I l canto degli uccelli e il ronzio degli insetti nell’aria limpida della primavera, nelle nostre città finalmente libere dalla morsa del traffico e dello smog. Le emissioni di gas serra che subiscono l’agognata inversione di rotta: anziché aumentare, calano e, anzi, subiscono un tracollo. Sembra un sogno ecologista, invece sono le conseguenze di una pandemia che ha già fatto oltre 375 mila vittime e messo in ginocchio l’economia mondiale. Nessuno può esserne felice: per tutta la sofferenza che ha causato; perché non è merito nostro se le emissioni sono diminuite; e a maggior ragione perché, a conti fatti, l’atmosfera non se n’è quasi accorta, tanto che il 2020 rischia di passare ugualmente alla storia come uno degli anni più caldi da quando abbiamo inventato i termometri.
Eppure il crollo delle emissioni c’è stato e non ha precedenti. Nella prima settimana di aprile, a livello globale, ha toccato un 17% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Corinne Le Quéré, climatologa all’università dell’Anglia orientale, racconta che è stata l’insistenza dei giornalisti a convincerla a studiare gli effetti del lockdown sui gas serra. Con un terzo della popolazione mondiale chiusa in casa e gran parte dell’economia ferma, il riscaldamento globale ci avrebbe concesso almeno una un pausa? “Sono stata bombardata con questa domanda”, ha confessato Le Quéré. E così si è messa al lavoro per quantificare l’influenza delle misure per arginare la diffusione del SARS-CoV-2 sulle emissioni di gas serra.
I risultati sono stati pubblicati a maggio su Nature Climate Change e prendono in esame due scenari. Se gli sforzi contro la COVID-19 avranno successo e le restrizioni potranno essere rimosse ovunque entro la metà di giugno, per il 2020 si stima un calo delle emissioni globali pari al 4%, che arriverà al 7% se, al contrario, le restrizioni dovessero prolungate fino a dicembre per gestire una seconda ondata pandemica.
Si tratta dell’analisi più sofisticata condotta finora, nonché l’unica sottoposta a peer-review, ma sia Carbon Brief sia l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) si erano già cimentate nel tentativo di stimare l’effetto del lockdown sui gas serra. Nonostante i diversi approcci seguiti, le previsioni delle tre analisi convergono su un calo annuale delle emissioni compreso tra il 4% e l’8%.
L’atmosfera non si è quasi accorta del “crollo delle emissioni”: il 2020 rischia di passare ugualmente alla storia come uno degli anni più caldi.
D’accordo, questi sono i numeri; ma una diminuzione del 4-8% è tanto o è poco? Il punto è che, comunque la si guardi, si tratta di un risultato sorprendente. Da un lato, infatti, certifica che l’anno in corso sarà segnato da una riduzione senza uguali nell’ultimo secolo: 2-3 miliardi di tonnellate di gas serra in meno, molto più di quel che accadde dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 (450 milioni di tonnellate), la seconda guerra mondiale (800 milioni di tonnellate) o la crisi energetica dei primi anni Ottanta (un miliardo di tonnellate). Vista dall’altro lato, tuttavia, significa che, nonostante tutto quel che ci è capitato, nel 2020 emetteremo comunque il 92-96% dei gas serra che avremmo emesso se non ci fosse stata la pandemia. Com’è possibile?
Il fatto è che il mondo non si è affatto fermato: con gli aerei a terra e le auto nei parcheggi, oltre metà del calo dei gas serra è stato attribuito ai trasporti, che però contribuiscono appena al 15-20% delle emissioni globali. Ma quelle dovute al riscaldamento, all’agricoltura e a molte produzioni industriali non hanno conosciuto pause, mentre l’elettricità risparmiata negli uffici è stata in buona parte consumata nelle nostre case. La ruota ha rallentato un po’, ma ha continuato a girare, alimentata dai vecchi e sporchi combustibili fossili.
