P oche tecnologie sono riuscite a generare un dibattito pubblico aspro e duraturo negli anni come l’ingegneria genetica. Ogni cambio di paradigma in ambito biotecnologico, dalla Rivoluzione Verde del dopoguerra al Progetto Genoma Umano della fine del Ventesimo secolo, ha scatenato polemiche che hanno coinvolto l’opinione pubblica globale. L’ultima grande novità in tema di biotecnologie non fa eccezione: si chiama gene editing, cioè “modifica genetica”, e nasce dalla scoperta del sistema CRISPR-CAS9, spesso abbreviato in CRISPR. Nel 2012, le ricercatrici Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier, riprendendo alcune idee di Francis Mojica, hanno capito come utilizzare questo componente del sistema immunitario dei batteri per tagliare e correggere il Dna nel punto desiderato del genoma.
La tecnica è facile e precisa, e consente di effettuare modifiche genetiche con costi e rapidità impensabili fino a pochi anni fa. Come già successo, la possibilità di intervenire sul genoma degli esseri viventi ha aperto molte possibilità e altrettante controversie, polemiche intorno alla definizione di organismo geneticamente modificato, alla possibilità di pianificare l’estinzione di una popolazione animale e a quella di modificare geneticamente un embrione.
Cos’è un OGM?
Uno dei settori in cui CRISPR ha trovato più rapida applicazione commerciale è quello agro-alimentare. La pratica di utilizzare colture e allevamenti con proprietà genetiche particolari risale probabilmente agli albori della nostra civiltà, quando dieci-dodicimila anni fa si formavano in Medio Oriente le prime comunità umane stanziali capaci di coltivare le piante di cui si nutrivano.
L’invenzione degli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) ha però segnato un salto di qualità nell’efficienza del processo di miglioramento di piante e animali. Come molti sanno, oggi chiamiamo OGM le varietà biologiche che, grazie al trasferimento artificiale di un gene appartenente a un’altra specie, hanno acquisito nuove proprietà utili per l’uomo.
L’esempio forse più noto è quello delle varietà “Bt” di riso, mais, cotone, soia e altre colture in cui è stato inserito un gene presente nel Bacillus thuringiensis (“Bt” per l’appunto) che permette loro di produrre un pesticida naturale. Dato che un gene di una specie è stato trasferito in un’altra, tali organismi sono detti anche “transgenici”. Il timore che mescolando geni di specie diverse si potessero scatenare effetti collaterali pericolosi per la salute e l’ecosistema ha generato una grande quantità di ricerche, battaglie e normative a livello internazionale. Rischi direttamente legati alla coltivazione degli OGM o alla loro introduzione nell’alimentazione in realtà non sono mai emersi, ma il loro impatto sull’uso dei pesticidi e sulla sostenibilità sociale e ambientale della filiera agricola continua a dividere.
CRISPR produce Organismi Geneticamente Modificati o no? La risposta giusta è: “dipende”.
Le varietà OGM hanno uno status diverso dal resto della produzione agricola un po’ in tutto il mondo e sono sottoposti a controlli più severi in base al principio di precauzione. Tuttavia, il grado di diffidenza cambia parecchio da un paese all’altro. In alcuni, i prodotti OGM possono essere coltivati e prodotti liberamente, ma subiscono controlli più severi prima della commercializzazione. È il caso degli USA, in cui oltre il 90% di soia e mais coltivati sono OGM. Nemmeno l’Europa ha trovato una posizione unitaria, cosicché la normativa europea lascia autonomia ai singoli stati. In Italia, ad esempio, coltivare varietà transgeniche è semplicemente vietato, mentre paesi culturalmente vicini hanno seguito un approccio opposto: il 90% del mais OGM europeo si coltiva in Spagna.
Anche le tecniche di gene editing possono essere usate per produrre varietà commestibili e in alcuni casi i prodotti realizzati sono già arrivati sul mercato. Grazie a CRISPR sono stati creati funghi che mantengono la colorazione bianca più a lungo. Anche con le tecniche di gene editing precedenti a CRISPR sono state create nuove varietà. Proprio grazie al più vecchio metodo TALEN (sta per “transcription activator-like effector nuclease”) è stata sviluppata una varietà di soia che produce un olio più sano di quello tradizionale.
