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rizzante, per me” dico subito quando vengono a chiederci come vogliamo l’acqua. “Io pure” aggiunge il mio vicino. “Anch’io” si accoda un’altra. Siamo una decina di persone a cena in un locale di Trieste e nessuno di noi – nemmeno uno – appartiene alla nefasta, venefica, stagnante fazione dell’acqua liscia. Circostanza rara, rarissima: dieci persone tutte schierate dalla stessa parte in materia di acqua minerale è uno scenario ardito anche nelle peggiori pubblicità. Iniziamo a chiederci che cosa renda l’acqua frizzante evidentemente superiore a quella naturale: non è certo un sapore, né un odore. Che cos’è allora?
“È un dolore” decreto con solennità. “Seeeee” si leva un coro di protesta, “adesso, un dolore!”. Io ne sono sicura, ci ho pensato. Quella sensazione sulla lingua e sul palato, che quando l’acqua è come piace a me, frizzantissima, è un po’ come ficcarsi in bocca un puntaspilli, be’, non ho dubbi: è un dolore. Bello, ma un dolore. Perché gli altri non la pensano così? Provano una sensazione diversa dalla mia? Oppure hanno un altro concetto di dolore?
Quale potrebbe essere una definizione di dolore che metta d’accordo più persone possibili, biologi, filosofi, antropologi, medici, linguisti e pensatori di ogni genere?
Che cosa chiamiamo dolore? Quella volta non seppi convincere nessuno. Mi presero molto in giro: “Oh, prima di un bicchier d’acqua, mi raccomando: sempre l’anestesia!”. Per sostenere che quello che proviamo bevendo acqua frizzante può essere considerato un piccolo dolore, dovevo prima saper dire che cos’è, il dolore. “Se dovessi spiegare che cos’è il dolore a qualcuno che non l’ha mai provato, che parole userei?” mi chiesi. Allora non sapevo che questo non è solo un esperimento mentale.
Nessun dolore
La foto ha quei toni troppo gialli delle polaroid casalinghe degli anni Ottanta. In primo piano, sulla destra, un bambino sui due anni guarda in su verso l’obiettivo, il viso troppo illuminato dalla luce artificiale. Alle sue spalle c’è una donna sdraiata sul pavimento a pancia in giù che si volge indietro sorridente, con un secondo bimbo di pochi mesi accoccolato sulla schiena come fosse uno zainetto. Della quarta persona, un uomo in piedi, si vedono solo le estremità: due gambe e due braccia tese ad accarezzare il figlio minore. La scena si svolge evidentemente in un appartamento. Perché allora il bambino più grande indossa un casco?
Un paio di anni prima di questo scatto, Christopher, il figlio minore dei Pete, non era ancora nato. La famiglia viveva in una fattoria a Kelso, nello Stato di Washington. Per il figlio maggiore, Steven, era appena iniziata la dentizione quando i genitori lo trovarono in un lago di sangue e si accorsero con orrore che si era masticato la lingua fino a staccarne un quarto. Non è normale, pensarono, preoccupatissimi. Com’è possibile che si sia morso così in profondità, che non abbia smesso quando ha iniziato a sanguinare, che abbia continuato fino addirittura a far venir via una parte della lingua? Steven fu immediatamente portato dal pediatra, che ben presto ebbe un primo sospetto: possibile che questo bambino non provi dolore?
Esistono casi come quello dei fratelli Pete: bambini nati con il senso del tatto, in grado di distinguere tra caldo e freddo, ma che non conoscono il dolore fisico.
Per verificare la sua ipotesi il medico usò un sistema piuttosto diretto: accese un becco Bunsen e avvicinò il piedino di Steven alla fiamma. Lui non pianse e non mostrò alcun tipo di fastidio, neanche quando sulla pelle iniziarono a comparire piccole vesciche. La tappa seguente fu un centro medico di Seattle, dove fu sottoposto a punture su e giù per la spina dorsale, di nuovo senza mai lamentarsi. A questo punto il sospetto del pediatra divenne certezza e la diagnosi fu chiara: Steven Pete soffriva di una condizione rara chiamata analgesia congenita, oppure insensibilità congenita al dolore (in inglese CIP, Congenital Insensitivity to Pain). Un anno dopo nasceva Christopher, il secondogenito, con la stessa malattia. I due fratelli avevano il senso del tatto, erano in grado di distinguere tra caldo e freddo, ma non conoscevano il dolore fisico.
