L.C. ha 26 anni. Ha avuto un’infanzia difficile, è stata anche in orfanotrofio, ma se l’è cavata quasi sempre appoggiandosi alla nonna, unico suo punto di riferimento familiare. Dopo un periodo particolarmente duro, quattro anni fa, in cui comincia a soffrire di un forte stato di ansia, in aggiunta ai medicinali per trattare il disturbo, il suo medico le dà dei farmaci antidepressivi. Lo stato ansioso e le ossessioni che la accompagnano migliorano, ma l’umore no. Anzi. Gira vari medici e riceve, insieme a una diagnosi di depressione (che non aveva mai avuto), prescrizioni per quasi tutta la gamma di medicinali contro i disturbi dell’umore. Ma si sente sempre peggio e decide di smettere.
A questo punto, però, la colpiscono sintomi del tutto inaspettati. “Scosse al cervello, vertigini, insonnia, confusione, diarrea, un malessere ‘totale’ che non avevo mai provato”, racconta. Come migliaia di pazienti che si ritrovano a raccontare le loro esperienze nei forum su Internet, o ai pochi psichiatri che danno loro qualche credito, L.C. ritiene di essere vittima di una vera e propria sindrome da astinenza dai farmaci antidepressivi. È convinta che quelle stesse medicine che avrebbero dovuto curarla dal male di vivere l’abbiamo resa dipendente fisicamente, al pari di una droga.
A sentire e leggere i racconti, un’obiezione viene subito in mente: da decenni, milioni di persone assumono questi farmaci. Possibile che nessuno se ne sia accorto? Possibile che, anche al di fuori degli studi clinici, medici e psichiatri non si siano imbattuti, nella pratica quotidiana, nei disturbi riferiti dai pazienti?
Un successo con tante ombre
Per sbrogliare la matassa di questa storia intricata bisogna partire da lontano. I farmaci contro i disturbi dell’umore sono disponibili ormai da più di cinquant’anni. I primi a essere usati, nel 1952, furono due molecole chiamate isoniziad e iproniziad, di cui furono scoperte le proprietà “rinvigorenti” sull’umore mentre venivano sperimentati come medicinali contro la tubercolosi. Proprio per descrivere l’effetto di queste sostanze fu coniato il termine “antidepressivo”. Poco più tardi, nel 1957, comparvero sul mercato gli antidepressivi chiamati triciclici per la loro struttura chimica a tre anelli, usati fino a gran parte degli anni Ottanta. Nel 1987 venne lanciato il Prozac, il primo dei cosiddetti SSRI, ovvero inibitori della ricaptazione della serotonina, antidepressivi di seconda generazione – accompagnati dalla fama di farmaci “eccezionali”, con buona efficacia e scarsi effetti collaterali, e da massicce campagne di marketing. Come ha scritto lo psichiatra Allen Frances, erano medicine user friendly, adatte a un mercato di consumatori di massa. La fluoxetina, questo il nome della molecola, fu prescritta fin da subito a milioni di persone.
Sono gli anni del boom. Sui media se ne parla solo bene. Tra gli specialisti cominciano a essere notati alcuni effetti collaterali e qualche problema. Ma del resto lo stesso succede per molti altri farmaci, al momento di scalare le dosi e smettere di assumerli, e le difficoltà sembrano davvero minime, a fronte degli effetti miracolosi nella cura della depressione.
Oggi, i medicinali antidepressivi sono uno degli strumenti, insieme agli interventi non farmacologici come la psicoterapia, nella cura dei disturbi depressivi. Finita la mitizzazione, e passata anche la fase del pregiudizio nei loro confronti (che siano un incoraggiamento a risolvere con la chimica problemi esistenziali) o addirittura della demonizzazione (che non siano più utili di una pillola di zucchero o che possano indurre al suicidio) sono considerati farmaci abbastanza efficaci nel trattamento delle forme gravi di depressione (funzionano in non più del 60 per cento dei casi, e sono in grado di diminuire il rischio di suicidio, soprattutto nei pazienti più anziani), ma inefficaci nelle forme lievi, o addirittura problematici o controindicati nel caso di alcuni disturbi mentali diversi dalla depressione.
Si discute poco di effetti collaterali e delle difficoltà dei pazienti a maneggiare questi medicinali: la cosiddetta sindrome da astinenza è quasi sconosciuta non solo ai medici, ma perfino nella letteratura scientifica.
Di effetti collaterali e delle difficoltà dei pazienti a maneggiare questi medicinali, però, si discute ancora poco. Tanto che la cosiddetta sindrome da astinenza è quasi sconosciuta non solo ai medici, ma non molto studiata perfino nella letteratura scientifica.
