D al 1990 al 2010 la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) è calata, in Italia, di circa 2.200.000 ettari. Ciò significa che due milioni e duecentomila ettari di terra non sono più occupati da pascoli, orti, frutteti, prati permanenti, boschi destinati alla silvicoltura. Negli anni successivi, l’andamento non si è invertito né ha rallentato: dal 2010 al 2016 il calo registrato è di 726.000 ettari. Questi numeri, forniti dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria, peggiorano se si fa riferimento al sito del Governo, secondo cui il calo di due milioni di ettari rispetto al 1990 era già stato raggiunto nel 2005.
Cosa c’è ora su quelle terre? Non si può sapere con esattezza. Con ogni probabilità si tratta di lotti sui quali sono stati costruiti nuclei abitativi: case, palazzi, quartieri; ma anche edifici industriali o di commercio: capannoni, supermercati, centri commerciali. È ragionevole aspettarsi che la crescita della popolazione urbana – che potrebbe arrivare entro il 2050 al 75% della popolazione globale, a fronte di un solo 2% di territorio urbano a livello globale – porti con sé anche l’espansione dei territori corrispondenti.
Dal 1990 al 2010 la Superficie Agricola Utilizzata (SAU) è calata, in Italia, di circa 2.200.000 ettari. Cosa c’è ora su quelle terre?
Sembra ovvio che questo sia il rischio più alto: veder sparire interi paesaggi in pochi mesi, rimpiazzati da muri di cemento, nuovi edifici, parcheggi. Le cose però stanno così solo in parte. Stanno così principalmente per i territori pianeggianti, cioè quelli dove l’edificazione e la produzione trovano meno ostacoli naturali. Tuttavia in Italia solo il 23,2% del territorio nazionale è, dal punto di vista orografico, considerato pianeggiante, mentre il restante 76,8% è montagnoso o collinare. Nei territori non pianeggianti “la maggiore concorrenza agli usi agricoli non viene dagli usi edificatori, ma è ancora quella dell’abbandono e dell’inselvatichimento”, scrive Mauro Varotto in Montagne di mezzo. Così, anche se può sembrare controintuitivo, negli ultimi vent’anni il processo geografico-territoriale più esteso non è stato l’edificazione – le cui ripercussioni ambientali sono fuori di dubbio e che continua la sua indefinita crescita e saturazione, con tutti gli enormi problemi che comporta – ma quello dell’abbandono, etimologicamente del ritorno della terra “al bando”.
L’abbandono di superfici sempre maggiori di territorio in aree non pianeggianti, o comunque marginali rispetto ai centri di produzione di ricchezza e beni, rappresenta un cambiamento qualitativo del rapporto tra terreno e abitanti. L’addomesticamento di questi territori ha sempre permesso a chi li abita di avere risorse sufficienti per il proprio sostentamento, o per i commerci di prossimità. Ma storicamente è avvenuto attraverso pratiche che, comparate a quelle in uso sui territori pianeggianti, sono del tutto insufficienti a soddisfare le richieste di un mercato alimentare che rimane omologato a poche varietà vegetali e animali.
Potremmo dire che questa ridotta varietà di domanda è la causa del processo di abbandono che stiamo raccontando. Se nelle aree pianeggianti infatti risultano più agevoli le coltivazioni monovarietali e intensive, nelle aree marginali lo sviluppo vegetale e animale si è progressivamente differenziato, producendo varietà autoctone spesso particolarmente resistenti ma meno competitive quantitativamente (ed economicamente, dovendo sostenere costi più alti). In più la grande distribuzione, attraverso cui passano la stragrande maggioranza dei beni alimentari, essendo vincolata ad acquisti centralizzati fatica a supportare lo sviluppo e la produzione locali.
Lo spazio che non può essere abitato economicamente finisce per essere abbandonato del tutto. Quello che è successo in questi anni, in cui gli effetti della crisi climatica non erano ancora così devastanti e la crisi economica non era un fattore preponderante, è il primo caso di una diminuzione della SAU durante una fase florida, scrive Varotto: “per la prima volta nella storia la crescita di spazi incolti non è dovuta a una fase economica recessiva, né a fattori climatici avversi o a momenti di particolare disordine sociale, bensì a un periodo di grande prosperità e accelerato sviluppo economico”.
