S corsi Charlie Veitch alla stazione ferroviaria Piccadilly di Manchester appena si aprì l’ascensore dell’uscita su London Road. Indossava una felpa scozzese verde e dei blu jeans, e teneva uno zainetto in spalla. Due chiazze bianche sopra le tempie spiccavano sui capelli dal taglio decisamente classico. Sorrise vedendomi e mi raggiunse affrettando il passo. Mi salutò da lontano e si immerse nel flusso dei pedoni, aprendosi un varco fra la gente che procedeva in direzione opposta e tenendo lo sguardo rivolto verso di me. Saltò i convenevoli e iniziò a spiegarmi con ampi gesti della mano l’architettura e la storia della città in cui lui e la sua compagna, Stacey, stavano crescendo i loro tre figli. Ci si viveva bene, disse, anche se doveva lavorare sotto falso nome per evitare che i truther (coloro i quali pensano che la versione ufficiale di quanto avvenuto l’11 settembre sia una menzogna) lo scoprissero.
Charlie è alto di statura e stargli al passo mi costava un certo sforzo. Mi sentivo trascinato in avanti come se fossi aggrappato a un autobus, con i piedi per aria come in una gag di Charlot. Voleva condividere con me alcune sue opinioni sui senzatetto, sull’arte e la musica locale, sulla produzione di film, sulle somiglianze e le differenze tra Manchester, Londra e Berlino, tutto prima ancora di avere attraversato il terzo incrocio, magari ignorando i semafori pedonali se solo il traffico glielo avesse permesso. Mi ero deciso a incontrare Charlie perché, quando si guadagnava da vivere come professionista della teoria del complotto, aveva fatto qualcosa di incredibile, qualcosa di così raro e inconsueto che, prima di iniziare questo libro, pensavo fosse impossibile. Qualcosa che gli aveva quasi rovinato la vita.
Tutto era iniziato nel giugno del 2011, poco prima del decimo anniversario dell’11 settembre, quando Charlie si era imbarcato su un volo della British Airways all’aeroporto di Heathrow diretto a New York, dove insieme ad altri quattro truther si sarebbe unito a un gruppo di cameramen, giornalisti e tecnici del suono intorno al comico Andrew Maxwell, il conduttore di una serie tv intitolata Conspiracy Road Trip. Maxwell voleva realizzare quattro puntate per la BBC, ognuna delle quali dedicata a una particolare comunità di complottisti: gli appassionati di ufo, quelli che negano la teoria dell’evoluzione, i teorici del complotto sugli attacchi terroristi a Londra e i truther.
Prima di ricredersi, Charlie Veitch si guadagnava da vivere come professionista della teoria del complotto.
Gli autori del programma intendevano mandare membri di questi gruppi in giro per il mondo e farli viaggiare in autobus per incontrare esperti e testimoni che mettessero alla prova le loro credenze con prove inoppugnabili, con fatti. I contrasti e le tensioni che si sarebbero create avrebbero dato a vita a momenti di grande televisione, con discussioni e polemiche su un fondo musicale vivace e col piglio dei soliti reality show. Al termine di ogni puntata, Maxwell, la nostra guida nel mondo delle teorie complottiste, si sarebbe riunito con i suoi compagni di viaggio per verificare se i fatti presentati li avessero in qualche modo persuasi. Questo era l’impianto del programma e nessuno se ne scostava. Esasperato, al termine di ogni viaggio Maxwell scuoteva la testa, chiedendosi come sarebbe riuscito a convincerli. Ma la puntata con Charlie era stata diversa.
Lui e i suoi amici truther avevano trascorso dieci giorni a New York, in Virginia e in Pennsylvania, visitando i luoghi degli attentati. Avevano parlato con esperti di demolizioni, di esplosivi, di viaggi aerei e di costruzioni. Avevano incontrato le famiglie delle vittime e alcuni rappresentanti del governo, fra cui un funzionario presente nel Pentagono al momento dell’attacco e attivo nella fase di riordino. Avevano fatto visita agli architetti del World Trade Center e conosciuto il responsabile nazionale della Federal Aviation Administration in carica al momento dell’attacco. Si erano anche addestrati in un simulatore e avevano preso lezioni di volo nel cielo di New York, riuscendo a fare atterrare un monomotore pur non avendo mai fatto esperienza di pilotaggio. A ogni tappa avevano incontrato esperti del massimo livello nel proprio campo, persone che avevano visto gli eventi dell’11 settembre con i loro occhi o che quel giorno avevano perso qualcuno.