È del 1994 il primo report sulla paroxetina, altro SSRI commercializzato a partire dal 1992, e dell’anno dopo uno su paroxetina e sertralina, in cui si segnalano alcuni sintomi fisici e reazioni e avverse al momento della sospensione. “Ricordo bene un paziente” racconta Giovanni Fava, psichiatra all’Università di Bologna e alla Buffalo University, uno dei primi a denunciare e studiare il fenomeno. “Gli stavo togliendo la paroxetina, e cominciò ad avere allucinazioni visive. Mi spaventai tantissimo”. A quei primi report seguono altre segnalazioni, sempre più concordi e circostanziate.
Iniziano anche i primi studi controllati, e la problematica emerge con maggiore chiarezza. La caratteristica principale di quella che viene definita nella comunità degli psichiatri come “discontinuation syndrome” è che i disturbi, sia fisici sia psichici – dalla nausea all’insonnia fino all’agitazione, ansia o a disturbi dell’equilibrio e sensoriali, sensazioni come di scossa elettrica – emergono subito dopo la riduzione o la sospensione dei farmaci, nel giro di due-tre giorni, a volte addirittura ore. Ma soprattutto che, anche fra i sintomi psicologici, i pazienti ne accusano di nuovi, mai avuti prima, rispetto a quelli che avevano portato alla diagnosi iniziale.
La definizione di una sindrome
Dopo questi primi lavori, però, l’interesse scema anche nelle riviste scientifiche di settore. Bisogna arrivare al 2015 quando sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics, oggi la quinta per impact factor nel settore della psichiatria e che pubblica anche su temi controversi e più lontani da quelli mainstream, appare la prima revisione sistematica, ovvero un’analisi riassuntiva dei dati pubblicati nella letteratura scientifica in materia. Dalla revisione, realizzata dal gruppo di Fava, che è anche direttore della rivista, emerge questa volta una descrizione un poco più chiara della sindrome: i sintomi si manifestano a distanza di pochi giorni dalla sospensione degli SSRI, e durano alcune settimane. Gli autori raccomandano inoltre di aggiungere questa classe di farmaci alla lista di quelli potenzialmente in grado di provocare dipendenza e sintomi da astinenza, al pari di medicinali famigerati per questo effetto, come le benzodiazepine o i barbiturici.
Sullo stesso numero della rivista, compare un articolo in cui il farmacologo Guy Chouinard della McGill University in Canada, sulla base dei dati esistenti, classifica le varie forme di sindrome da astinenza, con la loro durata e i loro effetti. Lo studio, che stila per la prima volta dei criteri diagnostici chiari e simili a quelli cui gli psichiatri sono abituati, definisce in base alla tipologia e alla durata dei sintomi riportati dai pazienti tre “livelli” di sindrome da astinenza. Il primo è sperimentato dalla maggioranza delle persone che smettono di prendere un farmaco antidepressivo e consiste prevalentemente in sintomi fisici – malessere di tipo influenzale, palpitazioni, insonnia, diarrea – che non hanno niente a che vedere con la patologia iniziale, e che durano solo alcuni giorni. I pazienti possono non metterli neppure in relazione con la sospensione del farmaco, attribuendoli magari all’influenza o a un malanno passeggero.
Uno studio pubblicato su Psychotherapy and Psychosomatics definisce tre “livelli” di sindrome da astinenza, in base alla tipologia e alla durata dei sintomi riportati dai pazienti.
Più pesante è la seconda forma: nel giro di pochissimi giorni, a volte ore, dalla sospensione del farmaco, ai sintomi fisici si aggiunge un ritorno dei sintomi psicologici per cui si era iniziato ad assumere il medicinale, umore basso e sensi di colpa nel caso della depressione, oppure attacchi di panico molto più intensi del disturbo iniziale, che però, nel giro di qualche settimana, scompaiono.
In una percentuale di casi, infine, questo stato di malessere si prolunga per mesi, o addirittura anni. E in più si complica, magari con l’aggiunta di sintomi che il paziente non aveva mai sperimentato. “Non mi ero mai sentito così” è la lamentela più comune di queste persone, cui capita di girare disperate da un medico all’altro per cercare di capire che cosa sta loro succedendo.
Un male necessario
Nella comunità degli psichiatri questi dati e queste evidenze sono poco conosciute o, se lo sono, non sempre vengono accettate. Secondo una ricerca pubblicata pochi mesi fa da due ricercatori delle università di Zurigo e Salisburgo, e basata su un sondaggio svolto tra medici universitari, la dipendenza fisica dai farmaci antidepressivi non esiste, e i sintomi che si manifestano alla cessazione della terapia sono benigni e riguardano solo una minoranza di pazienti.