Del resto, sono quasi due secoli che bruciamo carbone, gas e petrolio senza curarci del domani: sarebbe ingenuo pensare che un paio di mesi in cui abbiamo prodotto un po’ meno gas serra del solito possano essere sufficienti per ripulire l’atmosfera. “Ogni anno emettiamo 40 miliardi di tonnellate di CO2. Quest’anno saranno 37-38 miliardi: non cambia molto per il clima”, ha detto Josep Canadell, direttore del Global Carbon Project e coautore dello studio pubblicato su Nature Climate Change.
Nel 2020 emetteremo comunque il 92-96% dei gas serra che avremmo emesso se non ci fosse stata la pandemia. Il mondo non si è mai fermato: riscaldamento, agricoltura e molte produzioni industriali non hanno conosciuto pause.
Nelle scorse settimane i giornalisti hanno bussato con insistenza all’osservatorio meteorologico di Mauna Loa (o meglio, hanno tempestato gli uffici di mail e telefonate, perché l’osservatorio si trova sul cucuzzolo dell’omonimo vulcano delle Hawaii, a 3.400 metri di altitudine). Volevano sapere da Ralph Keeling se il suo team di ricerca fosse riuscito a registrare il tracollo delle emissioni. Dal 1958, infatti, l’osservatorio tiene traccia dei livelli di CO2 in atmosfera che, oscillazioni stagionali a parte, non hanno fatto che aumentare, segnando un record dopo l’altro. La cosiddetta “curva di Keeling” è una bella parabola che punta dritto verso il cielo, dove in aprile la concentrazione di CO2 ha raggiunto un nuovo primato: 416,21 ppm (circa 3 ppm in più rispetto ad aprile 2019). L’atmosfera è così piena di gas serra che probabilmente non sarà possibile scorgere gli effetti del lockdown, ha spiegato con pazienza Keeling, che oggi dirige l’osservatorio fondato dal padre Charles, a cui si deve il nome della famosa curva.
Ecco perché non dovremmo sorprenderci se il 2020 passerà ugualmente alla storia come uno degli anni più caldi di sempre. E per quanto paradossale possa apparire, persino la riduzione dello smog sulle nostre città rischia di contribuire all’aumento delle temperature. Gli inquinanti atmosferici, infatti, come un filtro sporco, schermano una parte dei raggi solari, raffreddando il pianeta. Con i cieli ripuliti dai gas e dalle particelle in sospensione, al contrario, il riscaldamento globale si fa ancora più intenso. Per carità, non c’è da rimpiangere lo smog, che secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) causa ogni anno oltre 70 mila morti soltanto in Italia; ma scoprire che se cala l’inquinamento siamo più esposti ai cambiamenti climatici è un’altra delle bizzarrie che dovrebbe farci riflettere sui guai ambientali in cui ci siamo cacciati.
C’è però un’altra lezione che possiamo trarre dalla pandemia. In un report pubblicato a novembre, il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) aveva esortato i governi a fissare impegni più ambiziosi per tagliare le emissioni di gas serra. L’unico modo per contenere il riscaldamento globale entro la soglia di 1,5°C e scongiurare una catastrofe climatica – avvertivano gli esperti dell’UNEP – è ridurre del 7,6% le emissioni annuali a livello globale; altrimenti supereremo la soglia di sicurezza prima della fine del decennio. Fino a qualche mese fa sembrava impossibile: da due secoli le emissioni di gas serra non fanno che aumentare e non si è mai registrata una riduzione del genere, neppure durante i periodi di recessione economica. Quest’anno, inaspettatamente, potrebbe invece accadere. Ma per restare entro la soglia di 1,5°C, servirebbe un calo altrettanto drastico anche l’anno prossimo, e poi quello successivo, e così via, anno dopo anno, per l’intero decennio e oltre, finché non avremo raggiunto il traguardo delle zero emissioni nette. E questo dà l’idea della sfida che ci attende.