Bello, no? No, non bello, e già il fatto che ci si possa staccare la lingua a morsi dà un’idea di che cosa comporti essere insensibili al dolore. Steven e Christopher, oltre a masticarsi la lingua e le dita, appena lasciati a se stessi saltavano dal tetto o si lanciavano giù dalle scale senza avere la più remota idea che fossero attività pericolose – senza forse nemmeno capire che cosa significasse la parola pericoloso. Si ustionavano spesso senza saperlo. Rischiavano di affettarsi le dita ogni volta che prendevano in mano un coltello. Una volta che andò a pattinare, Steven si ritrovò con i pantaloni lacerati e una gamba rotta che spuntava dallo strappo: tutti lo indicavano allarmatissimi, ma lui si sentiva bene. Il giorno del suo compleanno si ruppe un piede e pensò bene di sistemarlo col nastro isolante, per poi rimettersi la scarpa e continuare a festeggiare. Aveva l’abitudine di battere la testa contro il muro perché gli piaceva sentire la vibrazione dell’urto. Ecco perché, in quella foto, ha un casco in testa: il trauma cranico era sempre dietro l’angolo.
Oggi Steven Pete ha quarant’anni e in vita sua ha collezionato un’ottantina di fratture. Non è più spericolato come da bambino, ma gli rimane ancora difficile calibrare i rischi legati a qualsiasi gesto. Il momento più critico è stato quando, pochi anni fa, sentendo un braccio stranamente intorpidito, è andato a farsi visitare. “Ha avuto un incidente stradale di recente?” gli ha chiesto il medico, guardando attonito le radiografie.
“No”.
“Fa paracadutismo?”.
“Nemmeno. Perché?”.
“Perché qui ci sono tre vertebre fratturate e un’ernia del disco”.
Solo un paio di settimane dopo la visita Steven è riuscito a ricostruire la causa del trauma: doveva essere stato quel giorno, sulla neve, quando aveva preso una bella rincorsa e poi aveva spiccato un salto in un copertone per lanciarsi giù lungo la discesa, atterrando a valle con tutt’e due le gambe rovesciate sopra la testa. L’incidente – solo ora lo considerava tale – era avvenuto cinque mesi prima, senza che lui, in tutto quel tempo, potesse in alcun modo immaginare di essersi fatto male.
Una volta che andò a pattinare, Steven Pete si ritrovò con i pantaloni lacerati e una gamba rotta che spuntava dallo strappo: tutti lo indicavano allarmatissimi, ma lui si sentiva bene.
Sono anni che il caso di Steven attira l’attenzione della stampa. La maggior parte dei titoli parla di “supereroe” e “superpoteri”. Lui la vede diversamente, anche se trova comprensibile che gli altri lo considerino una specie di privilegiato: “Tutti si immaginano come sarebbe non provare dolore da un certo momento in poi, non dalla nascita. […] E in effetti da adulti, con la certezza di non provare dolore, probabilmente si starebbe benissimo: chi ha provato dolore in passato si adatterebbe molto più in fretta a non provarlo. Avrebbe la consapevolezza che la tal ferita corrisponde al tal danno perché per tutta la vita è stato così. Ma se sei un bambino, quella consapevolezza non ce l’hai”.
Steven ha tre figli. La prima è stata accolta appena nata, direttamente in sala parto, da un sonoro pizzicotto: serviva a verificare che fosse in grado di sentire il dolore. Al pizzicotto è subito seguito un bel pianto, con grande sollievo dei genitori. Nemmeno i suoi due fratelli sono affetti da analgesia congenita e Steven in fondo è fortunato: con il suo palmarès di ottanta fratture non è proprio in forma, ma nonostante tutto ha un lavoro, una famiglia e una vita abbastanza normale. I pazienti colpiti da analgesia congenita di solito vanno incontro a traumi così frequenti che l’aspettativa di vita è bassa: raramente vivono oltre i venticinque anni. Scottature, ferite, infezioni e fratture continue possono lasciare conseguenze gravi. Un’appendicite può passare inosservata. Christopher, il fratello minore di Steven, amava l’attività fisica all’aria aperta, ma dopo tanti incidenti la sua salute era così compromessa che la prospettiva, a nemmeno trent’anni, era la sedia a rotelle. In preda all’alcolismo e a crisi depressive, si è ucciso quindici anni fa. Nonostante la drammaticità della sua storia familiare, nelle mille interviste che ha accettato di rilasciare negli anni Steven risponde sempre di buon grado alle domande.