Se anche queste varietà debbano rientrare nella categoria degli OGM è un tema controverso. Le tecnologie di gene editing permettono di modificare il genoma, ma non prevedono l’inserimento di geni provenienti da altre specie, quindi transgenici. “La modifica è indistinguibile da una mutazione casuale che può avvenire in natura come ne avvengono continuamente”, sostiene sul suo blog il chimico Dario Bressanini da sempre fautore dell’uso della genetica in campo agro-alimentare. Dunque, CRISPR produce OGM o no? La risposta giusta è: “dipende”.
OGM qui, naturale lì
Dipende soprattutto dal luogo in cui ci si trova. Negli USA, per esempio, sin dal 2016 il Dipartimento dell’Agricoltura ha stabilito che le varietà realizzate attraverso il gene editing non sono da considerare alla stregua degli OGM transgenici, e dunque non devono sottostare a particolari controlli, anche se la Food and Drug Administration può richiedere ulteriori verifiche di sua iniziativa. Finora, una trentina di varietà geneticamente “editate” sono state approvate per la commercializzazione. Lo stesso parere è stato dato dalle analoghe autorità di Brasile e Argentina, due dei maggiori produttori mondiali di varietà agricole geneticamente modificate. I due paesi hanno storicamente mantenuto un atteggiamento favorevole nei confronti degli OGM e non cambiano certo posizione per il gene editing, più “digeribile” per l’opinione pubblica. L’ultimo Paese ad allinearsi è stato il Giappone, che il 19 marzo ha pubblicato un rapporto di una commissione apposita favorevole al gene editing, che dovrà essere adottato dal ministero dell’agricoltura.
Con la diffusione delle varietà ottenute con il gene editing, stabilire chiaramente cosa sia un OGM per un cittadino europeo sarà difficile.
La situazione europea, invece, è molto diversa e più complicata. A luglio 2018 la Corte Europea ha stabilito che anche gli organismi ottenuti con CRISPR (e le altre tecniche di gene editing) sono da considerarsi OGM e dunque devono sottostare a controlli ambientali e sanitari rafforzati: secondo la Corte, “la modifica diretta del materiale genetico di un organismo tramite mutagenesi consente di ottenere i medesimi effetti dell’introduzione di un gene estraneo nell’organismo (transgenesi) e in quanto tali nuove tecniche consentono di produrre varietà geneticamente modificate a un ritmo e in quantità non paragonabili a quelli risultanti dall’applicazione di metodi tradizionali di mutagenesi”.
Tuttavia, la direttiva europea sugli OGM del 2015 lasciava molto potere ai singoli stati per limitare o vietare la coltivazione degli OGM. Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania producono mais OGM; in altri (come l’Italia) la coltivazione è bandita del tutto. È probabile che l’arrivo dei nuovi cibi OGM complicherà ancora lo status giuridico, con Paesi in cui si potranno coltivare OGM di ogni tipo, altri in cui saranno permessi solo quelli ottenuti con CRISPR e TALEN, e altri stati infine in cui saranno vietati gli uni e gli altri. Con la diffusione delle varietà ottenute con il gene editing, stabilire chiaramente cosa sia un OGM per un cittadino europeo sarà difficile.
L’estinzione programmata delle zanzare
CRISPR è in grado di modificare una delle leggi naturali evolutive più solide, cioè la relazione tra mutazioni genetiche, selezione naturale ed evoluzione della specie. In natura, le mutazioni appaiono in modo sostanzialmente casuale. L’evoluzione procede selezionando le varianti genetiche che rafforzano l’individuo nei confronti dell’ambiente in cui vive e quindi aumentano la sua probabilità di riprodursi. In questo modo, una mutazione vantaggiosa si diffonde in tutta la popolazione.
Per sapere come le diverse mutazioni genetiche si trasmettano alla progenie bisogna risalire alle leggi di Mendel che si studiano a scuola. Se una mutazione appare casualmente in un cromosoma di una cellula germinale (uovo o spermatozoo), essa si trasmette in media alla metà della progenie, poiché ogni discendente eredita cromosomi che contengono una combinazione casuale dei geni provenienti dai genitori. L’interazione con l’ambiente si incarica poi di differenziare i tassi riproduttivi degli individui portatori della mutazione.
