C on i loro blog e siti complottisti, le campagne di reclutamento sui social network, le manifestazioni di piazza, le diverse forme di disobbedienza civile che mettono in atto, i movimenti antivaccinisti rischiano di ottenere esattamente il contrario di quel che chiedono: non una maggiore trasparenza, più sorveglianza e indipendenza dagli interessi delle aziende farmaceutiche, bensì una scienza sempre più arroccata sulle difensive, pronta a sacrificare la libera circolazione dei dati e delle informazioni per paura dell’uso che se ne potrebbe fare e forse, per timore di queste stesse conseguenze, disposta perfino a evitare di approfondire eventuali risultati che vadano contro le idee correnti, se queste possono allarmare il pubblico. Un effetto paradosso, sostenuto anche dai meccanismi di finanziamento della ricerca stessa, che potrebbe comprometterne la qualità, l’essenza della sua missione e alla fine persino la sicurezza dei prodotti che arrivano ai cittadini, vaccini compresi. Se poi anche la stampa cascasse nello stesso errore, autocensurandosi, si potrebbe alimentare un circolo vizioso di sospetto capace di minare ulteriormente il capitale più prezioso della convivenza sociale, di cui fa parte, anche, l’adesione ai programmi vaccinali: la fiducia.
L’allarme è stato lanciato qualche settimana fa dalle pagine del New York Times: secondo la giornalista scientifica americana Melinda Wenner Moyer, il timore di alimentare nella popolazione false credenze e paure immotivate (soprattutto se pericolose, come quella che porta a rifiutare i vaccini) potrebbe spingere i ricercatori e le riviste scientifiche a essere più prudenti nel pubblicare (e soprattutto pubblicizzare) risultati negativi, che potrebbero essere fraintesi.
Il valore di una notizia
Per chi lavora nel mondo della scienza, o ne conosce i meccanismi, un singolo studio è solo un tassello che va a comporre un mosaico più ampio. Il suo ruolo periferico o centrale, nel disegno complessivo, cambia in relazione a chi l’ha condotto, se autorevole o sconosciuto, se da un singolo gruppo o da molti diversi in varie parti del mondo, se riferito a colture cellulari, modelli animali o pazienti in carne e ossa, a quanto è ampio il campione che considera, a molti altri aspetti metodologici e statistici che sarebbe lungo spiegare qui. Quanto più le sue conclusioni vanno contro conoscenze già acquisite, tanto più richiedono conferme forti. È molto difficile che un solo lavoro basti a far cambiare idee consolidate e, tanto meno, procedure mediche già sperimentate e in uso da anni.
Per il pubblico, però, è spesso il contrario. Il dato scientifico a cui si crede di più non è quello consolidato nel tempo, ma l’ultima notizia rilanciata con clamore dai media. E i media, per loro natura, dovendo attirare l’attenzione dei loro utenti, talvolta privilegiano i risultati più recenti e più controcorrente, non quelli che confermano cose risapute. Come lettori e telespettatori, tutti noi ci aspettiamo notizie che siano novità, che ci stupiscano o, meglio ancora, che diano conferma alle nostre idee preconcette, soprattutto se servono a convincere noi stessi e gli altri che le nostre scelte non sono irrazionali, ma “basate sulla scienza”. Così, un piccolo studio mal fatto, che esce su una rivista di terz’ordine, irrilevante nel grande magma della letteratura scientifica, se è curioso o se va nella direzione che desideriamo, può avere più risalto in tv di un’importante ricerca che rassicura su qualcosa che è dato per scontato.
Meglio evitare?
Per contrastare tutto ciò, quando la posta in gioco è alta, e non si tratta solo di promettere che una porzione al giorno di mirtilli migliori la vista o che il sesso mantenga giovani, le fonti giornalistiche più serie talvolta si pongono da sole dei limiti, anche senza che intervenga una vera e propria censura esterna. Nel clima di polarizzazione che caratterizza il dibattito in Italia, poi, dove per essere accusati di antivaccinismo basta esprimere dubbi sull’opportunità di ricorrere all’obbligo, l’effetto è ancora più marcato. Testate e giornalisti schierati a “favore della scienza” ospitano malvolentieri notizie che “possano essere fraintese”, o che possano “creare confusione” nei lettori. Il mantra è: “i vaccini sono sicuri ed efficaci”. Ogni distinguo, ogni precisazione è assolutamente da evitare.