Come si capisce immediatamente, parlare solamente in termini di risvolti “positivi” o “negativi” significa disegnare un perimetro troppo stretto per comprendere il fenomeno. L’abbandono del territorio in aree non pianeggianti porta di sicuro un effetto negativo sulla produzione di biodiversità agricola, perché la domesticazione di aree di terreno difficile implica molto spesso l’uso di varietà autoctone, più adatte ad essere coltivate dove suolo e condizioni climatiche sono particolarmente ostici. Oltre a questa perdita, l’abbandono delle coltivazioni diffuse che si praticano nei territori più impervi dal punto di vista orografico significa anche l’abbandono di coltivazioni meno legate a forme di produzione puramente tecnica (anche solo per il fatto che molte macchine funzionano solo su territori pianeggianti) e con metodi di lavoro mediamente più sostenibili. Tra gli effetti positivi c’è invece ovviamente il ritorno di ampi spazi agricoli a uno stato che potremmo definire, se non naturale, almeno intermedio tra il ciclo autonomo della natura primaria e quello indotto o comunque pilotato della coltivazione umana.
L’abbandono del territorio in aree non pianeggianti porta un effetto negativo sulla produzione di biodiversità agricola, perché la domesticazione di aree di terreno difficile implica molto spesso l’uso di varietà autoctone.
Tutti questi processi sono attivi da tempo, almeno dai primi momenti di forte crescita economica legata all’industrializzazione, ma hanno assunto una portata sempre più rilevante dal secondo dopoguerra. L’espansione economica della seconda metà del secolo scorso, sostiene Varotto citando il Rapporto Montagne Italia del 2016, corrisponde alla fase storica “di più intenso abbandono. In particolare Piemonte e Lombardia ancora a fine millennio detenevano il duplice primato di superfici industrializzate e di aree selvagge”. Insomma, l’industrializzazione crescente del nord non solo ha portato allo spopolamento del sud Italia, ma, simultaneamente, all’abbandono dei piccoli terreni agricoli dello stesso nord. Industrializzazione, accentramento e abbandono sono, in fin dei conti, processi più intimamente connessi di quanto si pensi comunemente.
La montagna (in Italia le Alpi, le Dolomiti e l’Appennino) è lo spazio in cui è più evidente il processo di abbandono. Lo spostamento delle attività commerciali e, di conseguenza, delle persone verso i territori pianeggianti a valle ha lasciato interi paesi senza abitanti, e intere terre all’inselvatichimento. Si tratta di appezzamenti difficili in cui si sono sempre praticate agricoltura e viticoltura eroiche, caratterizzate cioè da pendenze superiori al 30%, da altitudini maggiori dei 500 metri s.l.m. e da sistemi di coltivazione attivi su terrazzamenti o gradoni o in territori insulari di piccola dimensione. Queste caratteristiche sono state stilate dal CERVIM, un istituto nato in Valle d’Aosta nel 2004 sulla scorta dell’Office International de la Vigne et du Vin, attivo in Francia dal 1987, per tutelare le produzioni (in particolare quelle vitivinicole) su territori impervi, con norme e definizioni ad hoc. Sono necessarie specifiche tutele proprio perché i prodotti che provengono da simili condizioni ambientali non possono evidentemente reggere il confronto quantitativo con l’agricoltura delle pianure.
Alcune delle conseguenze di questo contesto geo-territoriale sono già chiare. Parliamo di un abbandono crescente di aree perlopiù non pianeggianti che fino alla seconda metà del secolo scorso erano dedicate a varie forme di sostentamento umano, specialmente agricolo. A questo punto, dopo aver esplorato il contesto, è utile raccontare brevemente alcuni esempi concreti di reazione rispetto a questo processo, per provare a rispondere alla domanda: cosa succede oggi in quegli spazi? Quale tipo di opportunità offrono queste “terre al bando”?
