P rendiamo due esperienze: una dove prevale la volontà delle persone, l’altra dove prevalgono le macchine. La prima: passiamo una giornata al computer, a lavorare su un progetto, non badiamo alle ore che passano, ci accorgiamo di avere trascurato il pranzo. La paura di non finire in tempo lascia spazio alla soddisfazione di avercela fatta. L’impressione è di aver speso la giornata in qualcosa di significativo, sentiamo crescere la fiducia in noi stessi. Mentre clicchiamo INVIO ripensiamo ai mesi passati ad acquisire le abilità che abbiamo sollecitato durante il lavoro. La seconda esperienza: dobbiamo dedicarci a un altro impegnativo progetto ma prima apriamo TikTok. Passano due ore e non ce ne accorgiamo neanche. Abbiamo visto persone che piallano il legno, che fanno tuffi in piscina, che ripetono modi di dire buffi o cucinano pietanze che noi non mangeremo mai.
Possiamo considerare le opere e le immagini dei software come atti creativi?
Due esperienze immersive di interazione con la macchina. Nella prima prevale la volontà della persona, nella seconda – al posto di TikTok poteva esserci Netflix, Instagram o Twitch – prevale la volontà della macchina. Lo scopo della macchina di acquisire tempo-persona approfitta dell’esigenza umana di rilassarsi, prima di affrontare un compito faticoso. Ai due estremi di queste esperienze ce ne sono tante altre, ovunque nella nostra vita: l’accesso alla burocrazia, le prolisse riunioni online, la ricerca di un ristorante scelto in base alle recensioni. Siamo, con le macchine, in un gioco a interessi misti. Non faremo a meno delle macchine e le macchine non faranno a meno delle persone. È una partita dove non si vince annullando l’altro. Tra macchine e persone c’è una relazione di reciproca dipendenza, con obiettivi diversi.
Oggi milioni di persone giocano o lavorano con i software che generano discorsi e illustrazioni. Grazie a un comando testuale, il prompt, la macchina viene indirizzata all’interno di una combinazione statistica di archivi immensi di testi e immagini da cui scegliere, e che le permettono poi di creare un nuovo testo o una nuova immagine. Quello che fa il computer è calcolare una sequenza, ma riesce a simulare così bene le attività tipicamente umane che il risultato è sorprendente. Frasi plausibili, prive di errori sintattici, concetti articolati che sembrano razionali. Le immagini esaudiscono prontamente le istruzioni, rendendo visibile il desiderio. Certo, magari si tratta di un’estetica ripetitiva e di conversazioni monotone o di miscele di stereotipi. In ogni caso il risultato rimane sbalorditivo e, come sempre quando una macchina imita efficacemente prerogative umane, anche disturbante. Possiamo considerare le opere dei software Large Language Model e le immagini della tecnologia Text-To-Image come atti creativi? Per decidere se lo siano o meno dovremmo avere una nozione di creatività condivisa.
Nel 1950 Alan Turing inventò il famoso “gioco dell’imitazione” partendo dall’impossibilità di dare una definizione di intelligenza. Da cui la soluzione: se un computer sembra intelligente, all’esame umano, allora è intelligente. Basta che funzioni. Potremmo fare lo stesso con la creatività? E quindi con le illustrazioni di Midjourney, DALL-E e Stablediffusion, con i testi generati da GPT e dagli altri software LLM? Se sembrano creativi, allora sono creativi? Scomparirebbe così, però, il momento dell’interazione tra persona e macchina. Un momento decisivo, come sanno i milioni di persone che, comando dopo comando, addestrano le macchine in cambio di illustrazioni, traduzioni, stringhe di codice, lunghe email.
Jennifer Lepp è un’autrice indipendente, pubblica con successo sulla piattaforma Amazon Kindle, con il nome di Leanne Leeds, libri di una nicchia editoriale specifica: fantasy con gufi come protagonisti. Oggi integra Sudowriting, un software di intelligenza artificiale, nella sua routine di scrittura. Ha raccontato che dopo un periodo di reciproca conoscenza, l’assistente IA ora le permette di centrare le pressanti scadenze del suo settore. Lepp ha notato un cambiamento nel suo processo creativo. Quando era sola a immaginarli, sognava i suoi personaggi e accanto a loro si svegliava. Ora le capita, al tavolo di lavoro, di non sapere perché fanno quello che fanno. Le serve un po’ di tempo per riprendere il filo. Jennifer Lepp è uscita dal flusso, dall’esperienza di immersione creativa. Grazie al suo assistente IA riesce però a mandare ad Amazon, e alla sua comunità di lettori, un libro ogni cinquanta giorni.
