L a divulgazione della natura è un po’ come il numero di giocoleria con i piatti rotanti sui bastoni, da mantenere in equilibrio per far divertire il pubblico. Quando si scrive di natura, c’è prima di tutto il piatto fattuale: cosa fanno e cosa accade agli animali, alle piante, ai batteri, alla natura che si sta descrivendo. Poi di solito c’è il piatto personale: chi è l’autore, quali sono i suoi sogni e i suoi viaggi, la sua preparazione, la gente che conosce, che mestiere sognava di fare da piccolo e cosa fa adesso. E poi l’ultimo piatto, teorico e storico: le ipotesi nascoste dietro la narrazione, le teorie sul perché quelle specie di cui si racconta fanno quello che fanno.
Non sono molti i libri che riescono a mantenere questo equilibrio, per varie ragioni. La parte personale a volte è poco interessante, se l’autore è poco propenso a raccontarsi. Limitarsi alla parte teorica potrebbe però essere un’impresa troppo intricata e difficile, e scaturire in un libro prevalentemente o solo di teoria, un libro scolastico o universitario. Rimangono gli aneddoti, i fatterelli di cui sono pieni molti libri su animali e piante. Libri ben scritti, ma a fine lettura superficiali, opere in cui la fanno da padrone i casi particolari, le curiosità. Vaghe introduzioni agli argomenti, sguardi superficiali della storia naturale.
In generale, insomma, i libri di divulgazione della natura possono essere divisi in “classi” (un po’ una tassonomia, per restare in tema), secondo la distribuzione del loro contenuto. A volte l’esercizio di abilità viene bene anche con un piatto solo: la bravura del divulgatore, d’altra parte, sta nel riuscire ad affascinare anche con le sole idee, o le ipotesi. C’è riuscito di recente Robert Sapolsky nel suo ultimo Behave (Penguin Pr, 2017), il racconto dei comportamenti umani e delle cause (prossime e remote) che li spingono. Un libro teorico, di 800 pagine, fitto di spiegazioni storico-evolutive eppure così ben raccontate da rendere il tutto assolutamente coinvolgente. Oppure Robert Trivers, sopraffino teorico dell’evoluzione, che ha collaborato a teorie fondamentali (assieme ad altri ricercatori), come quella dell’altruismo reciproco, dell’investimento parentale, della determinazione facoltativa del rapporto tra i sessi, del conflitto genitori/figli, un evoluzionista dalla cui biografia ci si sarebbe aspettati un’analisi della sociobiologia moderna e che invece nel suo ultimo Wild Life: Adventures of an Evolutionary Biologist (Biosocial Research, 2015), scrive un divertente excursus sulla sua vita da scienziato ai Tropici, alla ricerca di soggetti di studio, rettili tropicali simili alla nostre lucertole. Ci sono anche volumi che riescono a intrattenere con un approccio così particolare da risultare spiazzante. Un esempio è Consigli sessuali per animali in crisi, di Olivia Judson (Sironi editore, 2009), guida alla biologia evoluzionistica della riproduzione, scritto come una rubrica di lettere al direttore. O ancora L’orologiaio miope, di Lisa Signorile (Codice 2012), che tratta quasi solo di specie strane e curiose, che nessuno quasi conosce, con uno stile brillante e avvincente. Ma sono eccezioni e, come si vede dall’anno di pubblicazione, neppure troppo recenti.
Il genio degli uccelli
Questo pezzo è nato dopo la lettura di un libro che corrisponde quasi in pieno all’esercizio di equilibrio del numero dei piatti cinesi. Il libro si chiama Il genio degli uccelli, l’autrice è Jennifer Ackerman ed è uscito per la casa editrice La nave di Teseo. È un corposo volume (circa 600 pagine) che però si legge con interesse. Anche se Ackerman non ha una specifica preparazione scientifica, è un’appassionata birder, come anche molti naturalisti prima di lei, e non si è semplicemente seduta a tavolino per cercare di raccontare la vita di questi dinosauri pennuti. Ha voluto andare a vedere tutte o quasi le situazioni che racconta, intervistare i biologi che hanno studiato le varie specie e i teorici che su certi comportamenti hanno voluto costruire ipotesi o complesse teorie. Trattandosi di un’analisi dell’intelligenza degli uccelli, i protagonisti di molti capitoli sono due gruppi, i corvidi e gli psittaciformi (i pappagalli). I corvidi appartengono ai passeriformi, come la maggior parte degli uccelli canori (passeri e usignoli, per esempio), e sono diventati un epitome della brillantezza aviaria. Corvi e nocciolaie (che sono corvidi più piccoli, divisi in varie specie in tutto l’emisfero nord) dimostrano giorno dopo giorno la loro intelligenza. La nocciolaia di Clark raccoglie decine di migliaia di semi e li sparge nel territorio, andando a ripescarli quando ne ha bisogno. Alcune cornacchie fanno cadere le noci sull’asfalto prima che passino le macchine, per farle rompere dai veicoli. Per non parlare del corvo della Nuova Caledonia, una remota isola del Pacifico (che l’autrice ha visitato, ovviamente). I rappresentanti della specie strappano le foglie del pandano, una palma, per costruire strumenti usati per catturare bruchi o altre prede.
