L a storia di Ebola inizia nel 1976 quando alcuni casi di una misteriosa quanto letale febbre emorragica vengono segnalati, a pochi mesi di distanza gli uni dagli altri, in due zone dell’Africa sub-sahariana. La prima epidemia colpisce poche cittadine di quello che è oggi il Sudan del Sud, Nzara in particolare. Ad accusare per primi i sintomi, secondo le ricostruzioni, sono i lavoratori di un cotonificio dove sono stati consumati pipistrelli arrostiti. Nel giro di qualche mese i contagiati sono quasi 300, poco più della metà i morti. Intanto, a 500 chilometri di distanza in direzione ovest, nell’allora Zaire, scoppia una seconda epidemia. L’epicentro è il villaggio di Yambuku, dove in poche settimane muoiono quasi 300 persone, l’83% dei contagiati. Il virus responsabile non si è mai visto, anche se è molto simile al Marburg che nove anni prima ha causato la morte di alcuni ricercatori in Germania: avevano manipolato organi infetti provenienti da scimmie da laboratorio di origine ugandese. Il virologo Karl Johnson, presente in Zaire in quei mesi, battezza il nuovo microrganismo col nome di un fiume locale: Ebola.
In seguito si scopre che le due epidemie del 1976 sono causate da due specie diverse del genere Ebolavirus e che la variante Zaire è la più letale per l’uomo. Nel 1979, in Sudan, un nuovo focolaio della specie di Ebola locale uccide una ventina di persone. Poi per quindici anni non si registrano altre epidemie. Nel frattempo, in alcuni laboratori occidentali, dove si tenta di comprendere qualcosa in più sul patogeno, avvengono sporadici incidenti che causano la contaminazione di membri del personale. Tutti i casi sono circoscritti e contenuti, le vittime sono limitate. Alla fine degli anni Ottanta il numero delle specie appartenenti al genere sale ancora: vengono identificate una specie endemica della Costa d’Avorio (Taï Forest ebolavirus) e una che, a sorpresa, infetta e può uccidere macachi asiatici. Quest’ultima è il Reston ebolavirus, che nel corso degli anni ha viaggiato per il mondo trasportata involontariamente nei corpi di scimmie da laboratorio. Il caso più eclatante si verifica nel 1990, quando macachi importati dalle Filippine contagiano il personale di una struttura di ricerca statunitense, in Virginia. Nessun morto. Al contrario di quanto avviene in Africa centrale qualche anno dopo, quando la specie Zaire scatena un’epidemia nella città di Kikwit. 254 morti. A oggi il genere Ebolavirus conta cinque specie accertate, sei se si considera la scoperta, avvenuta nell’estate di quest’anno, di alcuni frammenti di RNA virale in due specie di pipistrelli frugivori della Sierra Leone (il nome provvisorio è Bombali ebolavirus). La vita di questi microorganismi, confinata nei loro ospiti naturali – vale a dire specie che ospitano il virus ma non sviluppano la patologia –, e alcuni fattori come l’elevato tasso di mortalità causato nell’uomo, fanno sì che le epidemie siano rapide, concentrate e scoppino ad anni di distanza l’una dall’altra. Almeno, questa era la situazione fino al 2014.
2014, spillover vincente
Per contagiare l’uomo, una specie del genere Ebolavirus come la variante Zaire deve effettuare lo spillover, vale a dire il “salto di specie”. Da uno degli ospiti naturali – o specie serbatoio – del virus (un pipistrello, per esempio) o da un altro “ospite definitivo” (come un gorilla o uno scimpanzé), il virus contagia un uomo. Nonostante il decorso della malattia sia rapido, la persona può trasmettere il patogeno attraverso lo scambio di fluidi corporei o l’utilizzo di materiale sanitario infetto. Spesso i sintomi iniziali possono essere confusi con quelli di altre malattie (la malaria o infezioni virali), causando un fatale ritardo nel contenimento dell’epidemia. Deve essere andata proprio così nel dicembre del 2013, quando un bambino di due anni, il probabile “paziente zero” di questa nuova epidemia, si ammala e muore in un piccolo villaggio della Guinea meridionale, forse dopo essere entrato in contatto con alcuni pipistrelli. La zona, non essendo mai stata colpita dall’Ebola, non è attrezzata per riconoscere in modo tempestivo l’insorgere dell’epidemia e per mettere in atto misure preventive. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara l’avvenuto outbreak soltanto nel marzo dell’anno successivo, quando già si contano i primi casi nella capitale, Conakry, città in cui vivono più di un milione e mezzo di abitanti. È l’inizio della più grande epidemia di Ebola della storia.