Nel commentare quel che è accaduto, diversi analisti, fra cui la stessa Le Quéré, hanno sostenuto che non basta modificare i comportamenti individuali per risolvere la crisi climatica. In Cina non è stato il telelavoro né il blocco dei voli a far calare le emissioni del 25%, bensì l’interruzione della produzione industriale nella nazione che abbiamo eletto a fabbrica del mondo. “Penso che le persone si concentrino troppo sulla propria impronta ecologica individuale, senza realmente occuparsi delle ragioni strutturali che fanno salire i livelli di anidride carbonica”, ha detto il climatologo Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA.
Per restare entro la famosa soglia di 1,5°C di riscaldamento, servirebbe un calo altrettanto drastico anche l’anno prossimo, e poi quello successivo, e così via, anno dopo anno, per l’intero decennio.
È senz’altro vero e del resto, almeno dagli anni Settanta, le associazioni ambientaliste insistono sull’insostenibilità di un sistema di produzione industriale basato sul consumo smodato di combustibili fossili e sul saccheggio delle risorse naturali. D’altro canto, la pandemia insegna che anche le scelte individuali hanno un peso, tant’è che questo tracollo epocale delle emissioni è dovuto per metà al settore dei trasporti: meno aerei in cielo e meno auto nelle strade hanno avuto un impatto tangibile, seppure transitorio e insufficiente a risolvere, da solo, la crisi ecologica.
Su un punto comunque gli esperti concordano: il fatto che questa pandemia non ha nessun lato positivo: il lockdown non sarà utile a fermare il riscaldamento globale; se non vogliamo che le emissioni tornino in fretta ai livelli precedenti servono modifiche strutturali nei sistemi di produzione energetica, dei trasporti e della produzione alimentare. Solo così potremo ridurre in modo duraturo le emissioni gas serra. In altre parole, o approfittiamo di questa pausa per sbarazzarci dei combustibili fossili e decarbonizzare l’economia o siamo fregati.
Gli analisti si stanno spaccando la testa per capire quel che ora potrebbe accadere. I primi segnali tangibili riguardo alla ripartenza purtroppo non fanno ben sperare. Secondo il think tank Global Energy Monitor, la Cina è tornata a costruire centrali a carbone e in marzo ha approvato progetti per 7.960 megawatts, più dell’intero 2019. Negli Stati Uniti, l’Environmental Protection Agency (EPA) ha annunciato un allentamento dei controlli sull’inquinamento delle industrie e delle centrali elettriche, che potranno autocertificare il rispetto delle norme ambientali. Mentre in Europa la discussione sul Green Deal sembra essersi impantanata.
Se non vogliamo che le emissioni tornino in fretta ai livelli precedenti servono modifiche strutturali nei sistemi di produzione energetica, dei trasporti e della produzione alimentare.
E poi c’è tutto quel petrolio a prezzi stracciati che rappresenta una tentazione irresistibile per i governi alle prese con l’urgenza di far ripartire l’economia. Ha purtroppo già stimolato un boom della plastica monouso: leggi restrittive e plastic tax sono state sospese o rinviate per consentire la produzione di guanti, mascherine e altri dispositivi di protezione, mentre l’usa e getta degli imballaggi è diventato più conveniente del riciclo. Il surplus di petrolio a basso prezzo rischia inoltre di rendere meno competitive le auto elettriche e gli investimenti nelle rinnovabili.
Tuttavia non è detto che debba andare per forza così. Come ha suggerito Fatih Birol, ex direttore esecutivo dell’IEA, abbiamo un’occasione irripetibile per dare una bella sforbiciata ai generosi sussidi al consumo dei combustibili fossili, che ammontano a più di 400 miliardi di dollari all’anno (quasi un milione di dollari al minuto). Una somma che supera di gran lunga gli incentivi destinati alle rinnovabili e che sovvenziona il riscaldamento globale anziché la transizione energetica. In maggio persino il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva espresso una condanna senza appello per questi sussidi: “Stiamo usando il denaro dei contribuenti – cioè i nostri soldi – per rendere più violenti gli uragani, diffondere la siccità, sciogliere i ghiacciai, sbiancare le barriere coralline. In una parola, per distruggere il mondo”. Senza più sovvenzioni, investire in nuovi impianti di estrazione, produzione e distribuzione di fonti fossili diventerebbe ancora meno appetibile e redditizio di quanto già non sia oggi.