Italo Calvino si era già chiesto la stessa cosa che ci chiediamo noi oggi mentre giochiamo con i software. Le macchine possono scrivere opere creative? Nel 1967, in un suo celebre intervento dal titolo Cibernetica e fantasmi, Calvino accetta volentieri la prospettiva di una macchina che produca romanzi e prenda il suo posto di scrittore. La macchina che interessa Calvino dovrebbe produrre non tanto letteratura in serie, “meccanizzata” in partenza, – come quella di Lepp, che subordina le esigenze creative a quelle produttive. Pensa invece a una “una macchina scrivente che metta in gioco sulla pagina tutti quegli elementi che siamo soliti considerare i più gelosi attributi dell’intimità psicologica, dell’esperienza vissuta, dell’imprevedibilità degli scatti d’umore, i sussulti e gli strazi e le illuminazioni interiori”. Un buon automa letterario dovrebbe saper trasgredire i suoi stessi codici. Scrivere, ragionava Calvino, è un gioco di combinazioni tra elementi dati, quando funziona bene lo scrittore è una “macchina scrivente” che sa sorprendere se stessa. I software LLM non fanno questo. Producono, grazie al calcolo statistico, il risultato adeguato alle attese di qualcuno che li interroga. Il diritto d’autore non è chiaro a chi vada saldato, come non è chiaro se la privacy sia tutelata nel processo di training delle macchine (da qui la richiesta di maggiori informazioni da parte del Garante italiano). La macchina può sorprendere noi ma di certo non sorprendere se stessa con le sue combinazioni, come – ragionava Calvino – un buon automa scrittore dovrebbe saper fare.
Chi sa scrivere il prompt, il comando testuale migliore, ottiene risultati più interessanti. Presentazioni, codice informatico, ritratti evocativi, illustrazioni centrate, compiti a casa. Si parla già di nuove figure professionali: i prompt manager che sapranno usare la tecnologia GPT per progetti di marketing e posizionamento di contenuti sui motori di ricerca. L’integrazione dell’IA negli uffici, d’altra parte, potrebbe dare luogo a bizzarri circoli viziosi: impiegati che usano l’intelligenza artificiale per creare mail lunghe molti paragrafi partendo da un comando di poche righe verso destinatari che, al contrario, usano software di generazione del linguaggio per ridurre a un breve elenco puntato i molti paragrafi ricevuti via mail. Fino all’assurdo di un intero ciclo produttivo: brief, aggiornamenti, presentazioni, ringraziamenti, delegato alle macchine.
È un gioco di interazione tra persone e macchine. Eppure, come sempre in questi casi, la parte umana sembra scomparire e l’impressione è che la macchina faccia da sola. È così dai tempi del primo chatbot, Eliza, o di quando Deep Blue batté Garry Kasparov a scacchi. Ma come in un gioco di prestigio – o come nel celebre automa scacchista di Von Kempelen – l’uomo c’è, ma non si vede. È più forte di noi: per quanto le macchine siano programmate, progrediscano grazie ai feedback umani e abbiano senso solo nell’interazione con le persone, c’è un momento in cui – magia – ci convinciamo che facciano da sole. C’è un momento in cui ci sembrano intelligenti. Come e forse più di noi.
Cosa succede, ci possiamo chiedere in questi giorni di dialogo con i software compositori, se modelliamo la nostra idea di creatività sulla proposta della macchina?
All’inizio “intelligenza artificiale” era una metafora, un’analogia con l’intelligenza umana. Le analogie funzionano associando alcune caratteristiche di oggetti diversi, una comparazione che crea un significato nuovo. “Intelligenza + artificiale” serviva a fare ipotesi sul funzionamento delle macchine, segnalare le diverse posizioni dei loro stati, provare a formalizzare, rendere replicabile, certi aspetti dell’intelligenza. Ora siamo propensi a prendere in senso letterale la metafora. Forse è capendo come funzionano i computer che faremo passi avanti per capire come funziona l’intelligenza, notando somiglianze e divergenze. Sembra quasi che sia l’intelligenza umana a dover provare di essere intelligente, mentre l’intelligenza dei computer è data per certa: la realizzazione del sogno di un’intelligenza senza errori. Modellare la nostra idea di intelligenza su quella della macchina, tuttavia, può avere delle conseguenze indesiderate.
Spiega Ellen Ullman, scrittrice programmatrice nella Silicon Valley degli anni Novanta:
Chiamiamo il processore “cervello”, diciamo che i computer hanno “memoria”. Ma non sono come noi. Sono una proiezione di una parte molto sottile di noi stessi: quella in cui regnano la logica, l’ordine, la chiarezza. È come se prendessimo il gioco degli scacchi e decidessimo di modellare su di esso ogni aspetto dell’esistenza.
Il rischio, ragionava Ullman, ad assumere la prospettiva del computer, è il restringimento del margine di movimento delle persone. Ci si adatta alle esigenze della macchina: “rispondi alla domanda sì o no. Ok o Cancel”. I software LLM e TTI sono una delle innumerevoli occasioni di interazione con le macchine della tecnologia dell’informazione.