Prima di procedere però, occorre fare due premesse. La prima è che si parlerà di fenomeni assolutamente minoritari, anche laddove in crescita. I primi dati provenienti dal Settimo Censimento Agricoltura ISTAT ci dicono che la narrazione che parla di un deciso ritorno all’agricoltura, di montagna e non, sono sovrastimati. Si tratta di fenomeni reali, esistenti, ma statisticamente incomparabili ad altri processi contrari, come la chiusura delle imprese agricole con superficie inferiore ad un ettaro o anche solo la semplice diminuzione del numero di aziende. Dal punto di vista “qualitativo” possiamo però comunque dire che ci sono uomini e donne che scelgono le vaste aree abbandonate delle Alpi e degli Appennini per costruire imprese agricole attraverso l’acquisto o, in alcuni casi, il comodato d’uso dei terreni, con l’intento di promuovere e valorizzare la specificità locale come unico antidoto allo svantaggio che questi luoghi hanno nei confronti dei territori più agibili.
C’è un abbandono crescente di aree perlopiù non pianeggianti che fino alla seconda metà del secolo scorso erano dedicate a varie forme di sostentamento umano, specialmente agricolo.
Si ripete ancora oggi un paradigma che da sempre coinvolge i territori impervi, e che il geografo Franco Farinelli, nel suo Geografia, descrive così: “In tutta la storia dell’umanità la montagna ha funzionato molto spesso da rifugio per le culture minoritarie, per i popoli respinti all’esterno dell’organizzazione insediati dominante, che ha sempre interessato la pianura. […] Per gli antichi greci un’unica parola, oros, significava sia montagna che limite.”
La seconda è che si tratta di esperienze perlopiù agricole, e questo per una serie di motivi. Per prima cosa questi luoghi offrono un patrimonio di prodotti agricoli tradizionali quasi scomparsi, che possono essere recuperati per sé e il proprio mercato. In più negli spazi impervi, marginali e spesso lontani dai centri economici, produrre alimenti è il modo più semplice per avviare un’economia, di prossimità e non, perché non richiede la costruzione di grosse infrastrutture e l’investimento di grosse somme di capitale. È senz’altro auspicabile – anzi, con il COVID in molti hanno già preso questa strada – che anche chi non lavora con la terra, ma magari con pochi strumenti tecnologici, possa stabilirsi in queste zone contrastando l’abbandono.
Il Piemonte è una regione tanto ricca di aree montane quanto storicamente votata all’industria. Per questo motivo nel secondo Novecento lo spopolamento delle Alpi cuneesi e torinesi è stato brutale. Intere borgate sono sparite e intere valli scivolano verso il totale spopolamento. Negli ultimi vent’anni tuttavia è cambiato qualcosa. Non possiamo dire che il segno si sia invertito, ma se non altro accanto allo spopolamento è nata anche un’altra direttrice, cioè il ripopolamento attraverso il recupero di aree e infrastrutture abbandonate.
In Valle Varaita, a Melle (CN), negli ultimi anni c’è stato un grosso incremento non solo di abitanti, per lo più giovani, ma anche di attività culturale e agricola. “Dieci persone che si trasferiscono in pochi anni a vivere in un paese di duecento anime è un incremento epocale”, dicono i due amici che, dopo essersi formati presso birrifici italiani e internazionali, sono ritornati in questo paese di mezza valle, distante sia dai flussi turistici invernali dell’alta valle che da quelli economici della piana, per produrre birra. Dieci anni dopo il loro progetto comprende un bar, un pub, un birrificio, una gelateria e ha contribuito alla nascita di una serie di attività, da produttori di cereali e formaggio a una rete di agricoltori che ha recuperato terreni abbandonati per creare una CSA (Comunità a Supporto dell’Agricoltura). A pochi chilometri ha sede anche il ristorante Reis. Ciboliberodimontagna, in cui lo chef Yuri Chiotti ha creato il proprio locale recuperando la borgata d’origine della sua famiglia, insieme ai territori circostanti in cui produce gran parte delle proprie materie prime.
