosa è un professionista della salute mentale ed è CEO di Waves Ahead, un’organizzazione che offre supporto ai segmenti più emarginati della popolazione portoricana, in particolare gli anziani e i membri della comunità LGBT+. Con lui ripercorriamo gli ultimi cinque anni di storia di quella che è a tutti gli effetti una colonia statunitense, tra governi instabili, terremoti ed epidemie varie, dal COVID al vaiolo delle scimmie. “Fiona, l’uragano che è arrivato quest’anno, non è stato forte come Maria, nel 2017, ma ha avuto maggiore impatto perché l’infrastruttura era già debole. La rete elettrica non funziona, i blackout sono all’ordine del giorno”, denuncia Labiosa. A Porto Rico, la popolazione sta rapidamente invecchiando: i più giovani e coloro che hanno un lavoro qualificato, come i medici, sono emigrati. “Nelle persone tra i 54 e i 59 anni negli ultimi dieci anni i suicidi sono aumentati del 64% e spesso si verificano quando salta la luce e l’ansia aumenta”, continua Labiosa, che aggiunge: “In realtà potrebbero essere molti di più perché spesso è la stessa comunità a chiedere alla polizia di non registrare un caso di suicidio come tale. Da noi chi si toglie la vita è considerato un codardo e i famigliari vogliono risparmiare al morto questa vergogna”.
Nella nostra lunga chiacchierata gli chiedo se c’è qualche caso che gli è rimasto particolarmente impresso di persone la cui salute mentale sia stata seriamente danneggiata in seguito a una catastrofe climatica e mi racconta due storie. La prima ha come protagonista una coppia di donne lesbiche di Arecibo, una cittadina della costa settentrionale. “Stavano assieme da oltre trent’anni, ma per il COVID una delle due muore e l’altra si vede costretta a vendere la casa e a trasferirsi in un alloggio cooperativo per anziani. Una volta lì però ha paura di appendere alle pareti le foto che la ritraggono con la sua compagna perché teme di essere attaccata, ma allo stesso tempo desidera conoscere gente, si sente sola. Così interveniamo e offriamo al personale della residenza formazione sulla diversità delle persone che appartengono alla comunità LGBT+. Ma a settembre, con l’arrivo dell’uragano Fiona, la sua vita viene di nuovo scossa: quando è mancata l’elettricità lei non era in grado di scendere le scale e abbiamo dovuto cercarle un alloggio a piano terreno in un’altra residenza. Questa situazione ha generato alla donna, di 79 anni, moltissima ansia e per esperienza, purtroppo, posso dire che quando una persona anziana viene portata via dal suo contesto, muore più rapidamente”.
La seconda storia invece si svolge a Humacao, sulla costa orientale: “Subito dopo Maria, nel 2017, andai a trovare un mio famigliare che per vivere vende frutta in una piccola bancarella sulla strada. Volevo verificare che impatto aveva avuto l’uragano e in che condizioni si trovava la regione. Questo mio familiare mi porta da un uomo della comunità LGBT+, Ricky, che vive con i genitori in una casa a due piani ma senza tetto, perché il vento se l’era portato via. Faceva il parrucchiere in un piccolo negozio ricavato da uno spazio al lato della casa, anche questo andato distrutto. La mamma, anziana, ha il diabete cronico e il padre malato non può alzarsi dal letto. Ricky si ritrova quindi senza lavoro e con la responsabilità della cura dei suoi genitori e di una zia, anche lei rimasta senza casa”.
Grazie alle donazioni ricevute dalla diaspora gay all’estero, Waves Ahead ha potuto ricostruire il tetto a Ricky e aiutarlo a ripartire con la sua attività commerciale. In tutto, dopo Maria, l’organizzazione ha ricostruito ventun case e quattro negozi, esclusivamente con fondi privati. “Ricky”, mi spiega Labiosa , “ha un basso livello d’istruzione e magari può non comprendere appieno la relazione tra il contesto politico e la sua situazione, ma chiunque, indipendentemente da quanto abbia studiato, riesce a vedere chiaramente come l’ambiente impatti sulla sua salute”.
A volte, per combattere l’ansia climatica, viene suggerito alle persone di fare meditazione o di ‘creare spazi in cui condividere i propri sentimenti’. Può davvero essere tutta qui la soluzione?
Gloribel Delgado Esquilín è invece un’artista portoricana. Ci siamo conosciute a Lima, in Perù, oltre dieci anni fa. All’epoca realizzava bellissime bambole di stoffa, alle quali affidava il racconto di storie ricamate a mano. Rientrata a Porto Rico, la sua implicazione con la situazione sociale e politica dell’isola è cresciuta e, in particolare dal passaggio dell’uragano Maria in poi, la sua arte, seppur intima e personale, è diventata una forma di attivismo. Quando, nell’agosto passato, l’uragano Fiona stava per abbattersi su Porto Rico, Esquilín, con ritagli di tessuti da tappezzeria, creò “Ansia da venerdì”, un libro tessile che misura 30 centimetri di lunghezza per 25 di larghezza e che recentemente è stato acquisito dalla biblioteca dell’Università del Delaware, a Newark.
