Q uando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: “Vieni”. Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra (Apocalisse 6, 7-8).
La nostra specie ha avuto una qualche coscienza dei meccanismi di origine e trasmissione delle malattie ben prima della metà dell’Ottocento – l’epoca delle scoperte di Pasteur e dei suoi contemporanei. È vero: solo con la microbiologia moderna siamo venuti a conoscenza dell’esistenza dei microrganismi che ci “usano” per riprodursi e come veicolo per “saltare” su un altro individuo, proliferando il più possibile. Ma già prima di queste scoperte scientifiche, e fin da tempi antichissimi, esisteva quantomeno l’intuizione per cui nelle epidemie capivamo che qualcosa di malevolo passava da un individuo all’altro. Secondo gli studiosi, questo tipo di conoscenza “procedurale” – utile cioè a sapere cosa fare – è profondamente radicata nell’essere umano, e si compone di elementi appresi attraverso l’esperienza, acquisiti e trasmessi per via culturale, oltre che di tratti emersi con la selezione naturale. Qualcuno suggerisce che superstizioni e credenze nelle forze soprannaturali, come il diavolo e la stregoneria, sarebbero stati proprio uno strumento cognitivo che ci ha permesso di scoprire il contagio e prevenirlo.
Tutto parte dal cosiddetto “sistema immunitario comportamentale”. Nel 2006 Mark Schaller inizia a usare (e ne chiarisce il ruolo in alcuni articoli scientifici) questa etichetta per indicare una sorta di sistema immunitario “ausiliario”, specializzato soprattutto nella prevenzione. “Il sistema immunitario comportamentale è un insieme di processi cognitivi, emozioni e comportamenti che contribuiscono ad abbassare il rischio di ammalarci, aumentando allo stesso tempo le nostre probabilità di guarigione”, spiega Corey Fincher al Tascabile. Fincher è uno psicologo evoluzionista co-ideatore insieme a Randy Thornhill, biologo evoluzionista dell’Università del New Mexico, della Pathogen-stress theory of sociality, una teoria che mette in relazione il comportamento sociale e l’incidenza degli episodi di contagio nella società di appartenenza.
Superstizioni e credenze nelle forze soprannaturali, come la stregoneria, potrebbero essere stati uno strumento cognitivo che ci ha permesso di scoprire il contagio e prevenirlo.
“Uno dei comportamenti più noti di questo sistema è il sickness behaviour, legato all’infezione o infiammazione periferica, che negli animali consiste nell’autosegregazione, il cosiddetto social withdrawal”. Lo spiega Matteo Guerrini, immunologo e ricercatore dell’Istituto Riken di Tokyo. Guerrini è fra gli autori di un lavoro del 2017 pubblicato su Nature Immunology che dimostra come le alterazioni immunitarie a livello metabolico possono modificare anche il comportamento e lo stato emotivo.
Proprio a conferma del sickness behaviour, i topi nello studio Guerrini, con il sistema immunitario depresso, erano più ansiosi e mostravano comportamenti di esplorazione fortemente attenuati, restando a lungo fermi nello stesso posto. La tendenza a non spostarsi in caso di malessere ha molteplici funzioni: permette per esempio di risparmiare risorse energetiche per riprendersi e nel caso di malattie infettive, di evitare di portare in giro i germi infettando altri. Molto vicino è anche un altro “comportamento immunitario”, ovvero l’evitamento “degli altri”, specie gli sconosciuti. La scienza moderna ha osservato che il nostro sistema immunitario è massimamente adattato ai patogeni che “conosce bene” ovvero quelli presenti nel luogo, o meglio nelle persone, che frequentiamo, mentre risulta indifeso nei confronti di nuovi agenti infettivi, come per esempio il nuovo coronavirus, nuovo per tutti e per questo particolarmente pericoloso.
Ben prima di avere conoscenze scientifiche su germi e sistema immunitario, questo comportamento difensivo è stato in qualche modo incorporato nelle nostre abitudini. “Nelle zone tropicali dove l’incidenza delle malattie è più alta, gli individui tendono a focalizzarsi sul proprio gruppo e ad essere maggiormente conservatori, più xenofobi”, spiega Fincher. “Man mano che ci allontaniamo dai tropici e le malattie diminuiscono, le persone sono più aperte e traggono vantaggio dagli scambi con gli altri”. In questa spiegazione troviamo il nocciolo della pathogen-stress theory.
Ben prima di avere conoscenze scientifiche su germi e sistema immunitario, comportamenti difensivi per proteggersi dal contagio sono stati in qualche modo incorporati nelle nostre abitudini.