Un’applicazione di CRISPR detta gene drive permette di alterare questo meccanismo e fare in modo che in una popolazione si diffonda una mutazione genetica nonostante sia svantaggiosa. Il gene drive consiste nell’inserire nel DNA non una semplice sequenza genetica, ma un’intera “cassetta degli attrezzi”. Nel genoma di un organismo si inserisce una serie di geni che contengono il codice genetico per sintetizzare la proteina CAS9 necessaria al taglio, la sequenza genetica che deve indicare a CAS9 in quale punto del DNA tagliare e la sequenza genetica mutata da inserire nel gene. Tutta la “cassetta” viene copiata sul cromosoma, che si trasmette anche alle generazioni successive con lo stesso sistema di auto-replicazione.
Un’applicazione di CRISPR detta gene drive permette che in una popolazione si diffonda una mutazione genetica nonostante sia svantaggiosa.
Grazie a questo meccanismo, un cromosoma contenente la mutazione è in grado di copiarsi sull’altro cromosoma della coppia, aumentando la probabilità di trasmetterla alla generazione successiva ben oltre il 50% previsto dalle leggi di Mendel. La mutazione giunge fino al 90% della progenie di due individui. Il tasso di trasmissione è così alto che tutta la popolazione a un certo punto ne sarà portatrice, nonostante essa sia svantaggiosa, finché non si estingue.
Sterminare una popolazione può essere utile. Per esempio, nel caso di una specie che trasmette una malattia mortale. Una delle prime applicazioni del gene drive punterà a far estinguere la specie di zanzare che veicola la malaria, causa di mezzo milione di morti ogni anno nel mondo. Sono allo studio diversi progetti in questa direzione. Uno dei più avanzati porta anche la firma italiana del biologo Andrea Crisanti, che insegna all’Imperial College di Londra. Nel settembre del 2018, Crisanti ha dimostrato come il gene drive può sopprimere una popolazione di zanzare alterando un gene denominato “doublesex”. Questo gene, se si presenta in entrambi i cromosomi, impedisce alle zanzare femmine di riprodursi. Usando la tecnica del gene drive su una popolazione di 600 zanzare confinate in laboratorio, Crisanti ha dimostrato che nel giro di una dozzina di generazioni la popolazione di zanzare non era in grado di deporre nuove uova.
La ricerca di Crisanti è forse la più avanzata al mondo in questo settore e riceve molti investimenti da parte delle agenzie attive nella lotta alla malaria. Secondo lo stesso Imperial College, degli oltre sessanta milioni di dollari ricevuti finora, la maggior parte provengono dalla Bill & Melinda Gates Foundation e da altri imprenditori della Silicon Valley. Nel giro di qualche anno, dagli esperimenti in laboratorio si potrebbe passare a test su larga scala in Burkina Faso, secondo Crisanti.
Progetti simili sono stati avviati anche per altre specie, come le zanzare che trasmettono febbre gialla, dengue, zika e altri agenti patogeni. Oppure per fermare specie invasive, come i roditori capaci di mettere in crisi gli ecosistemi delle isole del Pacifico. Tra l’altro, l’uso di CRISPR e del gene drive è solo una delle tecnologie usate per programmare l’estinzione di una specie ritenuta dannosa. Da molto prima dell’invenzione del gene drive, le biotecnologie sono usate, ad esempio, per introdurre individui capaci di sterilizzare solo le femmine di una specie per portarla al collasso. Queste tecniche non modificano le leggi di Mendel, ma alterano le probabilità di sopravvivenza degli individui.
Usando la tecnica del gene drive su una popolazione di 600 zanzare confinate in laboratorio, nel giro di una dozzina di generazioni la popolazione di zanzare non era in grado di deporre nuove uova.