Ackerman va in Nuova Caledonia per parlare con i ricercatori, e aggiunge carne al fuoco, accumula spezie in una ricetta già ricca, senza farla diventare indigesta. Proprio in Nuova Caledonia Ackerman dimostra la sua bravura di divulgatrice e narratrice, quando descrive le capacità tecniche di un paio di corvi della Nuova Caledonia. Come Blue, che: “esamina la situazione, saltellando attorno al tubo, sbirciando all’interno, muovendo la testa con precisione meccanica. Scende sul pavimento della voliera e sposta col becco vari oggetti a caso sparpagliati qua e là – foglie, rametti, uno o due pezzetti di plastica – ma apparentemente non trova ciò che cerca”. Gli uccelli diventano personaggi veri e propri, protagonisti che cambiano a ogni capitolo, da Blue al famoso pappagallo Alex, nella sezione sui virtuosismi vocali, trasformano il libro in una specie di rappresentazione teatrale in cui ogni atto è qualcosa di nuovo. La partenza è sempre, se si può dire, drammatica, personale, vivace, e da lì si parte per un viaggio che scava nelle loro vite con l’aiuto dei ricercatori che li studiano, voci di un coro fuori scena.
Analizzare la vita di un corvo o di una cincia potrebbe sembrare una soluzione troppo facile, e invece Ackerman da lì arriva agli studi sulla biologia delle specie, sulle conclusioni anatomiche, fisiologiche, evoluzionistiche saltando per note e aneddoti personali fino a esporre grandi elaborazioni evoluzionistiche, incalzando a volte il lettore, come all’inizio del capitolo quarto, quando spiega che gli uccelli: “si riproducono in colonie, fanno il bagno in gruppo, si accampano, si nutrono in stormi. Origliano. Litigano. Imbrogliano. Ingannano e manipolano. Rapiscono. Divorziano. Mostrano un forte senso di giustizia. Fanno regali”. Un altro dei pregi del libro sono proprio questi passaggi senza soluzione di continuità dal locale al generale, dall’aneddoto alla teoria. I viaggi costituiscono la parte narrativa, i comportamenti degli uccelli il racconto di storie naturali, le elaborazioni teoriche enunciate sono il “dietro le quinte” necessario per capire come e perché una determinata specie si comporta come ha descritto il ricercatore.
Da certi punti di vista, quindi, un libro perfetto, che potrebbe, e dovrebbe, avere molto successo nelle vendite. Eppure la divulgazione naturalistica ben fatta, adulta, complessa, ricca e profonda, in Italia non vende, non rende, non sfonda. Perché?
Un gioco per ragazzi
La domanda potrebbe sembrare oziosa e inutile, ma secondo me ci sono ragioni profonde per chiederselo. La divulgazione della natura è uno dei componenti di un atteggiamento, un approccio, una filosofia che fa di quello che accade attorno a noi, al di fuori del mondo umano, un elemento importante. Sapere perché questo stesso elemento è del tutto ignorato dal mondo della cosiddetta “cultura” potrebbe essere utile.
In Italia animali, piante, ecosistemi, ambienti, sono considerati argomenti “per l’infanzia”. Spesso i musei di storia naturale sono visitati solamente da genitori con bambini. Perché la natura appassiona così poco?
Una prima risposta potrebbe essere che l’interesse per la scienza tutta ha spesso come motore principale l’effetto meraviglia, l’inatteso, lo strano, il diverso. L’alieno nel senso più lato del termine, qualcosa di lontano dall’esperienza personale e comune. Persino animali o piante decisamente peculiari, come i pesci di profondità, certi insetti delle foreste tropicali, o vegetali dalla struttura in apparenza impossibile, sono bene o male cose ormai familiari, che possiamo tranquillamente ricondurre al noto: in fondo sono solo pesci o insetti o piante. Altri soggetti, galassie, stelle, buchi neri, sono invece veramente fuori dall’esperienza comune, veramente lontani molti gradi di separazione, e anche i concetti, le idee e le teorie della natura non possono ‒ in apparenza ‒ competere con la stranezza dell’entanglement o del gatto di Schrödinger. Selezione naturale, geni, corteggiamento, egoismo sono quattro costruzioni mentali su cui litigano gli evoluzionisti da almeno 150 anni. Eppure nessuno potrebbe dire: wow, che stranezza, che meraviglia, che “alienità”. Perché la stranezza non sta nei concetti stessi, ma in quello che c’è dietro, nelle spiegazioni (nei tentativi di spiegazione) che i biologi hanno avanzato da decenni per ognuno di questi argomenti. La biologia e l’evoluzione, l’ecologia (che a dirla tutta è ancora più ignota e sconosciuta e aliena) sono direttamente collegate alle nostre esperienze personali, di tutti i giorni, in una vera e propria folk biology che ci permette di guardare con poca attenzione i soliti “documentari sugli animali” e non seguire affatto se qualcuno ci parla di come funziona veramente una foresta.