Molti dei comportamenti immunitari che condizionano i nostri rapporti sociali hanno origine e modalità di trasmissione culturale. Esiste però un “nocciolo duro” del sistema che sta all’origine di tutto quanto ed è profondamente radicato in noi (con basi genetiche), ovvero il disgusto. “Il disgusto è un’emozione importante per evitare le malattie infettive, aiuta a dirigere il comportamento di evitamento”, spiega Fincher. “La letteratura scientifica dimostra che deve essere emerso principalmente per evitare il cibo infetto e successivamente è diventato associato agli aspetti morali. Si parla proprio di disgusto morale e disgusto sessuale”.
E il diavolo? Credenze e superstizioni vitalistiche (diavolo, stregoneria, malocchio, spiriti maligni, ecc.), chiamate nel complesso “vitalismo morale”, sarebbero secondo Bastian Brock, professore di Psicologia dell’Università di Melbourne, una “teoria ingenua” delle malattie infettive. In psicologia una teoria ingenua è quella che usiamo per spiegare i fatti della vita quotidiana, quando anziché applicare il metodo scientifico ci basiamo sull’esperienza personale. Lo psicologo Jean Piaget osservò che un bambino, prima di una certa età, giudica il volume di un liquido sulla sola misura dell’altezza del recipiente: più alto il vaso, più acqua ci sarà; ma il vaso può essere più o meno largo, più o meno profondo… Ecco, spiega Piaget, in questo caso il bambino formula una teoria ingenua per fare assunzioni sul mondo, su cui basare poi le proprie scelte. Spesso le teorie ingenue sono anche delle “euristiche”, ovvero ragionamenti rapidi ma non precisi o esaustivi che nella maggior parte dei casi portano a risultati sufficientemente efficaci. Credere agli spiriti maligni, seppur sia un ragionamento fallace, porta a tenersi lontano dalle fonti di contagio: dà quindi risultati concreti in termini di riduzione dell’infezione e viene rinforzato, selezionato e trasmesso alla collettività.
“Le persone hanno sempre avuto bisogno di spiegare gli effetti devastanti delle malattie, delle condizioni che hanno portato alla morte o allo star male delle persone intorno a loro, ma ovviamente non avevano a disposizione una teoria sui germi”, spiega a al Tascabile Brock. “Gli esseri umani hanno elaborato queste teorie, ovvero il ‘vitalismo morale’, in tempi antichi proprio al posto delle teorie scientifiche sul contagio, basandosi sull’idea che esistano forze del bene e del male che hanno un’influenza sulle persone, che possono alterare gli eventi e che possono entrare nelle persone, rendendole possedute”.
Credenze e superstizioni vitalistiche (diavolo, stregoneria, malocchio, spiriti maligni), chiamate nel complesso “vitalismo morale”, sarebbero una “teoria ingenua” delle malattie infettive.
In un lavoro pubblicato sui Proceedings B della Royal Society, Brock e colleghi hanno illustrato i risultati di ben tre studi diversi. L’ipotesi da cui gli autori sono partiti è che se il “vitalismo morale” è una chiave di lettura delle malattie allora dovrà essere maggiormente presente in quelle aree geografiche che storicamente hanno patito più epidemie di altre.
La seconda ipotesi che hanno formulato è che il “vitalismo morale” sia una chiave di lettura dei fatti del mondo che produce comportamenti adattivi nei confronti delle malattie infettive, efficace cioè a ridurne l’incidenza. Nei primi due studi i ricercatori sono andati a spulciare in due grandi database etnografici già esistenti: lo standard cross-cultural sample (SCCS) e il World Values Survey (WVS). Il primo studio si è focalizzato sulla credenza nel malocchio e nella stregoneria “che fa ammalare le persone”, il secondo sull’esistenza del diavolo. In entrambi i casi è stata trovata una correlazione significativa con l’incidenza storica locale delle epidemie. Nel terzo studio gli autori hanno somministrato un questionario con domande dirette sulle credenze in forze soprannaturali benigne e maligne a 3202 partecipanti di 28 paesi diversi. Anche in questo caso il credere a forze vitalistiche correlava con l’incidenza locale delle malattie nel passato.
“Naturalmente questo non basta”, spiega Brock. “Se crediamo che il ‘vitalismo morale’ non sia solo ‘una’ teoria che spiega il contagio, ma soprattutto una ‘buona’ teoria, che offre cioè risultati concreti in termini di sopravvivenza, dobbiamo trovare una correlazione anche fra livello di ‘vitalismo morale’ e comportamenti che sappiamo, in base alla letteratura scientifica, essere associati al sistema immunitario comportamentale”.