“Come descriveresti quel che provano gli altri quando sentono dolore?” gli chiede la podcaster statunitense Chion Wolf in una puntata di Audacious del 2020. Poi esita, aggiunge: “O magari fare a te questa domanda è come chiedere a me che aspetto ha l’infrarosso?”. “No” risponde lui ridendo, “è come chiedere a te che cosa si prova quando si sente dolore!”. Steven, che non ha mai provato dolore, lo comprende bene abbastanza da saper dare questa risposta.
I nomi delle cose
Chiunque abbia studiato un po’ di matematica avrà per tutta la vita un rispetto speciale per le definizioni. A dire la verità, se la matematica non fosse la forma del mio pensiero non credo che avrei mai pensato di scrivere Il male detto. Definire un oggetto in matematica è un punto di partenza, ma anche un punto di arrivo: se un ente con certe caratteristiche merita un nome tutto suo significa che è già chiaro che sarà chiamato spesso, dunque sarà uno strumento utile. Guardarlo bene e fantasticare su che cosa gli accadrebbe in varie situazioni permetterà di trarre conclusioni, che chiameremo teoremi. Ora, quando un matematico definisce un oggetto – che sia un insieme, un elemento, una funzione, una proprietà – gli altri matematici sanno esattamente di che cosa sta parlando. Non esiste ambiguità. La definizione esaurisce tutto quel che c’è da sapere su quell’oggetto per poterlo maneggiare: non ci sono informazioni mancanti; non ci sono informazioni di troppo. La definizione è un antidoto all’incomunicabilità.
I matematici però, almeno quelli un minimo equilibrati, sanno che questa idea di definizione difficilmente si applica al reale. Ci sono lo stesso molto affezionati, e sanno che allenarsi a definire gli oggetti o i concetti reali è un ottimo esercizio per comprenderli meglio. Naturalmente è uno sforzo destinato a fallire: potremo mai definire il dolore con un’accuratezza formale tale che chiunque altro – anche chi, come Steven, non l’ha mai provato – sappia esattamente che cosa intendiamo? No. Però possiamo restringere il campo: possiamo stabilire molte delle cose che di certo non chiamiamo dolore e, viceversa, alcune caratteristiche che nel dolore devono esserci per forza. Ne verrà fuori una definizione un po’ lasca, qualcosa che i matematici potrebbero chiamare, con una smorfia a metà tra il disgusto e il senso di colpa, euristico.
Potremo mai definire il dolore con un’accuratezza formale tale che chiunque altro – anche chi, come Steven Pete, non l’ha mai provato – sappia esattamente che cosa intendiamo?
Certo, se in matematica siamo noi a scegliere come creare e dunque definire un oggetto, la definizione di dolore va un po’ “indovinata” e non è detto che la nostra lingua e il nostro pensiero abbiano gli strumenti sufficienti per farlo. Tutti noi impariamo che cos’è il dolore per accumulazione, un po’ come un’intelligenza artificiale impara a individuare un volto in una foto dopo essere stata addestrata con migliaia di immagini che contengono e non contengono volti. In questo processo è cruciale che cosa ci viene indicato come dolore e che cosa no: se a un’intelligenza artificiale consegniamo anche le foto di teiere come se ritraessero volti, poi ci ritroveremo con delle facce interessanti.
Come se non bastasse, c’è il fattore linguistico: la parola dolore si presta a interpretazioni diverse, quindi le definizioni possono essere varie e ammettere una buona dose di arbitrarietà. Allora la questione, più modestamente, è: quale potrebbe essere una definizione di dolore che metta d’accordo più persone possibili? Chissà quanti biologi, filosofi, antropologi, medici, linguisti e pensatori di ogni genere ci hanno pensato in migliaia di anni. Il piano, dunque, è leggere quel che hanno scritto. E, quando si può, chiedere direttamente a loro.