“Sostanzialmente l’argomento è censurato”, sostiene senza mezzi termini Fava. Per la maggioranza degli specialisti, il fenomeno non ha seria rilevanza. Si dice che i farmaci possano dare problemi se l’interruzione viene fatta in modo brusco, ma che se le medicine vengono scalate in modo graduale i problemi sono lievi e temporanei. “Tra gli psichiatri viene considerato una specie di male necessario, un evento assolutamente transitorio e reversibile. Oppure interpretato come una ricaduta. Il che comporta di ripartire da capo con la prescrizione dello stesso o di altri antidepressivi”, osserva Fiammetta Cosci, professore all’Università di Firenze dove, dal 2018 ha attivato un gruppo di studio e un servizio proprio per aiutare i pazienti a smettere di assumere gli psicofarmaci. “Vengo contattata da pazienti che non sanno più a chi rivolgersi e come gestire la problematica” aggiunge.
Negli ultimi anni l’onda è montata su Internet: i pazienti discutono, accumulano dati e si scambiano consigli di strategie su come scalare i farmaci da cui dicono di sentirsi fisicamente dipendenti.
Nonostante lo scarso interesse della medicina, però, negli ultimi anni l’onda è montata su Internet. È iniziato il tam tam dei pazienti, che su forum come Surviving antidepressants o The Withdrawal Project, discutono, accumulano dati e si scambiano consigli di strategie su come scalare i farmaci da cui dicono di sentirsi fisicamente dipendenti. Questi scambi hanno anche cominciato anche ad attirare l’attenzione dei media. Ad aprile dell’anno scorso, un articolo del New York Times dal titolo “molte persone che prendono antidepressivi scoprono di non poter smettere” scatena la reazione dell’establishment della psichiatria ufficiale.
Un editoriale di Roy Perlis uscito sull’American Journal of Psychyatry accusa l’autore di aver trasformato “una storia di successo nel campo della salute mentale in una teoria cospirativa”. E di voler favorire l’idea che depressione e disturbi mentali possano essere trattati con misure di igiene nello stile di vita, o debbano sopportate con stoicismo. E ancora: che il numero crescente di persone cui vengono prescritti antidepressivi sia in fondo solo un indice dell’efficacia delle politiche nel trattare questo disturbo.
“Il trattamento farmacologico della depressione, quando ci sono le indicazioni, ha cambiato il destino di molte persone” commenta Claudio Mencacci, ex presidente della Società italiana di psichiatria. “Dobbiamo avvicinare le persone alle cure più efficaci, che siano farmaci o psicoterapia, o una combinazione di entrambe. È da evitare qualunque tipo di allarme, ma è anche vero che in futuro avremo un sempre maggiore utilizzo di molecole, non il contrario”.
Sindrome da sospensione o da astinenza?
Vedute apparentemente inconciliabili. Per rispondere alla domanda iniziale su com’è possibile che un problema simile sia passato inosservato bisogna chiarire anche un altro aspetto. Fin da quando il problema ha cominciato a emergere, all’inizio degli anni Novanta, gli opinion leader nel campo della psichiatria hanno etichettato l’insieme dei sintomi riportati dai pazienti come discontinuation syndrome, ovvero sindrome da sospensione. In quegli anni, nel dibattito rimasto tutto interno alla cerchia degli addetti ai lavori, c’era già chi spingeva per classificare la sindrome come withdrawal syndrome, ovvero sindrome da astinenza. Dietro quella che può apparire una banale questione terminologica, c’è di più. La sindrome da astinenza infatti è quella provocata dalle sostanze che causano dipendenza, fenomeno drammaticamente noto e stigmatizzato a livello sociale. La manovra era dunque di evitare qualunque assimilazione tra droghe e antidepressivi. “Il messaggio che passava era che la sindrome provocata dalla sospensione dei farmaci era benigna, transitoria e breve. È il motivo per cui ci sono voluti vent’anni per far chiamare le cose col loro nome”, dice Cosci.
Un altro problema è che la sindrome da astinenza è oggettivamente difficile da identificare nell’arco delle poche settimane o mesi di durata di uno studio clinico. In quel periodo, è improbabile che si sviluppi una dipendenza significativa, o che si riesca a farla emergere con la metodologia e i criteri statistici più comunemente utilizzati. E un’altra sfaccettatura ancora della questione è data dal successo stesso di questi farmaci. In teoria dovrebbero servire per trattare forme gravi di depressione. Nella pratica, data l’apparente scarsità di effetti collaterali, sono diventati farmaci sempre più prescritti, per forme di tristezza che non hanno niente a che vedere con la depressione vera, magari in caso di lutto, o perfino per un abbandono. Il lato più problematico della questione è proprio questo. “Di sicuro non sono farmaci da prescrivere in cinque minuti. Andrebbero sempre inseriti all’interno di un progetto terapeutico, con in mente un obiettivo preciso, tenendo conto del fatto che possono peggiorare, invece che migliorare, certi quadri clinici. E che, da soli, fanno quello che possono”, dice Massimo Biondi, professore di psichiatria all’Università La Sapienza di Roma. “È ovvio che di fronte a una depressione grave l’eventuale sindrome da astinenza passa in secondo piano. Ma la prescrizione facile e inappropriata, o disattenta, è effettivamente un problema”.