Sebbene il beneficio in termine di salute pubblica sia evidente, non tutti sono convinti che il gene drive (come tutte le altre tecniche di estinzione programmata) sia una tecnologia sicura. Eliminare una specie può alterare la sua catena alimentare in modo imprevedibile, data la complessità degli ecosistemi. Quando sparisce una specie, le sue prede possono riprodursi in modo incontrollato e prendere il sopravvento su altre, oppure i suoi predatori possono entrare in crisi per mancanza di risorse. In entrambi i casi, si possono generare nuove alterazioni a cascata difficili da prevedere e controllare anche in specie apparentemente lontane da quella soppressa. I ricercatori sostengono di aver calcolato bene il rischio. “Come abbiamo scritto su Medical and Veterinary Entomology”, ha dichiarato Crisanti a Le Scienze, “non risulta che ci siano specie animali che dipendono esclusivamente da Anopheles gambiae per la sopravvivenza”.
Inoltre, è difficile confinare la diffusione di una mutazione genetica in un singolo territorio. Soprattutto quando sono coinvolte specie ad alta mobilità geografica, diventa persino difficile immaginare sperimentazioni in campo aperto. Altri ricercatori di questo settore, come Kevin M. Esvelt del MIT di Boston, stanno lavorando a gene drive “a termine”, capaci cioè di esaurirsi prima di diffondersi indefinitamente, in modo da limitare l’estinzione a un territorio limitato. Infine, è possibile che la nicchia ecologica occupata dalla specie soppressa venga occupata da un’altra più invasiva o portatrice di un altro agente patogeno difficile da prevedere.
Per questo motivo, le autorità internazionali stanno introducendo linee-guida internazionali per regolare questi progetti di estinzione programmata. Le norme più importanti in materia sono contenute nella Convenzione sulla Diversità Biologica, uno dei trattati internazionali firmati al summit di Rio del 1992 e che riguarda l’uso sostenibile della biodiversità dell’ecosistema. Ad oggi vi aderiscono quasi duecento paesi, sostanzialmente tutti quelli che aderiscono all’Onu. Il tema del gene drive è stato uno di quelli più spinosi alla Conferenza delle Parti che si è tenuta nello scorso novembre a Sharm el Sheikh (Egitto).
Le autorità internazionali stanno introducendo linee-guida internazionali per regolare questi progetti di estinzione programmata. Le norme più importanti in materia sono contenute nella Convenzione sulla Diversità Biologica.
Alla vigilia del vertice, circa duecento associazioni di tutto il mondo avevano chiesto che nella Convenzione fosse inserita una moratoria sulle applicazioni del “gene drive” in campo agricolo. “Questa tecnologia invasiva rappresenta un tentativo esplicito di creare una nuova forma di inquinamento genetico. Il gene drive potrebbe condurre all’estinzione di alcune specie e compromettere un’agricoltura e un’alimentazione eque e sostenibile”, scrive il loro appello delle associazioni. Sull’altra sponda, un centinaio di scienziati hanno firmato una lettera aperta per impedire che si fermasse la sperimentazione. Ancora Crisanti: “mi preoccupa che a decidere il futuro di questa tecnologia sia chiamato in causa un organismo specializzato in biodiversità e agricoltura, anziché in questioni mediche”, sostiene, “questa zanzara comunque dovrebbe essere considerata come un agente patogeno, non vorrei che si sottovalutasse la posta in gioco”.
Alla fine della conferenza di Sharm, non ha vinto nessuna delle due parti, o forse hanno vinto tutt’e due. Alla fine la Convenzione è stata modificata, ma in un modo così vago da non cambiare granché. Gli oppositori del gene drive hanno ottenuto che nel testo fosse inserito l’obbligo di condurre valutazioni caso per caso prima di avviare sperimentazioni e il diritto delle popolazioni locali di dare o meno il loro consenso. Gli scienziati hanno ottenuto di poter continuare le loro ricerche, in assenza di moratoria internazionale.
Le bambine geneticamente modificate
Tra tutti i dibattiti suscitati da CRISPR, quello destinato a creare maggiori divisioni riguarda le applicazioni umane della biotecnologia. Ovviamente, una tecnica che permette di modificare il Dna nel punto voluto con costi e difficoltà tecniche limitate ha subito generato grande interesse da parte del mondo medico e farmaceutico. Le applicazioni a scopo terapeutico di CRISPR si dividono in due ambiti ben diversi: la modifica genetica delle cellule adulte e quelle delle cellule germinali.