Malgrado l’impegno di Maxwell, i truther raddoppiavano i loro sforzi, sempre più sicuri che fosse in atto un complotto. Vedevano, perlomeno, confermate le loro convinzioni e sostenevano di essere ingannati da attori ben retribuiti, oppure che gli esperti erano falsi, o ancora che i cosiddetti fatti provenivano da fonti sospette. Tutti i truther tranne uno. A quel tempo Charlie era un esponente di spicco nella comunità dei truther. Il suo reddito principale veniva dalla produzione di centinaia di video per YouTube di ispirazione anarchica e complottista, alcuni dei quali avevano collezionato milioni di visualizzazioni. Diceva ai suoi adepti che l’incendio delle Torri gemelle non avrebbe potuto raggiungere una temperatura tale da fondere le travi d’acciaio e che i due grattacieli erano crollati sulle loro fondamenta, come in una demolizione controllata. Indagava nelle connessioni fra istituzioni governative, militari, economiche, per individuare il vero responsabile. Percorreva normalmente le strade con un megafono in mano e una videocamera nell’altra per attirare sottoscrittori e aprire gli occhi alla gente.
Malgrado l’esposizione a fatti innegabili, i truther raddoppiavano i loro sforzi, sempre più sicuri che fosse in atto un complotto.
Divenuta quell’attività un lavoro a tempo pieno, Charlie aveva iniziato a fare il conferenziere, regolarmente presente a festival e manifestazioni in cui si radunavano i seguaci delle teorie complottiste, gli anarchici e i nuovi hippy in cerca di sesso, droga e wi-fi gratuito. Era diventato amico e collaboratore dell’istrionico patriota Alex Jones, e dell’investigatore interdimensionale, nonché teorico del complotto rettiliano, David Icke.
Per cinque anni aveva subito le conseguenze di quella scelta, finendo anche in prigione diverse volte. Era stato arrestato per avere assunto le vesti di un poliziotto quando la televisione di stato russa l’aveva inviato al G20 di Toronto per svelare le trame di un nuovo ordine mondiale. Più tardi era stato arrestato, ironia della sorte, per sospetta cospirazione, avendo programmato una manifestazione di protesta in occasione del matrimonio reale. Parlando della sua cattura, “The Telegraph” l’aveva descritto come un “noto anarchico”.
Molto amato dalla comunità dei complottisti, e stella nascente di YouTube, Charlie allora si considerava un provocatore e una celebrità emergente, odiato da alcuni quanto adorato da altri. Pensava che il suo viaggio a New York sarebbe stata la svolta nella sua carriera, l’evento che l’avrebbe reso internazionalmente famoso. Ma una volta arrivato nella Grande mela, al culmine della notorietà, aveva fatto una cosa incredibile e, come si sarebbe capito più tardi, imperdonabile. Aveva cambiato idea.
Charlie allora si considerava un provocatore e una celebrità emergente, odiato da alcuni quanto adorato da altri.
Seduti nella caffetteria dell’Eastern Bloc guardavamo l’andirivieni dei clienti venuti a mangiare, chiacchierare e scherzare in santa pace. Charlie sembrava nutrirsene e alzava la voce in modo che gli spettatori potessero sentirlo mentre spiegava, avvolto dal fumo delle sue sigarette American Spirit, perché non era più un truther.
[…] Durante il viaggio Charlie era passato da Times Square e si era filmato mentre raccontava cosa aveva appreso: aveva parlato con degli esperti che gli avevano dimostrato quanto fosse facile pilotare un aereo e farlo atterrare pur avendo poca esperienza, e come fosse difficile realizzare una demolizione controllata senza che nessuno se ne accorgesse; e ancora, come le due torri non fossero progettate per reggere l’impatto di un moderno jet carico di carburante, e così via.
Una settimana dopo, tornato a casa, Charlie aveva messo in rete una confessione di tre minuti e trentatré secondi intercalata da spezzoni video ripresi durante il viaggio. L’aveva intitolata No Emotional Attachment to 9/11 Theories – The Truth is Most Important. Nella descrizione del video aveva scritto che dopo cinque anni passati a credere nella teoria del complotto, dopo avere partecipato diverse volte al programma di Alex Jones e aver promosso la comunità dei truther in pubblico e in televisione, ora credeva che “le difese dell’America siano state colte con i pantaloni calati sulle caviglie. Non penso ci sia stata una complicità ai più alti livelli negli eventi di quel giorno. Sì, ho cambiato idea”. E aveva concluso: “Teniamo fede alla verità. Charlie”.
All’inizio la gente aveva iniziato a scrivere e-mail per chiedere cosa gli avesse fatto il governo.
All’inizio la gente aveva iniziato a scrivere email per chiedere se stava bene e cosa gli avesse fatto il governo. Nei primi giorni, il teorico del complotto Ian R. Crane aveva postato sui forum dei truther la notizia che un produttore suo amico gli aveva rivelato che Charlie era stato manipolato da uno psicologo e stretto collaboratore di Derren Brown, noto sostenitore del mentalismo. Si spiegava così perché Charlie avesse messo in rete quel video.
