T urbare l’universo è l’ineguagliabile titolo dell’autobiografia di Freeman Dyson, fisico e matematico fra i più importanti del Novecento, che ha vissuto e lavorato a Princeton, negli anni in cui i suoi colleghi erano Einstein, Gödel, Von Neumann, Oppenheimer.
Dyson, ora un arzillo ultranovantenne, è uno di quei pochi scienziati per cui si può usare, senza paura, l’appellativo “genio”: spirito libero (nomen omen, verrebbe da dire), ha sempre lavorato su ciò che voleva, dai progetti più importanti e istituzionali a quelli più assurdi e ambiziosi. È stato uno degli architetti principali della elettrodinamica quantistica (lo stesso campo di studi che valse il Nobel a Richard Feynman, suo maestro), ma ha dato contributi importanti anche in astrofisica, fisica nucleare, meccanica statistica.
La sua carriera iniziò nella RAF, all’inizio della seconda guerra mondiale. Il compito di Dyson era far sì che i bombardieri inglesi non si scontrassero nelle nere notti sopra Berlino, mentre bombardavano la Germania. I suoi calcoli, in maniera indiretta, contribuirono alle tempeste di fuoco che Sebald ha raccontato con orrore in Storia naturale della distruzione. Dyson si pentirà per sempre di aver contribuito alla guerra, nonostante all’epoca non vedesse alternativa.
La sua vera ossessione è sempre stata lo spazio. Nel 1958, partecipò in California all’architettura del progetto Orione: costruire i razzi a propulsione nucleare, in cui una serie di bombe atomiche sarebbero state sganciate su un cratere al cui centro sarebbe stato posto un razzo. L’energia generata dalle esplosioni avrebbe incrementato via via la velocità del razzo fino a superare la velocità di fuga… Per fortuna di tutti, il progetto non vide mai la luce.
Il fisico inglese ha dato il proprio nome anche alla celebre “sfera di Dyson”, idea che da sola ha ispirato centinaia di libri nella fantascienza di mezzo secolo. Il concetto, nella sua genialità, è piuttosto semplice: ogni società avanzata ha bisogno di energia per sopravvivere. Un civiltà sufficientemente avanzata, dunque, potrebbe arrivare alla forma di sfruttamento finale, cioè inglobare una stella intera all’interno di una sfera colossale, in modo da utilizzarne completamente tutta l’energia disponibile. Secondo Dyson, questo tipo di sfere emetterebbe una radiazione molto precisa, che è quindi l’impronta che dovremmo cercare nell’universo per trovare tracce di civiltà aliene avanzate. Civiltà aliene che si mangiano le stelle. Qualche anno fa un team di ricercatori scoprirono una stella misteriosa, chiamata KIC 8462852, che pareva comportarsi proprio come una summenzionata sfera di Dyson ed è recente la scoperta che gli improvvisi cali di radiazione erano dovuti a giganteschi ammassi di polvere spaziale.
Quello che più impressiona è il talento svergognato e la fortuna di Dyson di trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto: al centro della Storia quando questa stava accadendo.
Tutte queste storie sono raccolte in Turbare l’universo, autobiografia che occupa un particolarissimo posto nei libri scritti da scienziati. Prima di tutto, è un libro scritto benissimo. È un libro in cui parla di sé, dell’infanzia e adolescenza di un uomo di genio, riconosciuto da tutti come tale. Ma quello che impressiona più di tutto, forse, è il talento svergognato e la fortuna di Dyson di trovarsi sempre al posto giusto al momento giusto: al centro della Storia quando questa stava accadendo. Fu uno dei colleghi di Oppenheimer, quando questi costruì la bomba atomica, e poi, mangiato dai rimorsi, si giocò la carriera lottando politicamente perché non fosse più costruita. Quando Dyson ci racconta del rapporto sull’energia atomica che scrisse per il suo capo, e che via via passò di mano in mano fino ad arrivare a quelle del Presidente degli Stati Uniti, ci racconta di fatto di come aiutò la guerra a rimanere fredda.
Eppure tutto, in questo libro, è reso con l’understatement britannico più classico, per cui la storia del mondo è sempre, prima di ogni altra cosa, la storia di un singolo uomo. A questo riguardo, i capitoli finali del libro sono a loro modo i più interessanti.
La scoperta del figlio
In uno dei capitoli finali di Turbare l’universo ci ritroviamo con l’autore nell’estrema America settentrionale, per la precisione: “l’arcipelago che parte dalle coste del Canada e dell’Alaska, nella zona settentrionale del Pacifico, e che va da Vancouver alla baia dei Ghiacciai è in un certo senso un microcosmo dell’universo.”
Freeman Dyson ci racconta alcuni giorni trascorsi con il figlio George, che a 19 anni lascia casa e studi e va a vivere in una comune in isole sperdute sulle coste occidentali del Canada, a costruire kayak seguendo le antiche tradizioni indigene. Dalle sue parole (ma soprattutto da quelle che non scrive) intuiamo che i rapporti fra Freeman e George non siano fra i più distesi: sono tre anni che non si vedono. Lunghi mesi di silenzio frappongono padre e figlio. Freeman decide di andarlo a trovare per qualche giorno, con l’amico Ken e la sorella di George.