Nel primo caso, non ci sono grandi discussioni: si tratterebbe di usare la terapia genica basata su CRISPR per modificare un certo numero di cellule di un organismo adulto in modo da rimediare a una patologia congenita. Ad esempio, per fare in modo che le cellule dei muscoli di una persona affetta da distrofia riescano a produrre una dose minima di distrofina (la proteina mancante nei malati) recuperando almeno parzialmente l’efficienza muscolare. Proprio sulla distrofia sono state avviate le prime sperimentazioni terapeutiche della tecnologia CRISPR, che viene utilizzata indirettamente anche per immunoterapie oncologiche sperimentali. Trattandosi di individui adulti e malati in modo molto grave, nessuno si oppone alla ricerca di nuove terapie geniche, ovviamente nel rispetto delle norme di sicurezza che regolano qualunque sperimentazione farmaceutica.
Molto più delicato è il tema delle modifiche genetiche sulle cellule germinali. Accoppiando la fecondazione in vitro e la tecnica CRISPR, infatti, si può intervenire sugli embrioni nei primissimi stadi di sviluppo, e modificare geneticamente l’intero organismo. In più, la mutazione acquisita può essere trasmessa alla progenie.
Tra tutti i dibattiti suscitati da CRISPR, quello destinato a creare maggiori divisioni riguarda le applicazioni umane della biotecnologia.
È evidente che la prospettiva di modifica genetica degli embrioni apre scenari molto diversi tra loro. L’editing potrebbe essere utilizzato per prevenire malattie trasmissibili per via ereditaria, oppure per prevenire l’insorgenza di malattie non ereditarie ma influenzate dal corredo genetico dell’individuo. O, ancora, per “potenziare” l’individuo con proprietà inedite, anche non strettamente necessarie per condurre una vita sana. Tuttavia, la sicurezza della tecnica CRISPR, ancor prima della sua desiderabilità, è ancora da dimostrare. La possibilità che delle modifiche indesiderate provochino malattie genetiche è uno dei temi più dibattuti dai ricercatori.
Queste decisioni spetterebbero ai genitori, che potrebbero essere influenzati dalle loro condizioni socio-economiche, se la biotecnologia avesse costi proibitivi, o dare un consenso poco informato a una terapia sperimentale. “Ad ogni cittadino dovrebbe essere possibile scegliere di migliorare la propria condizione” sostiene il bioetico Maurizio Balistreri “dove questo non fosse possibile si creerebbero situazioni di profonda ingiustizia, non soltanto relativamente alle capacità e disposizioni che poi si svilupperanno, ma anche per quanto riguarda l’accesso ad attività e posizioni nella società”.
Le regole ci sono già
Le norme bioetiche non mancano. L’idea di modificare geneticamente gli embrioni non è nuova: la possibilità almeno teorica è chiara sin dagli anni Novanta. In Italia, la legge 40 del 2004 ha posto limiti molto stretti (almeno sulla carta) a ciò che si può fare o meno con un embrione. L’articolo 13 vieta “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche”.
Tutti i paesi sviluppati hanno leggi che regolano l’applicazione delle terapie geniche sugli embrioni, e l’avvento di CRISPR non sembra invocare nuove norme. Inoltre, alla fine del 2015, un summit internazionale organizzato a Washington dalle accademie nazionali delle scienze di Stati Uniti, Regno Unito e Cina aveva stabilito una moratoria internazionale ancora più restrittiva sull’applicazione di CRISPR su cellule germinali a scopo terapeutico. Fine discussione, dunque?
Il ricercatore cinese He Jiangkui ha raccontato di aver applicato CRISPR sugli embrioni di due gemelle cinesi allo scopo di renderle immuni dal virus dell’HIV.