I contorni del dolore
Un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno tissutale effettivo o potenziale, oppure che somigli a quella associata a tale danno.
Questa è la definizione ufficiale della IASP, l’International Association for the Study of Pain, che esiste dal 1973 e ha sede a Washington. A fondarla è stato uno dei pionieri della terapia del dolore, John Bonica. Personaggio notevole: nato nel 1917 alle Isole Eolie, Bonica si trasferì da piccolo a New York con la famiglia. Insieme alla brillante carriera medica, in gioventù perseguì un discreto percorso come wrestler. Le ammaccature procurate dallo sport ebbero le loro conseguenze e lo resero sensibile al problema del dolore. Leggo in rete che la formulazione della definizione della IASP è cambiata di recente, nel maggio 2020, per la prima volta dal 1979. Chissà com’è cambiata, perché, e che cosa diceva prima. Quando infine leggo la definizione precedente, quella di quarantaquattro anni fa, rimango delusa. È quasi uguale:
Un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a un danno tissutale effettivo o potenziale, o espressa in termini di tale danno.
Si direbbe che in tutto questo tempo la nostra cognizione del dolore non sia cambiata molto. In realtà potrebbe essere una buona notizia: forse significa che abbiamo già una formulazione ottimale. La differenza tra le due definizioni, cioè il passaggio da “espressa in termini di tale danno” a “che somigli a quella associata a tale danno” è dovuta alla necessità di separare il dolore dalla capacità espressiva di chi lo prova. Una nota a margine del testo del 2020 sancisce che “la descrizione verbale è solo uno di molti comportamenti che esprimono dolore; l’incapacità di comunicare non nega la possibilità che un essere umano o un altro animale provi dolore”.
Insomma, un neonato o chiunque, per le ragioni più diverse, abbia difficoltà nel descrivere quello che prova, non per questo sente meno dolore. La definizione del 1979 era corredata da ben venti note, tra le quali si leggeva che “esperienze che somigliano al dolore ma non sono spiacevoli, come il prurito, non dovrebbero essere chiamate dolore”. Parlavano di me? Parlavano dell’acqua frizzante? Il prurito però, che in effetti non associo a una forma di dolore, io lo definirei senz’altro spiacevole. Vado a spulciare le note della nuova definizione: sono solo sei e questa non c’è più. Bisogna indagare.
A stilare l’intero testo è stato un comitato internazionale di quattordici esperti di dolore che dal 2018, per due anni, hanno discusso la necessità o meno di aggiornare la definizione e come. Tutto ciò è avvenuto non senza una buona dose di battibecchi tra scienziati, che si sono divisi tra chi trovava la definizione originale impeccabile, o quasi, chi suggeriva piccole modifiche e chi l’avrebbe stravolta del tutto.
Un neonato o chiunque, per le ragioni più diverse, abbia difficoltà nel descrivere quello che prova, non per questo sente meno dolore.
Ma per chi, come me, non deve farne un uso clinico o scientifico, questa definizione è soddisfacente? Provo a testarla. Esperienza. Sì, il sostantivo di base mi convince. Avevo pensato a sensazione, ma esperienza è meno vago e mi piace come restituisce al dolore una dignità di fenomeno sicuramente reale, ancorché soggettivo. E senso? Il dolore si può considerare un senso? Tutto sommato è una facoltà che ci può dare informazioni sull’ambiente circostante: perché non figura mai accanto a vista, udito, olfatto, tatto e gusto?
Sensoriale: ecco, i sensi in effetti c’entrano. Se anche non è un senso, la componente sensoriale nel dolore fisico è ineliminabile. Mi sembra giusto.
Ed emotiva: direi che è incontestabile. Il fatto che nella definizione del dolore si tenga conto sia delle sue manifestazioni fisiche sia del disagio emotivo che comporta è coerente con la mia idea istintiva di dolore. Mi chiedo se la componente emotiva ci sia sempre: è possibile provare un dolore fisico di qualsiasi natura ed entità senza che abbia un riscontro seppur minimo nel nostro stato d’animo? E poi, se parlo di entità, non posso non chiedermi: esiste una misura del dolore? Se non esiste, che significato dare a concetti come dolore intenso o dolore lieve?