D’altra parte, non hanno tutti i torti. L’esperienza insegna che il problema esiste. La segnalazione di una reazione avversa mai vista prima, registrata dopo una singola vaccinazione, diventa facilmente, nella percezione comune, “la conferma scientifica” che le vaccinazioni in toto sono pericolose, prima ancora che si indaghi per verificare, o escludere, che il collegamento tra i due fatti non sia una semplice, per quanto sfortunata, coincidenza.
Basta ricordare quel che è successo in Italia alcuni anni fa con il caso Fluad, un vaccino antinfluenzale raccomandato agli anziani. Per capire cosa accadde, occorre sapere che il sistema di sorveglianza delle reazioni avverse ai farmaci dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), per non lasciarsi sfuggire nessun segnale, registra qualunque evento indesiderato che si verifica dopo una vaccinazione, anche se, a prima vista, si potrebbe subito ragionevolmente escludere che questa ne sia responsabile.
Pensiamo al tipico esempio del signore che, uscendo dal centro vaccinale, viene investito da un’auto. L’episodio deve essere segnalato, anche se potrebbe apparire subito ovvio che la morte non è stata causata dal vaccino, ma da una tragica fatalità. La logica della norma è di garantire la massima sicurezza: se il numero di incidenti di questo tipo eccedesse in maniera statisticamente significativa quel che accade in identiche condizioni a persone non vaccinate, per esempio, si potrebbe sospettare che nei primi minuti dopo l’inoculazione la persona può subire un calo di attenzione. Si andrebbe più a fondo per verificare questa ipotesi. Se fosse confermata, si potrebbe allungare il tempo di osservazione richiesto dopo la vaccinazione prima di uscire per strada, salvando delle vite.
L’esempio è inventato, e paradossale, sia chiaro. Ma spiega perché nell’autunno del 2014 i medici curanti segnalarono la morte di tre anziani, e poi quattro, deceduti entro 48 ore dalla vaccinazione, anche senza una chiara spiegazione di come il vaccino avrebbe potuto provocarne la morte. Per cautela, l’agenzia ritirò alcuni lotti del vaccino per sottoporli a ulteriori controlli: era suo dovere accertarsi che non contenessero contaminanti pericolosi.
Reazioni scomposte
Come normale in un sistema in cui vige la libertà di stampa, e in cui la comunicazione è trasparente, la notizia arrivò ai giornali e al grande pubblico. Meno normale, tuttavia, furono le modalità con cui venne data, e la reazione scomposta che scatenò. In breve, ogni anziano o malato che casualmente era stato vaccinato nei giorni precedenti la naturale, inevitabile, fine della sua vita andò a incrementare il bilancio delle presunte vittime, che saliva di giorno in giorno, con un quotidiano che arrivò a titolare a caratteri cubitali in prima pagina: “Iniezione letale”. Presto le analisi dimostrarono che i vaccini non erano contaminati da nessuna sostanza pericolosa, e l’Istituto superiore di sanità calcolò che gli anziani deceduti dopo la vaccinazione non erano più di quelli che ci si sarebbe aspettati indipendentemente dalla vaccinazione in relazione alla loro età e alle loro condizioni di salute. Come in maniera efficace sintetizzò allora Silvio Garattini: “I vaccini possono prevenire l’influenza, non la morte per altre cause”. Se ci fosse un sistema di segnalazione per gli anziani che muoiono nelle 48 ore successive ad aver mangiato la pastina o visto il TG1 i casi sarebbero molti di più, ma ovviamente la “strage” non si potrebbe imputare alla Barilla o ai colleghi della televisione. Eppure, nonostante smentite e rassicurazioni, molti anziani rinunciarono alla vaccinazione, forse contribuendo all’eccesso di mortalità registrato nel 2015. Il caso mediatico contribuì inoltre ad alimentare paure nei confronti dei vaccini in generale, compresi quelli dell’infanzia, che pure non avevano nulla a che fare con l’episodio in questione.
L’episodio sembrerebbe scoraggiare la politica della trasparenza, e lo stesso si potrebbe dire delle reazioni scomposte alla pubblicazione dei dati sulle reazioni avverse ai vaccini resi noti recentemente dall’AIFA: non riesce a passare l’idea che una “segnalazione”, come nel caso precedente, non implica una responsabilità del vaccino, ma solo, appunto “un segnale” da indagare, che conferma l’attenzione da parte dei medici e delle istituzioni a cercare di non farsi sfuggire nulla, per garantire la massima sicurezza.