In Canada, trova il figlio cresciuto, che li viene a prendere con una canoa costruita interamente da lui, in mesi di duro lavoro. George ha i capelli lunghi, è scalzo e annerito dal sole. Novello Walden, assomiglia per di più moltissimo al suo autore, Henry David Thoreau: gli stessi occhi di ghiaccio, penetranti eppure molto caldi. Vive in una capanna che si è costruito da solo, sugli alberi, a quasi trenta metri d’altezza. Lotta con il freddo, gli scoiattoli e i procioni che tentano di rubargli il cibo, ma è felice.
L’Istituto di Princeton è stato il cuore, per quanto nascosto ai più, di una storia che di fatto crea il mondo contemporaneo, che dischiude la corolla del nuovo millennio digitale.
In quei giorni insieme, vanno a sentire le balene, a pescare, conoscono gli altri membri di questa piccola comunità disposta tutta su isolette vicine, ciascuno ha la sua. Il giorno dopo l’arrivo del padre, di mattina, George Dyson intravede una barca a largo. Il mare si sta ingrossando, anche se poche ore prima il sole era caldo e non c’era vento. È preoccupato: “Hanno coraggio a mettersi in mare con una barca aperta”. Pochi secondi dopo le sue parole, la barca non si vede più, inghiottita dall’orizzonte. In un lampo, George e l’amico di famiglia Ken prendono un canotto a motore, per andare alla ricerca della barca scomparsa. Ritornano in quattro: George, Ken, un vecchio tagliaboschi già praticamente congelato (la temperatura dell’acqua non lascia scampo, in quella zona del Pacifico) e uno giovane in stato leggermente migliore.
Il vecchio e Freeman Dyson si fermano a parlare, il vecchio racconta di come avesse sentito la morte arrivare, di come si fosse già rassegnato prima dell’arrivo salvifico di George. Ripresosi, chiede anche a Freeman della sua vita, e del suo lavoro a Princeton. Freeman risponde: “Vede, adesso mi pare che la cosa migliore che ho fatto a Princeton sia stata allevare questo ragazzo”.
George a Princeton
Turbare l’universo esce nel 1979: 34 anni lo separano da un altro libro, La cattedrale di Turing, scritto dal figlio di Freeman, George, il ragazzo in kayak camuffato da Walden, nel frattempo diventato un affermato storico della scienza. Pubblicato nel 2012, La cattedrale di Turing traccia la lunga e dettagliata biografia di un’istituzione, l’Institute of Advanced Studies di Princeton, per anni (cruciali) tempio sacro della matematica, incubatrice della nascita del computer.
A Princeton Freeman lavorò per cinquant’anni, vivendo con la famiglia proprio lì accanto, in una casa nel grande parco dell’istituto, dove vivevano anche gli altri scienziati. Non certo una comune, ma qualcosa di simile. Lì lavorò anche Einstein, che amava passeggiare con Gödel nel parco. Fu diretto da Robert Oppenheimer, esiliato da quella politica che pochi anni prima l’aveva chiamato alla guida del progetto Manhattan e che adesso non poteva sopportare l’opposizione dello scienziato alla costruzione della nuova bomba all’idrogeno.
Ma l’istituto ha un solo poster boy: John Von Neumann, l’apprendista stregone. È impossibile sottostimare la sua importanza per il Novecento: fu al centro del team che creò prima la bomba atomica e poi il computer. Scrisse, con Morgenstern, un fondamentale trattato di teoria dei giochi, ancora oggi la bibbia del pensiero economico classico. Fu uno degli scienziati più intelligenti e acuti e versatili del pianeta, e allo stesso tempo sapeva muoversi con grandissima eleganza e furbizia fra i generali dell’esercito americano, i politici e i diplomatici. Guidava come un pazzo, elaborando discorsi e teoria da dietro il volante della sua decappottabile: senza di lui non avremmo avuto la fine della guerra mondiale, la guerra fredda, il presente digitale. Non tutto così presto, almeno.
L’istituto è stato il cuore, per quanto nascosto ai più, di una storia che di fatto crea il mondo contemporaneo, che dischiude la corolla del nuovo millennio digitale. Il computer nasce qui, e George ha lavorato quasi dieci anni per scriverne a dovere.
Ho letto i due libri in successione, senza sapere che il primo era del padre e il secondo del figlio. Mi piace pensare che siano intimamente legati: un padre fisico genio del Novecento, un figlio che scappa, trova se stesso e poi torna, e ci regala un libro che è la storia del computer e del big bang digitale, certamente, ma anche (sullo sfondo) la storia della sua prima casa, della sua famiglia, degli amici e colleghi di suo padre.
Oggi Freeman Dyson ha 95 anni, e vive ancora a Princeton. Appena può, George torna sull’oceano a pagaiare col suo kayak.