La professione di divulgatore/comunicatore spinge a volte a pensare alla propria impostazione, anche con discussioni private (o pubbliche, addirittura a volte sui social) sull’argomento. E qui e altrove proposte, non necessariamente opposte alla prima, richiamano la mancanza, quasi assoluta direi, di cultura naturalistica in Italia. E della tradizione naturalistica, per esempio, anglosassone. Senza tirare in ballo Darwin, nell’Ottocento parecchi erano gli esploratori che riportavano in patria le specie più strane. Altri contributi parlano di Italia come “troppo patria di artisti”, al limite di scienziati classici, ma ben poco di naturalisti. A volte si dice anche che il nostro paese si è da poco affrancato dalla campagna (brutta, sporca e cattiva) e quindi cerca di evitare e tratta come poco importanti i temi che hanno a che fare con natura e animali. Oppure ancora che dare importanza alla natura significherebbe poi prenderla in considerazione quando si stendono bilanci, si fanno i conti, si calcola il Pil di una nazione – e si preferisce avere un problema politico in meno.
La questione italiana
Qualunque sia la ragione dell’atteggiamento del lettore italiano verso la natura e la sua divulgazione, qualunque siano gli approcci alla sua conoscenza, il risultato è che i libri di natura per adulti, interessanti o meno, vendono poco. Appunto perché sono “per adulti”: perché contengono idee, non solo raccontini, e le idee che girano attorno alla natura sono difficilissime o facilissime. Tutti pensano di sapere perché un animale X o una pianta Y è fatta in quel modo o si comporta così. Non sono necessari lunghi trattati per approfondirlo, la familiarità del soggetto è una delle giustificazioni di questo atteggiamento.
A cosa si accompagna tutto ciò? Certamente, ma non è una novità, alla mancanza di rispetto per la natura. Fermare un progetto qualsiasi, anche il più inutile, per proteggere una specie animale (anche un’umile chiocciola, o una salamandra ‒ non si parla di lupi o orsi) sembra del tutto assurdo in Italia.
A questo si aggiunge la noncuranza con cui sono trattate le materie biologiche nelle scuole, dove difficilmente si riesce ad andare oltre agli aneddoti sulle “bestioline” o le piante, e non si arriva quindi mai alla teoria che sta alla base di tutte le scienze biologiche. E questa è la conseguenza più grave: fino a una certa età nessun alunno viene a conoscenza di una parte importante del pensiero scientifico moderno dall’enorme complessità e dalla fondamentale importanza: la teoria dell’evoluzione.
Poco dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie, nel 1859, molti studiosi italiani accolsero entusiastici la teoria, avversata invece quasi subito da esponenti della cultura e della religione organizzata. Per esempio il senatore e abate Raffaello Lambruschini si scagliò contro lo “sconcio” scenario dell’evoluzione: la scienza non poteva negare la teologia. Famoso anche l’intervento di Niccolò Tommaseo, che nel libello L’uomo e la scimmia definì “Mosè delle scimmie” il fisiologo russo Aleksandr Herzen ‒ che tenne a Firenze una conferenza Sulla parentela fra l’uomo e la scimia. Secondo Tommaseo gli evoluzionisti erano “bestie”. Non è finita: come ricorda Telmo Pievani in un articolo su Le Scienze: “Nel 1938 arriverà l’attacco di Benedetto Croce, in La natura come storia senza storia da noi scritta, con la comparazione fra i bestioni di Vico, dotati almeno di una scintilla divina, e gli scimmioni ciechi di Darwin, che gettano l’uomo nell’abisso degenerante del materialismo”.
Darwin ebbe anche il dubbio onore di essere preso di mira da un ministro dell’Istruzione di qualche anno fa, Letizia Moratti, che tolse la sua teoria dai programmi scolastici con decreto del 19 febbraio 2004. Mal consigliata da esperti educatori di area cattolica, il ministro considerò la teoria, con un’acrobazia retorica, “troppo difficile” e quindi da abolire, sopire, quietare, nascondere. Per farla tornare sui banchi di scuola, fu necessaria una pleonastica “commissione” presieduta da Rita Levi Montalcini, che concluse ‒ non senza qualche palese sogghigno ‒ che: “l’insegnamento delle scienze non può prescindere dall’insegnamento della teoria evoluzionista e di Darwin”.