Mica tanto. Ciò che è successo in Cina alla fine del 2018 fa pensare che, semmai, la discussione debba ancora entrare nel vivo. Proprio mentre a Hong Kong si teneva il secondo summit internazionale per stabilire le linee guida sulle sperimentazioni umane dell’editing genetico, il ricercatore cinese He Jiangkui ha raccontato di aver applicato CRISPR sugli embrioni di due gemelle cinesi allo scopo di renderle immuni dal virus dell’HIV che avrebbero rischiato di ricevere dal padre sieropositivo – un evento ritenuto molto raro. È noto che gli individui portatori di una mutazione in un gene denominato CCR5 non possono essere contagiati dai ceppi più comuni della malattia. In realtà, cosa abbia fatto davvero He lo sa solo lui. La sua “sperimentazione” non è stata pubblicata su nessuna rivista scientifica, e quindi è sfuggita alla “peer review” (il controllo di altri colleghi esperti) che valuta la veridicità e la qualità di una ricerca. Inoltre, per stessa ammissione di He, la mutazione del gene CCR5 sembra essere espressa “a mosaico”, quindi solo in una parte delle cellule. Infine, la necessaria tutela delle bambine oggetto dell’esperimento impedisce sia alle autorità indipendenti che a giornalisti e ricercatori ulteriori approfondimenti sul loro stato di salute. In ogni caso, dopo il suo annuncio le autorità cinesi hanno sostanzialmente arrestato lo scienziato, di cui da allora si sa molto poco. Oltre alle autorità politiche, anche la comunità scientifica cinese ha preso le distanze da He.
Una tecnologia poco controllabile
La vicenda evidenzia tutte i problemi associati alla tecnica CRISPR sul piano bioetico. Innanzitutto, il caso cinese dimostra come sia difficile sorvegliare l’uso della tecnica CRISPR per far rispettare le decisioni internazionali. A differenza delle terapie geniche tradizionali, che richiedono laboratori molto specializzati e un notevole know how, l’utilizzo di CRISPR è facile ed economico, ed è alla portata di ogni laboratorio di biologia molecolare.
In questi casi, per applicare norme bioetiche serve una forte coesione della comunità scientifica, che estrometta i suoi membri responsabili di violazioni: pochi ricercatori sono disposti a mettere in gioco la propria carriera pur di ottenere un risultato scientifico vietato. Al summit del 2015 il consenso tra gli scienziati era sembrato unanime, tanto che molti osservatori lo avevano paragonato a una nuova “Asilomar”, riferendosi alla località in cui la comunità dei biologi molecolari nel 1975 si era data una regolamentazione restrittiva sulle applicazioni della tecnologia del DNA ricombinante che aveva retto per decenni. Anche se qualcuno pensa che non si tratti di un paragone lusinghiero: “fu allora che nacque quella tecnofobia”, sostiene ad esempio il bioetico Gilberto Corbellini, “per la quale per anni fu impossibile finanziare pubblicamente un certo tipo di ricerca, che oggi sappiamo aver migliorato concretamente la vita di molte persone“.
Il prudente consenso di Washington, in ogni caso, era solo di facciata. Nei mesi successivi all’annuncio è emerso che anche scienziati statunitensi di primo piano, come il premio Nobel statunitense Craig Mello (Università del Massachusetts) e i suoi colleghi Michael Deem (Rice University, Texas), Stephen Quake, William Hurlbut, Matthew Porteus (Stanford University, California) avevano avuto informazioni più o meno dettagliate sull’esperimento proibito ma non hanno fatto nulla per fermarlo. Altri, come George Church hanno minimizzato la violazione deontologica di He: “la sua colpa più grave è non aver compilato bene tutti i moduli”, ha detto Church a proposito delle autorizzazioni mancanti per l’esperimento di He. Altri ancora, come Werner Neuhasser e Alan Penzias del MIT di Boston hanno dichiarato di essere interessati a realizzare esperimenti analoghi a quelli di He, anche se rispettando le regole (cioè con il consenso della comunità scientifica).
A differenza delle terapie geniche tradizionali, l’utilizzo di CRISPR è facile ed economico, ed è alla portata di ogni laboratorio di biologia molecolare.
“Penso che manchino pochi anni”, ha dichiarato Penzias, “a Boston saremmo felici di farlo, e vorremmo farlo in modo responsabile”. La cautela non dipende dunque dai rischi sanitari, quanto dal timore che agendo fuori dalle regole si squalifichi agli occhi dell’opinione pubblica un intero settore, compromettendo anche le prospettive finanziarie delle società fondate dagli stessi scienziati e oggi quotate a Wall Street (Editas, Intellia, Crispr Therapeutics, Caribou). Dopo l’exploit di Jiangkui He, il summit si è concluso con una timida apertura. Nelle conclusioni ufficiali, che ispireranno le linee guida per la comunità scientifica, si dichiara che la modifica genetica degli embrioni potrebbe essere accettata in futuro” e che “è tempo di definire un percorso rigoroso e responsabile verso queste sperimentazioni”. Qualcosa di molto diverso da una moratoria.