“Il progetto è nato una sera che stavo per avere un attacco di panico, mentre lavoravo alla mia prima mostra d’arte e nel bel mezzo della stagione degli uragani”, mi racconta Esquilín, analizzando poi in maniera lucidissima la situazione dell’isola: “Dal 2017, con il passaggio dell’uragano Maria, abbiamo subito un drammatico aumento del costo della vita nel nostro Paese. Non solo perché è un’isola, che dipende quasi interamente dall’arrivo delle navi americane che trasportano l’85% del cibo consumato e dei rifornimenti necessari per far funzionare le imprese e il governo, ma anche per l’amministrazione locale che ci sta strangolando economicamente, senza cercare alternative per ridurre gli effetti del cambiamento climatico”.
“A Porto Rico”, aggiunge, “i progetti di energia alternativa sono stati boicottati ed è sempre più difficile ottenere terreni governativi per colture agro ecologiche. Il cibo sempre più costoso, la benzina e l’elettricità alle stelle, sono problemi di prim’ordine per la popolazione”. Oltre ai drammi contingenti e alle difficoltà pratiche, Esquilín si sofferma sulle crisi familiari, emotive e mentali che affrontano le persone. “Disegnare e cucire questo episodio, quel venerdì, mi ha aiutato a rendere visibile ciò che si vive quotidianamente a Puerto Rico. È il mio modo di ‘respirare’, di affrontare un attacco di panico e di gestire lo stress di vivere in un paese al collasso”.
Per combattere l’ansia climatica, viene spesso suggerito alle persone di “passare all’azione”. Modificando le proprie abitudini di consumo e riciclo ad esempio, o ripulendo strade e spiagge. Ma non solo. Tra le varie proposte che si possono trovare, anche in rete, c’è quella di Good Grief Network che negli Stati Uniti offre un “esclusivo programma in 10 fasi per aiutare gli individui e le comunità a costruire resilienza, creando spazi in cui le persone possano condividere i loro sentimenti dolorosi sullo stato del mondo e riorientare le loro vite verso un’azione significativa”. Se un tempo quindi con i gettoni si usciva dall’alcolismo, ecco ora che con dieci balzi si ritrova la serenità: il mondo continua ad andare a rotoli, ma almeno noi facciamo mindfulness. È tutto qui? Per fortuna ancora una volta la professoressa Rao interviene a indicare la strada: “È vero che l’azione pratica è un intervento efficace per gestire l’eco ansia. Tuttavia, la causa alla base di questo senso di apprensione, differisce tra i paesi ricchi e quelli a basso e medio reddito. I paesi con popolazioni che vivono in condizioni di estrema povertà hanno una piccola impronta di carbonio, ma soffrono frequenti eventi meteorologici estremi, grave insicurezza alimentare e inquinamento. La soluzione all’eco ansia in questi paesi è un maggiore sostegno per aiutare le popolazioni a superare e gestire le crisi climatiche che devono affrontare. In sintesi, le popolazioni ricche devono agire per ridurre la loro impronta di carbonio e fornire sostegno ai paesi a basso reddito altamente vulnerabili in modo che possano superare i disastri climatici, compensando in parte questa enorme ingiustizia”.
Adithi Sutradhar è consulente psicologica presso la Psychological Health and Wellness Clinic (PHWC) di Dhaka, in Bangladesh, e ha conseguito un master in scienze cognitive presso l’Università di Skövde, in Svezia. Adithi riflette sulle buone pratiche che il suo governo sta incoraggiando ma pone una domanda importante: “Quando la posizione geografica è estremamente vulnerabile, il consumo sostenibile basta a prevenire una catastrofe?”. Secondo Adithi, l’accettazione e la consapevolezza del rischio, sono elementi di difesa fondamentali: “La popolazione che vive nelle zone costiere accetta questi fenomeni disastrosi come parte della propria sopravvivenza. Ad esempio, dopo la tempesta ciclonica estremamente forte di Sidr nel 2007, il Bangladesh ha intrapreso ulteriori misure precauzionali per preparare le persone e, grazie anche a questo, il recente ciclone Sitrang ha avuto conseguenze meno gravi”.
Il Bangladesh è il settimo paese al mondo più colpito dai cambiamenti climatici, secondo l’ultimo Global Climate Risk Index, e lo scorso novembre, il ministro degli Esteri AK Abdul Momen, ha affermato che ogni anno i cicloni e le inondazioni lasciano senza casa circa 6500 persone. La maggior parte di queste perde il lavoro e si riversa nelle città. Ma nonostante l’inquinamento atmosferico faccia della capitale Dhaka la città più irrespirabile al mondo, le zone litoranee e marginali del paese rimangono quelle più a rischio. È lì che agisce Sajida Foundation, una ONG che contribuisce a migliorare la salute mentale e il benessere psicosociale delle famiglie più povere, devastate dalla crisi climatica. La dottoressa Rubina Jahan, responsabile dei servizi clinici del programma di salute mentale di Sajida, condivide i risultati delle sue ricerche nelle comunità di Gabura e Mongla, nel sud ovest del paese: “Il 67% delle persone che abbiamo incontrato e intervistato soffre di disagio psicologico da moderato a grave, mentre il 37% richiede un’attenzione immediata da parte dei fornitori di servizi di salute mentale. Il più preoccupante di tutti i dati raccolti è l’aumento del 10% dell’intenzione al suicidio, soprattutto tra le donne e le persone con disabilità”. Questi risultati, commenta ancora la dottoressa, “sono in sintonia con vari studi post-pandemia e il World Mental Health Report 2022 conferma una forte tendenza dell’aumento dei tassi di depressione, ansia, suicidi, uso di sostanze e violenza di genere, specialmente nelle popolazioni in preda allo svantaggio e alla privazione. Il circolo vizioso della povertà e della malattia non è mai stato così evidente e pronunciato come oggi”.