Melle sta diventando un punto di riferimento anche per coloro che lavorano nei paesi limitrofi, perché capita che alcuni, soprattutto giovani, scelgano di trasferire lì la propria abitazione in virtù dell’ambiente stimolante e proattivo. È il caso di uno dei fondatori di un’altra realtà agricola nata di recente: Braccia rese. Si tratta di un’azienda agricola nata a Busca (circa 20 km da Melle, all’inizio della montagna) grazie a tre ragazzi che hanno scelto di produrre vino partendo da appezzamenti per la maggior parte abbandonati o non messi a frutto, che loro hanno ripreso puntando molto su antiche varietà come la neretta cuneese e il quagliano, un’uva di cui ad oggi si producono in totale 25.000 bottiglie dal solo territorio saluzzese. Così facendo restituiscono ai bevitori lo spaccato di un territorio che se storicamente ha sempre avuto quella vocazione, negli ultimi anni ha lasciato il posto ad attività commerciali differenti insediate a valle. Seduti nell’aia dell’azienda si può guardare in basso l’intera pianura e tutto questo salta all’occhio: la piana è puntellata di capannoni, paesi, piccole città, e di sterminate distese di alberi da frutto; mentre alle proprie spalle la montagna è una distesa di boschi quasi ininterrotta, da cui spuntano ruderi e qualche campo coltivato.
Un esempio simile è Granja Farm, un’azienda nata da cinque attivisti NO-TAV che, camminando in Val Susa, hanno notato molti meleti, pereti e vigne del tutto abbandonati. Si descrivono così: “Un gruppo di giovani che, grazie al movimento NO-TAV si sono ritrovati a Chiomonte e hanno deciso di vivere nei territori minacciati dalla devastazione, di coltivarli e di lottare partendo proprio dalla terra, dalla cura della montagna e delle sue tradizioni”. Si trattava di proprietà familiari, difficili da coltivare perché impervie e quindi lasciate all’inselvatichimento da chi, per necessità o per età, non poteva più permettersi di frequentarle con la dovuta attenzione. I ragazzi di Granja lavorano oggi, del tutto a mano, una trentina di appezzamenti tutti in comodato d’uso, sui quali crescono piante di più di ottant’anni che rappresentano un patrimonio di biodiversità raro. Anche in questo caso i loro prodotti fotografano con precisione e intensità un territorio. Le uve, come le mele e le pere, provengono per la maggior parte da piante di varietà autoctone occitane mischiate tra loro, perché un tempo per evitare che in caso di malattia tutto il raccolto andasse perso era raro il ricorso a piantagioni monovarietali.
Negli ultimi vent’anni accanto allo spopolamento è nata anche un’altra direttrice, cioè il ripopolamento delle terre attraverso il recupero di aree e infrastrutture abbandonate.
Questi tre esempi non sono esaustivi, né per il territorio italiano, né per quello piemontese. Ci sono un’infinità di esperienze simili e per scovarle ci vogliono impegno, passione e di voglia di viaggiare. Nel nostro caso il punto è semplicemente mostrare come la rimessa al bando del territorio possa rappresentare anche un’occasione proficua.
Ma in cosa si differenziano le nuove e le vecchie esperienze di produzione agricola che sorgono sugli stessi territori? Per rispondere a questa domanda ho coinvolto Luca Martinelli, giornalista e scrittore che da anni segue da vicino numerose realtà di recupero e valorizzazione territoriale, in particolare attraverso l’alimentazione. “Credo che la differenza principale non stia nelle colture, che spesso sono le stesse”, mi spiega Martinelli, “quanto nell’idea di riuscire a costruire una relazione diretta tra produttore e consumatore, in grado di garantire un maggiore valore aggiunto a chi si dedica a produzioni di qualità, ambientale e sociale. Se 35 anni fa, quando ero piccolo, il mio vicino di casa faceva il giro per raccogliere il latte nelle stalle della collina, adesso quei pochi che ancora allevano vendono il formaggio, perché il latte non paga più. Queste aziende, come quelle di una volta, rimangono multifunzionali. Ad essere cambiato è il rapporto col mercato”. Si può parlare di una nuova consapevolezza della propria posizione all’interno della filiera, che indirizza le scelte aziendali verso nuove forme di sostenibilità, fondate tuttavia sulle medesime colture e, spesso, su processi produttivi simili.