A volte queste segnalazioni hanno invece permesso di individuare reazioni realmente legate ai vaccini. È capitato per esempio durante l’influenza pandemica A/H1N1 del 2009, quella impropriamente chiamata “suina”. In alcuni Paesi del nord Europa si notò un aumento dell’incidenza di una condizione neurologica seria, la narcolessia, in concomitanza con la somministrazione di uno dei vaccini messi a punto per l’occasione, il Pandemrix. Il prodotto per cautela venne immediatamente ritirato dal mercato, i pazienti che potevano essere stati danneggiati ricevettero un sostanzioso indennizzo, ma la cosa non finì lì. Da allora gli scienziati cercano di capire come e perché ciò sia accaduto, solo con quel particolare vaccino, e solo in determinate zone, sebbene il prodotto fosse stato distribuito a milioni di persone anche in altri Paesi. Questo non solo per curiosità scientifica su una storia ormai chiusa, ma per accertarsi che con meccanismi analoghi altri vaccini non potessero provocare conseguenze simili. Ci sono molte ipotesi, ma nessuna è stata ancora confermata. Quel che sappiamo è che, tolto il Pandemrix, non ci sono state più segnalazioni di questo tipo. Eppure nel 2015 è bastata la pubblicazione di uno di questi mille studi, che onestamente cercano di far chiarezza, per suscitare in Italia (dove il vaccino non era mai entrato nemmeno ai tempi della pandemia) un’interrogazione parlamentare sulla sicurezza delle vaccinazioni antinfluenzali in genere. E questo non al momento della pubblicazione stessa, ma proprio all’inizio della campagna autunnale da cui si sperava di rimediare ai danni fatti l’anno prima dal caso Fluad.
Notizie “scottanti” o difficili da capire?
Cosa insegnano questi episodi? Che sarebbe meglio tenere questi dati nascosti? Non credo, ma occorre fare il possibile perché il pubblico, nel momento in cui chiede trasparenza, possa capire il senso delle informazioni che riceve. Altrimenti è inevitabile che anche noi giornalisti finiamo col farci degli scrupoli, se sull’altare della completezza dell’informazione si possono sacrificare addirittura vite umane.
In sostanza, è possibile dare certe notizie a quei lettori più pigri che sembrano incapaci di andare al di là della nozione di “fa bene, fa male”, di cogliere la complessità di molti argomenti, le diverse sfaccettature di uno stesso problema? La nozione che fatica a passare è che ogni medaglia può avere il suo retro e che di solito rischi e benefici vanno soppesati tra loro. È ben difficile che i vantaggi non portino con sé nessun prezzo da pagare. Il punto è capire sempre meglio la realtà per cercare di ridurre il più possibile i rischi e amplificare i benefici.
Quando un vaccino viene approvato dalle autorità regolatorie ed è immesso sul mercato, per esempio, ha già dovuto dimostrare in studi clinici di essere sicuro e sufficientemente efficace. Ma l’effetto che avrà nell’intera popolazione, a volte, si può scoprire solo sul campo. L’introduzione del vaccino che protegge da 13 diversi sierotipi di pneumococco, per esempio, come ci si aspettava, ha inizialmente fatto calare tra i bambini l’incidenza di meningiti provocate da questo batterio in Francia. Un recente studio pubblicato su Lancet Infectious Disease ha però mostrato che questa ha poi ripreso a salire vertiginosamente, annullando in un paio di anni tutto il vantaggio guadagnato in quelli precedenti. Responsabile dell’inattesa conseguenza a lungo termine della vaccinazione sarebbe l’insorgenza di un nuovo sierotipo dello stesso batterio, che probabilmente, eliminati gli altri, ha trovato più spazio per diffondersi. Il guaio è che questo pneumococco dà infezioni molto più gravi, e molto più spesso è resistente agli antibiotici. Lo stesso si è verificato in altri Paesi e con altri germi, per esempio i meningococchi. Con un altro meccanismo, qualcuno ha ipotizzato che il vaccino acellulare attualmente in uso contro la pertosse, che ha soppiantato il precedente perché più sicuro, possa favorire la selezione di germi resistenti al vaccino stesso, esattamente come accade con gli antibiotici.
Mentre riferisco di questo studio, tremo, già immaginando come potrebbero essere lette queste righe. Significa che questi vaccini non servono? Che sono pericolosi per i bambini che li ricevono? Assolutamente no. Ma che a livello di sanità pubblica bisogna tenere presente queste eventualità, che si sono verificate anche quando il singolo vaccino è davvero “sicuro ed efficace”. Bisogna saperlo per essere pronti a riconoscere la malattia anche in un soggetto vaccinato, per esempio, o per lavorare al fine di inserire i nuovi sierotipi in un nuovo vaccino, e così via.