A luglio il virus si è già diffuso in Liberia e in Sierra Leone. Per la prima volta colpisce grandi città: i casi sono migliaia. OMS, Croce Rossa, Medici Senza Frontiere, Emergency… ad agosto la risposta internazionale è massiccia e tenta di arginare l’epidemia con tutti i mezzi a disposizione. Le tante difficoltà logistiche e i drammi umani sono riportati fedelmente nelle testimonianze di Intoccabili di Valerio La Martire (Marsilio, 2017) e Zona Rossa di Roberto Satolli e Gino Strada (Feltrinelli, 2015). Nonostante il resto del mondo tagli le comunicazioni aeree con i paesi interessati e alzi il livello di guardia, Ebola arriva anche in Spagna, Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna e in altri paesi africani. Ma sono casi isolati e controllati, che riguardano principalmente medici e infermieri rientrati dai paesi più colpiti. Soltanto a fine anno, grazie all’intensificarsi dell’intervento in Africa Occidentale, la situazione migliora. Tuttavia nel giugno del 2016, quando l’epidemia viene dichiarata conclusa, il conto delle vittime è elevatissimo: 11.325. Nei quarant’anni precedenti Ebola aveva ucciso circa un migliaio di persone. Ora, in un unico evento epidemico, il numero totale dei casi, compresi quelli sospetti, ha superato le 28.000 unità. E, purtroppo, la storia che lega Homo sapiens agli Ebolavirus non è finita.
L’epidemia in corso
Nel 2018 sono scoppiate due epidemie di Ebola in due diverse regioni della Repubblica Democratica del Congo. La prima, che l’OMS ha dichiarato conclusa a fine luglio, ha colpito la regione intorno alla città di Mbandaka, nell’estesa provincia occidentale di Equateur, causando 33 morti (fra cui due operatori sanitari). La seconda, attualmente in corso, è scoppiata circa 2.500 chilometri più a est, nella provincia di Kivu Nord. Finora i morti accertati sono 139. Non è ancora chiaro se i due focolai facciano parte dello stesso evento epidemico, ma l’OMS ha sottolineato che gli sviluppi potrebbero essere considerevoli, dal momento che è stata colpita una regione di frontiera, in cui spostamenti per fini economici con Uganda e Ruanda sono molto frequenti, e la zona ospita oltre un milione di sfollati. Sono condizioni che rendono assai più complicato il lavoro di contenimento operato dalle organizzazioni internazionali e dalle istituzioni locali, aumentando il rischio di trasmissione.
Questa volta, dopo le sperimentazioni operate durante l’epidemia del 2014-2016 in Africa Occidentale, si sta facendo maggiore ricorso all’utilizzo di vaccini. Quello che pare dare i risultati migliori, chiamato rVSV-ZEBOV, è sviluppato dall’azienda farmaceutica Merck. Si tratta di un vaccino non ancora registrato, il cui utilizzo deve essere attentamente valutato. La strategia impiegata è la “vaccinazione ad anello”, che prevede l’immunizzazione delle persone che sono entrate in contatto con un caso positivo, i contatti di questi soggetti (i familiari, per esempio) e gli operatori sanitari. Non si tratta dunque di una vaccinazione di massa, ma è comunque un compito difficile da portare a termine, perché comunicarne il funzionamento alla popolazione non è semplice. Si tratta poi di un vaccino che deve essere conservato e trasportato a basse temperature, procedura assai complicata in aree remote. Gran parte del risultato si gioca, come è sempre stato per le epidemie di Ebola, sulla collaborazione fra istituzioni e popolazione. Informare le persone a proposito dei rischi che corrono e comunicare le pratiche adatte per contenere la trasmissione dell’epidemia può contare tanto quanto possedere un vaccino efficace.
Cosa abbiamo imparato e cosa ancora ignoriamo
Abbiamo un vaccino sperimentale e conosciamo molto bene il genoma degli Ebolavirus, piuttosto semplice rispetto a quello di altri patogeni virali. Sappiamo che quando colpiscono l’essere umano, gli Ebolavirus causano molteplici danni all’organismo, indebolendo in modo massiccio le difese immunitarie; è probabile che le cause di morte siano molteplici. Sappiamo anche che la febbre emorragica, per quanto orribile sia, non trasforma gli esseri umani in moribondi contenitori di organi liquefatti e, soprattutto, non causa una pioggia di sangue dagli orifizi, occhi compresi. Queste esagerazioni provengono in larga parte dal bestseller di Richard Preston, Area di contagio (Rizzoli, 1994), romanzo ispirato agli incidenti sopracitati avvenuti in un laboratorio statunitense della Virginia. Il sottotitolo dell’edizione inglese recita: “Una terrificante storia vera”. L’effetto del libro sul sentir comune è simile a quello che causò Lo squalo di Peter Benchley, portato sul grande schermo da Steven Spielberg nel 1975: una demonizzazione della natura. Al punto che, col passare degli anni, la parola Ebola è diventata sinonimo di “terrore biologico”, di inarrestabile forza della natura che miete una vittima dopo l’altra senza lasciare scampo. La realtà è ben diversa: i numeri dimostrano che nel mondo, oggi, vivono migliaia di persone che hanno contratto la malattia, sono sopravvissute e nonostante debbano affrontare lo stigma della comunità e i reliquati della patologia, riescono a condurre una vita pressoché normale.