Les Neo-paysan è il titolo di un pamphlet francese che riporta alcune esperienze simili a quelle che abbiamo elencato. Il punto di partenza del libro è il seguente: “i vecchi paesani lo erano per nascita, i nuovi lo sono per scelta”. Questo significa che molto spesso chi torna su terre abbandonate e territori dimenticati ha un background tutt’altro che limitato a quelle aree. Si tratta di persone che hanno girato il mondo o che, per lo meno, sono nate e cresciute consapevoli di far parte di un mondo globalizzato. Dietro pratiche apparentemente simili a quelle antiche c’è una nuova consapevolezza del processo, dei suoi risvolti economici e della sua valenza politica. Oggi siamo consapevoli dell’importanza della biodiversità nei territori, incominciamo a comprendere l’importanza dell’interconnessione tra gli elementi di ogni ecosistema, anche se l’uomo fatica a trovare il proprio posto all’interno, e non all’esterno, di questo equilibrio. È questo il punto di svolta rispetto alle slavate retoriche del biologico. L’aspetto più innovativo – e insieme tradizionale – che si ritrova in gran parte delle esperienze simili a quelle che abbiamo elencato è che non puntano tanto sul marketing del bio, del green, del buon selvaggio, ma piuttosto su un’etica complessa che comprende consapevolezza alimentare, valorizzazione politica dei territori e presa di posizione politico-filosofica sul sistema produttivo ed economico.
Un libro che anni fa fece molto scalpore in questo senso (ma se ne trovano molti) è Non è il vino dell’enologo, di Corrado Dottori, che ha il merito di condividere con il lettore le tappe del percorso insieme agricolo e filosofico compiuto dall’autore. Per molte delle nuove esperienze di riuso e valorizzazione di territori abbandonati non è una questione di identità insomma, di etichette, ma di relazioni concrete.
Per molte delle nuove esperienze di riuso e valorizzazione di territori abbandonati non è una questione di identità insomma, di etichette, ma di relazioni concrete, umane e non umane.
È legittimo chiedersi come possano sopravvivere queste realtà nello stesso sistema economico e nelle stesse condizioni che hanno portato al fallimento di chi li ha preceduti. Qui, di nuovo, bisogna far riferimento alla sensibilità complessa che dai produttori si sta espandendo verso i consumatori. La nicchia di chi cerca di alimentarsi con prodotti sani e parallelamente si informa sulla filiera è in espansione.
I frutti marci di questo processo sono le risposte del mercato industriale, che in questa nuova domanda cerca solo un nuovo bacino per il proprio guadagno o, al più, per la propria autosussistenza, consapevole che le condizioni di mercato stanno mutando. Ora però non stiamo parlando dei frutti marci, ma della possibilità (e della volontà) da parte del cliente di essere qualcosa di più di consumatore, cioè di essere parte attiva nella valorizzazione, nella conservazione e nella vitalità di un territorio.
È il caso delle Comunità di Supporto Agricolo di cui abbiamo parlato riguardo alla Valle Varaita, in cui il supporto è rivolto all’intera filiera, dalla produzione, alla raccolta, a tutto il vasto insieme di attività ad esse legate. La seconda risposta a questa domanda è che nessuna di queste esperienze gioca sul terreno della quantità (o del prezzo al ribasso), dove la partita è già stata persa. Ma wualità e misura, laddove l’economia di queste aziende rimane perlopiù circoscritta alle infrastrutture e alle risorse del territorio specifico d’interesse. Infine, la comunicazione: è innegabile che le doti comunicative di molte nuove aziende (dovute spesso proprio al fatto che i loro fondatori hanno background ricchi e variegati) giochino un ruolo fondamentale nel loro successo. I social network, i siti e i magazine di settore sono il luogo in cui una nuova realtà può farsi conoscere da potenziali clienti che altrimenti non sarebbero mai arrivati a bussare alla porta. Oltre ad ampliare la clientela la funzione di questi canali è anche quella di rendere manifeste le scelte, le peculiarità e i processi che garantiscono la qualità del prodotto finale, e il suo prezzo.