Data l’apparente scarsità di effetti collaterali, i farmaci sono sempre più prescritti per forme di tristezza che non hanno niente a che vedere con la depressione vera.
Proprio perché hanno avuto finora fama di farmaci con scarsi effetti collaterali, è facile che, alla fine, i pazienti finiscano per assumere anche per periodi di tempo molto lunghi terapie concepite inizialmente come un supporto farmacologico di durata breve o media, non certo per un uso quasi cronico. Soprattutto negli Stati Uniti, questo è un fenomeno ormai molto diffuso. Secondo l’analisi dei dati svolta dal New Tork Times, almeno 15 milioni e mezzo di americani prendono antidepressivi da più di cinque anni. Un tasso quasi raddoppiato dal 2010, e più che triplicato rispetto al 2000.
Per l’Italia lo stesso dato non è disponibile. Quello che si sa è che da noi, negli ultimi anni, l’uso dei farmaci antidepressivi è rimasto più o meno costante o in lieve crescita, dopo però un decennio, all’incirca dal 2000 al 2010, in cui l’incremento è stato notevole (dal 2006 al 2016 le dosi per mille abitanti sono passate da circa 30 a circa 40). Considerando solo le prescrizioni rimborsate dal Servizio sanitario nazionale, l’utilizzo è di 40 dosi giornaliere per mille abitanti (circa 28 di queste riguardano gli SSRI. La paroxetina, la molecola che in base agli studi dà anche la “peggiore” sindrome alla sospensione, è il principio attivo con il consumo più alto, tra i primi 30 farmaci prescritti. Estrapolando i dati, significa che in un anno, circa due milioni di italiani, il 6 per cento della popolazione, ricevono una prescrizione di antidepressivi. Negli Stati Uniti, secondo gli ultimi dati del National Center for Health Statistics, li assume quasi il 13 per cento.
Allo scoperto
L’interesse verso questi argomenti si sta risvegliando oggi, con fatica. Un’altra revisione sistematica recente condotta da due psichiatri inglesi, James Davies e John Read, ha confermato che più della metà dei pazienti che smettono gli antidepressivi sperimentano sindromi che definiscono moderate o gravi, che durano diverse settimane o mesi. Gli autori chiedono infatti che le linee guida per la prescrizione di questi farmaci siano aggiornate in modo da tenerne conto, e che i pazienti siano debitamente informati. Almeno in Gran Bretagna, in questi ultimi mesi, il dibattito è partito.
Come scrive Psychiatric Times, si comincia a riconoscere che “i medici sono impreparati a questo genere di disturbi e incapaci di trattare o almeno guidare i pazienti”. E che c’è almeno bisogno di studi e dati affidabili per descrivere e misurare il fenomeno.
“Non si sa con precisione quanti pazienti soffrano di sindrome da astinenza, quali farmaci provochino i sintomi, a quali dosi, dopo quanto tempo, se ci siano persone più a rischio di subirla, o patologie più a rischio di provocarla”, afferma Biondi. “Anche se un paziente su due ha qualche forma di astinenza, non ci sono dati per definire con esattezza il fenomeno per le forme più gravi, o per capire in quanti casi i sintomi si cronicizzano” dice Fava.
“Indubbiamente ci vuole grande ‘mano’ da parte dello specialista, sia per iniziare sia per concludere bene il trattamento” commenta Mencacci. “La mia percezione è che la sindrome da astinenza persistente riguardi il 5/10 per cento della popolazione che prende antidepressivi, ma appunto si tratta solo della mia percezione. Nella prescrizione sarebbe importante scegliere le molecole che hanno dimostrato di dare meno problemi”, aggiunge Cosci. E, su questo concordano tutti, avvertire i pazienti di possibili problemi alla sospensione, valutare insieme ai diretti interessati il rapporto costi-beneficio.
È un argomento complicato e poco esplorato, in cui si aggrovigliano tanti fili della medicina contemporanea: la discrepanza tra pratica clinica e letteratura scientifica, il conflitto di interessi dei cosiddetti opinion leader e l’attendibilità degli studi clinici, il rapporto tra scienza e ideologia. E in cui dello stesso problema si costruiscono narrative diverse o addirittura opposte. Studi più approfonditi e dati più solidi aiuteranno ad orientarsi su quale delle due sia più veritiera. La sindrome da dipendenza dagli antidepressivi è il capitolo più recente di una lunga storia, per ora senza un finale.