Come per esempio la tendenza a evitare gli sconosciuti, e la presenza di manifestazioni xenofobe ed etnocentriche nella popolazione. Esattamente quello che Brock e colleghi hanno osservato. “La credenza in forze vitalistiche nei nostri studi mediava statisticamente la relazione documentata in letteratura fra l’incidenza dei patogeni e le ideologie conservatrici, suggerendo che queste credenze rinforzino le strategie comportamentali utili per prevenire l’infezione”.
“Per questo crediamo che il ‘vitalismo morale’ funga da mediatore fra l’osservazione della malattia e il comportamento di prevenzione delle infezioni, anche a livello collettivo”. Le credenze nel malocchio e nel diavolo che ci fa ammalare dunque sarebbero una teoria, che diventa patrimonio di un popolazione, che funge da “medicina preventiva” per quella stessa popolazione.
Le credenze nel malocchio e nel diavolo che ci fa ammalare dunque sarebbero una teoria, che diventa patrimonio di un popolazione, che funge da “medicina preventiva” per quella stessa popolazione.
Questo tipo di credenze sono anche forme religiose molto primitive, che spesso sopravvivono o sono addirittura incorporate in forme più complesse di credo religioso (cristianesimo incluso), ma sarebbe sbagliato far coincidere completamente “vitalismo morale” e religione. Fincher e Thornhill hanno più volte affermato che la prevalenza di patogeni in una popolazione spiega anche l’emergere delle pratiche religiose. Tuttavia su questo piano i due sono stati aspramente criticati: le religioni più evolute spesso hanno pratiche e usanze che vanno nella direzione completamente opposta a quella che dovrebbe garantire una protezione dai patogeni. Per esempio molte prevedono cerimonie con un gran numero di partecipanti, che non sono esattamente eventi “asettici”. E, non a caso, in questa attuale emergenza da COVID-19 sono state prontamente vietate messe, battesimi, matrimoni, funerali.
Sempre parlando di cristianesimo, il proselitismo ne è una componente importante: la chiesa manda missionari in tutto il mondo a convertire genti di ogni genere e complice l’ecumenismo, si vede di buon occhio la vicinanza di tutte queste popolazioni più disparate. Tutto il contrario della paura dell’estraneo che ci terrebbe lontano dai patogeni sconosciuti. Insomma il riduzionismo di Fincher e Thornhill è un po’ troppo spinto per essere digerito nella sua completezza. Tuttavia, forse qualcosa c’è: le componenti più primitive della religione – ovvero, appunto, il “vitalismo morale” di Brock – potrebbero davvero essere l’arma che l’uomo ha messo a punto contro le epidemie.
“Bisogna capire che i meccanismi che vengono introdotti dal ‘vitalismo morale’, almeno a un livello superficiale e accessibile a chiunque, offrono previsioni su quello che accadrà durante l’epidemia funzionalmente molto simili a quelle che offre la teoria scientifica sui germi”, spiega ancora Brock. “Come per esempio il fatto che se si sta vicino a una persona ammalata si tende a diventare ammalati, come se ci fosse un ‘travaso’ della malattia da una persona a un’altra”.
“Fintanto che non c’erano i mezzi tecnici e sufficiente conoscenza, i comportamenti derivati dal ‘vitalismo morale’ aumentavano le chances di sopravvivenza e dunque sono sopravvissuti alla prova del tempo”, conclude lo scienziato australiano, “al punto che ancor oggi c’è chi si rivolge a santoni e guaritori che sostengono di incanalare le forze del bene e del male”.
I meccanismi che vengono introdotti dal ‘vitalismo morale’, almeno a un livello superficiale e accessibile a chiunque, offrono previsioni su quello che accadrà durante l’epidemia funzionalmente molto simili a quelle della teoria scientifica.
Spiega infine Fincher: “La nostra teoria dice che certe reazioni xenofobe e persino razziste potrebbero avere una spiegazione evolutiva. Ma anche se questo fosse vero non vuol dire che si debbano sdoganare questi comportamenti. Non stiamo incoraggiando il razzismo”, precisa ancora. “Il razzismo potrà pure essere il riflesso di un comportamento naturale, ma ha comunque costi altissimi… Inoltre, rimanendo anche solo nell’ambito delle epidemie, potrebbe addirittura avere o avere avuto l’effetto opposto della prevenzione, cioè quello di spingere le persone a non chiedere aiuto, non fidarsi, rendendo alcune epidemie ancora peggiori”. In altre parole: osservare che questi fatti sono reali, ovvero che storicamente la superstizione o persino la xenofobia possano aver avuto una qualche funzione protettiva nei confronti delle infezioni, non significa approvare o giustificare questi comportamenti, specialmente non oggi, nella nostra società.