Per tutti questi motivi non è necessario che il sistema economico cambi perché queste realtà possano sopravvivere. Quello che si crea è un mercato parallelo, con regole (spesso più eque), canali e limiti propri. A proposito di limiti, quello più pressante è senz’altro il cambiamento climatico. Luca Martinelli lavora anche sull’impatto che esso ha sulle piccole e medie aziende che incontra: “il cambiamento climatico impatta anche con queste realtà. Mi è capitato di girare in centro Italia e di trovare situazioni che subiscono l’impatto della siccità, del calo della portata d’acqua di sorgenti, fiumi e laghi. La situazione coglie tutti impreparati, tuttavia, anche se non ci sono dati a riguardo, credo che chi ha un’azienda più piccola abbia una maggiore capacità di adattamento”.
C’è una maggiore propensione, anche sul piano materiale, all’adattamento. Inoltre le varietà che si coltivano nei terreni più ostici sono antiche e autoctone, particolarmente adatte alle aree in cui si situano. Richiedono spesso meno risorse e sono più resistenti, cedendo sul piano della produttività. Anche il fatto che il prezzo dei prodotti sia mediamente più alto crea un margine per gli imprevisti, per non parlare della forza di una filiera costituita da individui attivi e non da semplici consumatori, dove si può contare sul mutuo appoggio. “Chi ha una relazione diretta e fiduciaria col consumatore poi può spiegargli cosa sta accadendo. Ad esempio un’azienda di Padova che produce pomodori e cereali in un parco agricolo urbano ha subito grossi danni da una grandinata avvenuta inizio luglio, che ha compromesso la produzione di pomodori. Questa produzione era già stata finanziata dai clienti, così l’azienda ha convocato un’assemblea e, insieme, si è deciso che fare. Se lavori in estensivo e non in intensivo, magari non in pianura, sei in grado di cogliere e modificare il verso aziendale strategico senza investimenti eccessivi. Grazie al fatto che spesso le aziende sono multifunzionali c’è più capacità di adattamento, rispetto a chi lavora con monocultura. Per esempio i produttori che lavorano su monocolture (principalmente i vignaioli, nella mia esperienza) sono in difficoltà: piante bruciate, uva troppo concentrata, mancanza d’acqua”.
Essere consapevoli del processo di abbandono di alcune vaste aree di terra e della conseguente disponibilità di uno spazio “libero”, può aggiungere un tassello importante alla percezione del nostro futuro.
Per inciso, quando ci si chiede se sia “giusto” il gap di prezzo che c’è tra prodotti artigianali, magari provenienti da agricoltura montana, e quelli comunemente distribuiti nei grandi centri, occorre pensare anche al radicale cambiamento nelle proporzioni dei consumi di cibo: se all’inizio del Novecento una famiglia spendeva tra il 40% e il 50% del proprio reddito nel cibo, all’inizio del nuovo millennio questa percentuale si aggirava intorno al 10-12%.
Essere consapevoli del processo di abbandono di alcune vaste aree di terra e della conseguente disponibilità di uno spazio “libero”, può aggiungere un tassello importante alla percezione del nostro futuro, a cui oggi guardiamo con scarsa speranza, non senza ragioni. Le esperienze che ho riportato sono solo una manciata, ma appena si impugna la propria “lente” e la si punta su un territorio, magari quello in cui ci troviamo, ne saltano all’occhio una gran quantità. Si tratta di piccole utopie. Utopie non nel senso ironico (e paternalista) di contromovimenti destinati a perire sotto i colpi della realtà, ma nel senso benevolo di esperienze che nascono proprio in quei non-luoghi che stanno sparendo dalle mappe della globalizzazione.