I ricercatori più critici puntano l’indice sulla mancanza dei requisiti terapeutici che giustificano la modifica degli embrioni. Esistono infatti altri metodi per prevenire il contagio da HIV, senza esporre gli embrioni alle mutazioni indesiderate che possono avvenire, secondo alcuni studi, quando si usa la tecnica Crispr. Usare la terapia genica per scongiurare un rischio tutto sommato controllabile appare immotivato alla maggior parte degli scienziati occidentali. Tuttavia, questa critica non tiene conto di un fattore culturale: la Cina sta vivendo con ritardo l’emergenza AIDS che molti paesi occidentali hanno già vissuto un paio di decenni fa e che oggi sembra superata. Perciò, la valutazione dei costi e dei benefici associati a una terapia dipende in maniera sostanziale da fattori culturali. Ciò che qui noi consideriamo un evitabile “potenziamento” dell’individuo (l’immunizzazione dal contagio dell’HIV), in Cina viene percepito come un metodo di prevenzione di un’epidemia in corso, a cui sembrerebbe suicida rinunciare.
Cura o potenziamento?
Il tema non riguarda solo l’HIV. Un altro ricercatore, il russo Denis Rebrikov, vuole seguire le orme di Jiangkui He. Rebrikov aveva già manifestato l’intenzione, senza concretizzarla, di intervenire sul gene CCR5 che combatte il contagio dell’HIV in gravidanze portate avanti da donne sieropositive, in cui il rischio è ben più alto rispetto al caso cinese. Nel mese di luglio del 2019, ha annunciato al New Scientist di voler modificare il genoma di altri embrioni, stavolta allo scopo di correggere un gene responsabile di una delle forme più diffuse di sordità congenita. Il caso della sordità non ha nessuna alternativa terapeutica, ma questo non semplifica il problema.
Per quanto sembri un criterio ragionevole, la distinzione tra terapia (o prevenzione) e potenziamento è mobile e sfumata.
In tutte le normative, gli interventi sugli embrioni sono ammessi in via eccezionale solo in casi giustificati da necessità terapeutiche, per evitare che le biotecnologie vengano usate per ragioni futili. Conferire a un nascituro altrimenti sano caratteristiche estetiche o fisiologiche potenziate, come il colore degli occhi o una maggiore prestanza fisica, è ovunque ritenuto sbagliato perché ricorda i progetti eugenetici attuati durante il nazismo.
Ma per quanto sembri un criterio ragionevole, la distinzione tra terapia (o prevenzione) e potenziamento è mobile e sfumata. Non c’è bisogno di arrivare in Cina per rendersene conto: in ogni società, il confine tra salute e malattia non è oggettivo ed è influenzato da fattori culturali, che a loro volta determinano la percezione dell’appropriatezza di un trattamento terapeutico. Ad esempio, sebbene la disabilità di una persona non udente sembri incontestabile, molte comunità non udenti lottano per “preservare la loro cultura”. “Le prime sperimentazioni umane dovrebbero iniziare su embrioni che non hanno nulla da perdere”, ha detto sempre al New Scientist il bioeticista Julian Savulescu dell’università di Oxford, “non con embrioni destinati a vivere una vita piuttosto normale”.
Giudicare la liceità dell’uso di CRISPR sugli embrioni sulla base dell’effettiva necessità terapeutica, dunque, non basterà a chiudere la discussione. Prima di arrivare a una regolamentazione chiara e sostenibile dell’uso della tecnica CRISPR sugli embrioni occorre mettere d’accordo sia la comunità scientifica che la cittadinanza su temi non facili, come lo statuto dell’embrione, il concetto di normalità e patologia o il livello di rischio sostenibile. Eppure, un dibattito pubblico su questo tema che coinvolga anche i non-esperti deve ancora iniziare.