Lo stesso accade, in un certo senso al contrario, per i vaccini antinfluenzali, che per la loro scarsa efficacia a livello individuale conferiscono una protezione abbastanza limitata, ma che estesi ad ampie fasce di persone, nell’ambito di una strategia di popolazione, possono limitare i danni dell’epidemia stagionale. Eppure, quante volte si dice e si scrive apertamente che solo la metà delle persone vaccinate contro l’influenza (se va bene) sono effettivamente protette? Perché non si può sottolineare quello che tutti i medici sanno, cioè che proprio negli anziani, a cui questa vaccinazione è particolarmente raccomandata, questa efficacia è ancora inferiore? Parlarne potrebbe servire a investire su nuovi vaccini, a ragionare di nuove strategie di prevenzione, e intanto insistere su quelle di provata efficacia ma prese sotto gamba, come il semplice, ma frequente, lavaggio delle mani.
I vantaggi della trasparenza
Se il pubblico imparasse a interagire con la complessità di questi temi, gli sarebbe utile sapere che vengono condotte ricerche di questo genere, che non si danno per scontate efficacia e sicurezza, ma si sorvegliano le conseguenze delle vaccinazioni, come degli altri farmaci, a lungo termine, sul singolo e sulla comunità. Gli scienziati dovrebbero cercare liberamente ogni possibile punto debole dei vaccini come di ogni altro farmaco e gli editori dovrebbero essere pronti a mettere a disposizione di tutti queste informazioni. In un mondo ideale, quindi, io, come giornalista di salute, potrei proporre senza patemi un articolo critico su un vaccino al responsabile delle pagine di medicina di un quotidiano, e questi lo accetterebbe, non per dare uno scoop scandalistico, ma per fornire un’informazione utile. In un mondo ideale, (anche se, sempre in quel modo ideale, non dovrebbe essere questo lo scopo del giornalismo) la notizia dovrebbe rassicurare i lettori e far crescere la loro fiducia nei confronti della scienza e della medicina, e non il contrario, testimoniando l’attenzione che si presta a questo tema, dimostrando che si persegue sempre il meglio senza dare nulla per scontato.
In questo mondo, invece, io tanto quanto i colleghi delle redazioni siamo tentati di pensare che forse è meglio lasciare che di queste cose siano messi a conoscenza solo gli esperti. Non si fa cenno agli esiti sfavorevoli, come quelli che riguardano la sperimentazione del vaccino contro la dengue nelle Filippine. Invece di spiegare, si incrociano le dita, sperando che la gente non ne venga a sapere. Ma questa è solo una pia illusione.
Questa prudenza è inutile ai tempi di internet. La notizia non sfuggirà a qualcuno ostile per principi alle vaccinazioni, che facilmente può andare su Pubmed, scaricare gli abstract dei tanti articoli che ne hanno parlato sulla stampa scientifica e internazionale, e interpretarli come vuole sul suo blog antivax, che circolerà sui social e nei gruppi whatsapp dei genitori. In tal modo, un caso particolare, del tutto scollegato dalle altre vaccinazioni raccomandate, potrà diventare un esempio a supporto della sfiducia nei confronti di big pharma. Una volta che centinaia, migliaia di persone si saranno sentite raccontare la storia in questo modo, sarà molto più difficile far capire loro che non andava letta in quel modo. Ricordare che comunque i casi e le vittime per Dengue, grazie al vaccino, sono calate. Oppure precisare che l’eventuale leggerezza (in questo caso ancora da dimostrare) di un’azienda farmaceutica, in una specifica occasione, non significa che tutto ciò che viene da big pharma è il male.
Proprio per questo, secondo me, vale la pena di accettare la sfida della trasparenza. Se troveremo il coraggio di raccontare di tutti gli studi affidabili che riportano risultati negativi così come parliamo di quelli incoraggianti, cercando di comunicare in modo serio con il pubblico, rispettandolo, stimolandolo ad avere senso critico, uscendo dalla logica binaria del pro e contro a priori e senza sfumature, solo così, penso, si potrà riconquistare la sua fiducia. Quella stessa fiducia che riporterà i genitori a vaccinare i loro figli, sapendo che esiste sì un bilancio tra rischi e benefici, ma che se gli esperti raccomandano una procedura, lo fanno solo se, per quanto ne sappiamo, questo bilancio è nettamente, largamente, positivo.