Ristabilire un contatto con la natura è un altro dei suggerimenti che viene dato a chi soffre di ansia climatica. Passeggiare nei parchi, abbracciare gli alberi, fuggire al mare o in montagna la domenica, dovrebbe placare la nostra angoscia. Ma parlare di queste strategie, per quelle popolazioni che da sempre vivono un rapporto ancestrale e di simbiosi con la Terra, non ha molto senso, come sottolinea Nicole Redvers, professoressa associata all’Università del Western Ontario e membro di una tribù indigena del Canada settentrionale, la Deninu K’ue First Nation. “Il termine più appropriato per definire quello che le comunità native sentono non è eco ansia ma eco lutto, ovvero un dolore causato dalla perdita di qualcosa che non c’è più. Nelle mie terre d’origine per esempio, stiamo assistendo allo scioglimento del permafrost e interi laghi sono letteralmente scomparsi. Non vedere più qualcosa che è esistito per migliaia di anni causa profondo dolore alle persone”. Le chiedo se a soffrire di più sono gli anziani o i giovani: “Direi gli anziani, perché alle perdite causate dai cambiamenti climatici si va a sommare a una serie infinita di altre perdite che hanno sperimentato nel corso delle loro vite: la perdita della loro cultura, della loro lingua…”.
Redvers è co-fondatrice e presidente della Arctic Indigenous Wellness Foundation (AIWF) di Yellowknife, un’iniziativa che mira a far rivivere servizi e pratiche di guarigione tradizionali dei nativi del nord. “Da ormai cinque anni gestiamo un healing camp in mezzo alla foresta”, racconta. “Non c’è elettricità, né acqua corrente e si dorme nelle tende. È un accampamento aperto a tutti, dedicato alla guarigione, dove le persone possono venire e riconnettersi con la terra”. L’AIWF, si legge sulla pagina on line, “è stata promossa da un gruppo di anziani come risposta umanitaria alle terribili statistiche sulla salute dei popoli indigeni che soffrono in modo sproporzionato di cancro, diabete, dipendenze, suicidio e malattie autoimmuni, oltre ad avere tassi elevati di senzatetto, disoccupazione e insicurezza alimentare. Un senso di urgenza ha spinto gli anziani del nord a tramandare le loro tradizioni di guarigione, che sono sull’orlo dell’estinzione, per garantire che la prossima generazione di indigeni sia altrettanto sana e felice come i suoi antenati”.
Il compito di chi abita nel ‘Nord del mondo’ deve essere quello di esigere dai propri governi degli interventi e un’attenzione che sia istituzionale, collettiva e globale, così come la catastrofe che stiamo vivendo.
“Per le comunità native”, conferma Redvers, “agire contro il cambiamento climatico significa recuperare le proprie tradizioni culinarie, rivitalizzare le lingue originarie, trasmettere il sapere dai loro anziani. E in molti ambiti stanno alzando la voce in difesa dell’ambiente. Purtroppo a volte non viene dato loro spazio. Ma io penso che sia responsabilità dell’‘Occidente’ ascoltare le comunità indigene, perché solo loro hanno davvero le conoscenze necessarie per tirarci fuori da questo disastro”.
Dall’estremo nord del Canada sino all’Africa meridionale, quello che mi interessava era capire fino a che punto i cambiamenti climatici possono influenzare il benessere mentale degli esseri umani, e come cambiano le cose a seconda delle condizioni economiche e sociali. Quello che mi è chiaro, alla fine di questo viaggio, è che tutti soffriamo in egual modo. Ciò che cambia è l’assistenza psicologica alla quale abbiamo accesso e il margine di azione per invertire la rotta. La povertà estrema e la vulnerabilità, anche geografica, sono elementi che necessariamente finiscono per avere priorità nella scala delle preoccupazioni di un individuo ma sono anche quelle più facilmente visibili e, si crede, sanabili. Vivere nel “Nord del mondo”, con tutti i nostri privilegi, non fa delle nostre ansie qualcosa di irrilevante. La soluzione, però, non sta solo nelle buone, piccole e sostenibili azioni quotidiane, che ci fanno sentire in pace con noi stessi, ma nell’esigere dai nostri governi degli interventi e un’attenzione che sia istituzionale, collettiva e globale, così come la catastrofe che stiamo vivendo.