Associata a un danno tissutale effettivo: se una parte del tuo corpo si danneggia, fa male. Ma è vero sempre? Direi di no: ci sono sicuramente aree del nostro corpo insensibili al dolore. Viceversa, una sensazione spiacevole non dolorosa come la nausea – o, a questo punto, il prurito – non la associo a un danno nel tessuto. Ma questa associazione è culturale? Se vado nell’antica Roma o tra gli indigeni dell’Amazzonia, pensare al dolore in termini di danno dei tessuti sarà altrettanto automatico?
O potenziale. Quindi? Se mi scotto e levo il dito prima di ustionarmi, non ho comunque danneggiato le mie cellule? Si può provare dolore senza che nessuna cellula sia danneggiata?
Oppure che somigli a quella associata a tale danno. Se il danno, oltre a non esserci, non è nemmeno potenziale, si può provare dolore? Ma soprattutto: come interpretare la parola somigli e, ancor prima, la parola associata? Questa parte della definizione presuppone che io, conoscendo il dolore associato al danno tissutale, sia in grado di ricordarlo mentre il danno non c’è per confrontarlo con quel che provo in un secondo momento. Si può davvero ricordare un dolore? Che cosa significa ricordare un dolore?
Ho saltato la parola spiacevole. L’ho lasciata per ultima perché qui per me si apre una voragine. Non tanto per la questione dell’acqua frizzante, che pure esiste; dovrò capire se un dolore può mai essere piacevole, cioè se lo stesso stimolo può dare dolore e piacere contemporaneamente. Ma la cosa grave è che usare spiacevole per definire dolore mi sembra un po’ barare. Non è una tautologia? Con spiacevole per me ci avviciniamo a quello che in matematica si chiama concetto primitivo, cioè un oggetto che non definiamo perché consideriamo la sua natura intuitiva e condivisa senza bisogno di altri giri di parole. Per esempio l’insieme in matematica è un concetto primitivo. Non è che non lo definiamo perché via, ci siamo capiti: non lo definiamo perché non si può.
Per quali esseri viventi ha senso parlare di dolore? Come si rispecchia questo “male” in un fenomeno fisico e biologico nel corpo? Esiste una specie di interruttore che si possa piazzare su 0 (neutro) o 1 (dolore)?
Questa corsa a ritroso delle definizioni prima o poi deve per forza chiudersi, altrimenti parliamo all’infinito e non ci diciamo più niente. I concetti primitivi sono nel minor numero possibile (un concetto primitivo derivabile da altri non sarebbe tale) e a partire da essi dobbiamo poter definire tutti gli altri oggetti della nostra teoria. Ora, con spiacevole non dobbiamo per forza fermarci. Per definire un aggettivo non è utile un sinonimo, ci vuole una descrizione operativa, quindi “sgradevole” o “indesiderato” non vanno bene, mentre “che suscita una reazione negativa” va già meglio. Il problema a questo punto si sposta di poco: che cosa significa negativo per il nostro cervello?
Questo è ciò che più di tutto vorrei sapere. Immagino che per un essere vivente sia “negativo” o “male” ogni ostacolo alla sopravvivenza di sé o, meglio ancora, della specie. Il che apre un altro immenso capitolo: per quali esseri viventi ha senso parlare di dolore? E soprattutto: come si rispecchia questo “male” in un fenomeno fisico e biologico nel corpo? Quel che avviene nel caso del dolore fisico avviene anche nel dolore emotivo? Esiste una specie di interruttore che si possa piazzare su 0 (neutro) o 1 (dolore)? Qualcosa che accade tutte le volte che sentiamo dolore, e solo allora? Se non esistesse, il dolore sarebbe un concetto fuorviante, un aggiustamento tutto umano per capirci approssimativamente tra di noi. E se invece questo interruttore esiste, dov’è?
Estratto da Il male detto. Che cosa chiamiamo dolore, di Roberta Fulci (codice edizioni, 2023).