Un aspetto importante di Ebola che operatori sanitari e antropologi hanno studiato durante le epidemie, soprattutto in Africa Occidentale nel 2014-2016, è la dimensione sociale della malattia. I contagiati, anche se sono soltanto casi sospetti, diventano immediatamente degli “intoccabili”. La stessa cosa accade per i cadaveri, che devono essere cremati. In gran parte dei paesi africani colpiti è la famiglia che si occupa del defunto, di solito a casa, dove a celebrare i riti sono parenti, amici e vicini di casa. Ebola distrugge le tradizioni, impedisce un corretto svolgersi dei cerimoniali e, nelle aree più povere, causa tensioni e violenze fra la popolazione e le autorità, perché spesso queste ultime ricorrono a metodi coercitivi e a misure d’emergenza poco popolari (il coprifuoco, per esempio). È dunque chiaro che comunicazione, informazione e collaborazione sono di vitale importanza durante un’epidemia di Ebola. Nei centri di trattamento – come quello di Elwa 3 di Medici Senza Frontiere a Monrovia, capitale della Liberia – è arduo lavorare, soprattutto in situazioni di crisi come nell’estate e nell’autunno del 2014. Tuttavia, come si legge più volte nelle testimonianze di medici e operatori, lo sforzo principale consiste nel ricordare che i malati sono persone, nonostante le “tute spaziali” indossate dal personale creino una vera e propria barriera e che in ogni momento sia fondamentale ricordare che si tratta di no touch mission, in cui la semplice azione di praticare un’iniezione o darsi la mano senza guanti comporta rischi assai seri.
Ad ogni epidemia di Ebola migliora la nostra conoscenza della malattia e aumenta il numero di dati a disposizione degli scienziati. Tuttavia conosciamo pochissimo l’ecologia degli Ebolavirus e la loro evoluzione storica. Sappiamo che questa zoonosi non colpisce soltanto l’uomo. Altri primati – fra cui scimpanzé, gorilla e bonobi – e piccole antilopi di bosco possono essere infettati dal virus con conseguenze letali. È molto probabile che un ruolo determinante sia svolto dai pipistrelli frugivori africani, possibili serbatoi del virus. Per esempio, il virus Marburg, stretto parente degli Ebolavirus, è ospitato dal rossetto egiziano (Rousettus aegyptiacus), un pipistrello di medie dimensioni che vive in diverse regioni dell’Africa e del Medio Oriente. Una o più specie di pipistrelli potrebbero essere gli ospiti naturali degli Ebolavirus oppure, come suggeriscono alcuni studi, i pipistrelli sarebbero soltanto ospiti-ponte e l’ospite naturale un insetto o un roditore. L’enigma rimane, anche perché l’ecologia della maggior parte delle 317 specie di pipistrelli africani rimane ad oggi sconosciuta. Non è nemmeno chiaro come avvenga lo spillover da animale a uomo, ma è probabile che il consumo di carne infetta di animali selvatici (la cosiddetta bushmeat) possa essere uno dei principali veicoli di infezione. Inoltre, il fatto che le epidemie scoppino spesso nelle aree rurali dei paesi interessati parla chiaro: i virus, che vivono confinati nei loro ospiti in aree forestali, vengono in contatto con gli esseri umani con frequenza maggiore nel momento in cui queste aree vengono degradate, abitate ed erose. Come scrive David Quammen in Spillover (Adelphi, 2014) – il libro da leggere se vi interessano le zoonosi insieme a Cacciatori di Virus di Joseph McCormick e Susan Fisher-Hoch (Mondadori, 1999) – “Ecco a cosa sono utili le zoonosi: ci ricordano, come versioni moderne di san Francesco, che in quanto esseri umani siamo parte della natura, e che la stessa idea di un mondo naturale distinto da noi è sbagliata e artificiale”.
Ebola tornerà nei prossimi anni, è sicuro. Quel che è importante sapere è che non si tratta di un morbo apocalittico che non lascia scampo; Ebola, infatti, è una malattia virale la cui comparsa, trasmissione e sconfitta è conseguenza delle nostre azioni.