A causa della contrazione dei consumi, l’IEA paventa già una storica contrazione negli investimenti del settore energetico, e a farne le spese saranno soprattutto le fonti fossili: gli analisti prevedono una riduzione del 30% per il petrolio, del 15% per il carbone e del 10% per le energie rinnovabili. Per riuscire a guardare più in là servirebbe una sfera di cristallo. Neppure rifarsi a quel che accadde l’ultima volta che le emissioni sono crollate, dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, aiuta a dipanare la matassa. Se da un lato è vero che allora, non appena la ruota tornò a girare, le emissioni di CO2 recuperarono in fretta il tempo perduto, dall’altro il consumo di combustibili fossili, almeno in Europa, non tornò più ai livelli precedenti perché nel frattempo gli investimenti nelle rinnovabili avevano favorito l’avanzata del solare e dell’eolico. Secondo Nick Robins della London School of Economics, tuttavia, all’epoca solo il 16% degli stimoli alla ripresa vennero destinati a investimenti green; stavolta dobbiamo fare di meglio.
Molto dipenderà da come i governi decideranno di spendere l’enorme quantità di denaro che è stata messa sul tavolo per rianimare l’economia. Puntare sugli investimenti green potrebbe essere un buon affare, ma al momento si contano più buoni propositi che piani concreti, anche perché i governi stanno ancora cercando di salvare il salvabile del vecchio mondo sconvolto dalla pandemia. Una spinta importante potrebbe arrivare dall’Europa: Frans Timmermans, commissario per il Green Deal europeo, ha ripetuto allo sfinimento che non sarà speso un solo euro per sostenere le industrie inquinanti. La volontà di vincolare gli stimoli economici alla sostenibilità ambientale è stata ribadita più volte dai vertici della Commissione Europea, e altri Paesi come la Corea del Sud e la Nuova Zelanda hanno già annunciato di voler seguire l’esempio. Negli Stati Uniti, invece, la partita sembra legata a doppio filo all’esito delle elezioni presidenziali di novembre.
Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 solo il 16% degli stimoli alla ripresa vennero destinati a investimenti green stavolta dobbiamo fare di meglio.
Del resto, non è stata la pandemia, di per sé, a causare il crollo delle emissioni di gas serra, bensì la nostra risposta alla pandemia. Quando alla fine di gennaio il governo di Pechino sigillò Wuhan e altre dieci città della provincia dell’Hubei, mettendo in quarantena decine di milioni di persone, il mondo guardò a quel che avveniva in Cina con un misto di incredulità, terrore e ammirazione. Nessuno immaginava che i governi di mezzo mondo avrebbero avuto il coraggio di imporre misure altrettanto drastiche e dolorose per fronteggiare l’emergenza.
Decarbonizzare l’economia può sembrare un’impresa impossibile, eppure abbiamo appena imparato che durante un’emergenza ciò che fino al giorno prima appariva impossibile, il giorno dopo può diventare inevitabile. Qualcosa di quel che abbiamo vissuto è destinato a restare. Ci siamo accorti, per esempio, come oggi le città siano spesso progettate per le auto e non per le persone, ma abbiamo capito anche che le abitudini di consumo possono cambiare e che, se non vogliamo che tutto torni come prima, servono mutamenti strutturali in ogni aspetto della nostra società.
A causa dell’emergenza sanitaria abbiamo quantomeno avuto l’opportunità di guardare in faccia la nostra dipendenza dalle emissioni e la nostra ubriacatura da petrolio. Adesso dobbiamo guardare oltre, e trovare un rimedio. Non avremo mai un vaccino contro la crisi climatica: l’unica strada che conosciamo è sbarazzarci dei combustibili fossili prima che sia troppo tardi.