Se avvolgiamo il mondo di macchine che cambiano i nostri ambienti fisici e concettuali il rischio è che l’unico modo di far funzionare le cose diventi quello funzionale alle macchine, scrive Luciano Floridi nel suo La quarta rivoluzione, del 2014. Questa è la posta in palio nel gioco dell’interazione. Un ambiente, un design, favorevole alle persone o alle macchine. Dovremmo costruire macchine che lavorano per noi, e non adattarci a come funzionano le macchine, è la replica del Dair Institute alla lettera del Future for Life Institute, che chiede una moratoria di sei mesi al training delle IA più potenti di GPT-4.
Cosa succede, ci possiamo chiedere in questi giorni di dialogo con i software compositori, se modelliamo la nostra idea di creatività sulla proposta della macchina? La tecnologia GPT non è nuova, nuova è la sua diffusione, l’interesse che sta suscitando. Del resto la domanda sulla creatività può essere una domanda centrale nella somiglianza tra uomo e macchina, tra computer e cervello. Chiedere a una macchina di essere creativa equivale a chiederle di essere umana, ha scritto recentemente Stefano Bartezzaghi in Mettere al mondo il mondo.
Se nella cosiddetta “classe creativa” comprendiamo non solo gli artisti ma chiunque lavori nell’economia della conoscenza, i ruoli sociali e professionali messi in discussione dalle possibili evoluzioni di questi software generativi sono molti. Secondo uno studio in corso di pubblicazione, a opera principalmente di ricercatori di OpenAI, la società di ChatGPT, l’ottanta per cento dei lavori del mercato statunitense vedrà un cambiamento sul dieci per cento delle proprie mansioni a causa delle tecnologie generative del linguaggio; un venti per cento circa delle professioni, vedrà cambiare il cinquanta per cento sul suo lavoro, a causa dei software di intelligenza artificiale.
Nell’articolo in cui introduce per la prima volta il suo “gioco dell’imitazione”, Turing propone al computer di scrivere un sonetto sul Forth Bridge. “Dipingere il Forth Bridge” è una metafora, una frase idiomatica, per dire: “qualcosa senza fine”. La storia vuole che completata la costruzione del Ponte fosse ora di iniziare la manutenzione, e terminata la manutenzione fosse ora di riprendere dall’altro lato. Il computer di Turing si rifiuta.
Domanda: Mi scriva, per favore, un sonetto sul tema Forth Bridge.
Risposta: Non faccia affidamento su di me per questo. Non ho mai saputo scrivere poesie.
Domanda: Sommi 34957 a 70764.
Risposta: (pausa di circa trenta secondi e poi la risposta): 105721.
Domanda: Gioca a scacchi?
Risposta: Si.
Domanda: Ho il Re in e1 e nessun altro pezzo. Lei ha solo il Re in c3 ed una Torre in h8. Tocca a lei. Che mossa gioca?
Risposta (dopo una pausa di quindici secondi): Torre in h1, matto.
Forse teme le metafore, forse non vuole entrare in un ciclo di reindirizzamento continuo, il temuto loop. Le macchine non fanno metafore. Ma sono più che capaci di simulare metafore e immagini, lavorando nella loro splendida omogeneità. Tutto sommato, per un calcolatore elettronico dati, processi e risultati hanno la stessa consistenza: sono tutti bit, per citare ancora Floridi. Non esiste il fuori, nel linguaggio del computer. Per le macchine l’esperienza (i dati), il processo di elaborazione e il risultato dell’elaborazione (la conoscenza) sono codice, informazioni, simboli indifferenti a ciò che significano.
Analogico e digitale sono contrapposti anche da questo punto di vista. Le persone cercano significati, collegando per analogia oggetti diversi, non propriamente per calcolo statistico, ma in una strategia di senso. Le persone inventano e usano metafore per trovare significati alle cose del mondo, per tenere a portata di mano concetti astratti. Una metafora viva è una scommessa dall’esito non calcolabile: verrà capita? Servirà a capire qualcosa? La metafora, mediazione tra esperienza e conoscenza, è sia l’unità minima della creatività, sia strumento indispensabile per il pensiero.
Quale volontà prevalga nell’interazione con i software generativi, se quella delle persone che li usano o quella delle macchine che imparano, forse è presto per dirlo. Di certo la pubblicità e l’addestramento di questi mesi sono notevoli e stanno generando un intenso e diffuso dibattito. Per evitare problemi con le metafore il computer immaginato da Turing ripiegava volentieri su una complessa addizione, di cui però sbagliava il risultato. Oggi il software GPT integrato in Bing azzecca l’addizione, e riesce anche a scrive un sonetto sul Forth Bridge, ma è ancora banale, non coglie la metafora. Nel 1984 Umberto Eco scrisse: “non esiste algoritmo per la metafora”. Continua a essere vero. Il gioco continua.
Tutte le illustrazioni sono state prodotte utilizzando il generatore di immagini Midjourney.