Erano state messe in circolazione delle voci in cui si affermava che Charlie era un agente segreto mandato dall’FBI o dalla CIA o dall’intelligence britannica per infiltrarsi nel movimento dei truther, una spia che aveva il compito di screditarli. Max Igan, conduttore di una radio legata ai complottisti, disse che Charlie era il primo dei truther ad avere cambiato idea. Tutte cose senza senso. Nei commenti si scriveva che “l’avevano fregato”, si chiedeva “Charlie, quanti soldi ti hanno dato le élite per tapparti la bocca?”, si affermava che “era come dire che la gravità non esiste”.
Cominciarono a comparire in rete video di risposta frettolosamente realizzati, in cui si asseriva che Charlie era stato pagato dalla BBC. Per chiarire la sua posizione, Charlie aveva partecipato a vari talk show dedicati al tema del complottismo in internet. Aveva condiviso ciò che gli era stato detto dagli esperti e spiegato perché gli erano sembrati convincenti, ma i truther rimanevano increduli. Nei suoi video di risposta aveva chiesto che tutti si attenessero alle regole della correttezza, ma in poco tempo si era capito che l’avevano scomunicato. Gli attacchi erano continuati per mesi, il suo sito web era stato hackerato e aveva chiuso la sezione dei commenti. David Icke e Alex Jones avevano interrotto le relazioni con lui.
Max Igan, conduttore di una radio legata ai complottisti, disse che Charlie era il primo dei truther ad avere cambiato idea.
La puntata di Conspiracy Road Trip con Charlie alla fine era stata messa in onda. Al termine Charlie aveva detto a Maxwell: “Non mi resta che affrontare la situazione con coraggio, ammettere che mi sbagliavo, dar prova di un briciolo di umiltà e andare avanti”. Ma a quel punto i truther gli avevano reso la vita impossibile. […] I truther l’avevano ufficialmente bandito, e così aveva abbandonato per sempre la loro comunità. Nell’aprile del 2015 Charlie aveva intrapreso la sua nuova attività, che non descriverò in dettaglio per mantenere il suo anonimato. Dirò solo che si occupa della vendita di immobili in tutto il mondo.
[…] Charlie mi raccontò che, in realtà, aveva postato delle foto con il biglietto da visita della sua nuova attività su Facebook appena assunto, e subito qualcuno aveva scritto al suo capo dicendogli che Charlie era un pedofilo e un criminale. Aveva confessato il suo passato di youtuber, ma non le vessazioni subite. “Raccontai al mio capo la storia di cui stiamo parlando, il mio radicale cambiamento di vita”. E aggiunse, imitando quell’uomo: “Va tutto bene, Charlie. Quelli sono dei coglioni, degli autentici coglioni”. A quel punto Charlie aveva cambiato nome e si era fatto fare dei nuovi biglietti da visita.
A un primo sguardo, la storia di Charlie sembrava un paradosso. Charlie Veitch aveva cambiato idea davanti a prove schiaccianti, mentre i suoi amici truther, pur vedendo le stesse prove e parlando con gli stessi esperti, o abbracciando gli stessi familiari delle vittime, si erano mostrati sempre più sicuri del fatto che l’11 settembre fosse un’operazione condotta con l’aiuto di un basista. Pensai che doveva esserci in gioco qualcos’altro, qualcosa che forse aveva poco a che vedere con i fatti.
La storia di Charlie sembrava un paradosso: aveva cambiato idea davanti a prove schiaccianti, mentre i suoi amici truther no.
Innanzitutto, scrivendo i miei libri precedenti avevo capito come l’idea che i fatti da soli potessero indurre la gente a vedere le cose nello stesso modo fosse un gigantesco equivoco. I filosofi razionalisti dell’Ottocento sostenevano che l’istruzione pubblica avrebbe sviluppato la democrazia eliminando ogni forma di superstizione. Benjamin Franklin scrisse che le biblioteche pubbliche avrebbero reso l’individuo comune istruito come un aristocratico, e in tal modo l’avrebbero messo nella condizione di votare a difesa dei suoi interessi. Timothy Leary, lo psicologo che predicava l’espansione della mente attraverso le sostanze psichedeliche e che poi era diventato il campione dell’ethos cyberpunk, insegnava che i computer, e successivamente internet, avrebbero rimosso il bisogno di avere dei custodi dell’informazione diffondendo il “potere alla pupilla”, ossia la forza democratica che viene dall’essere in grado di mettersi negli occhi ciò che si vuole. Tutti sognavano che un giorno avremmo avuto accesso agli stessi fatti e che poi, naturalmente, saremmo stati d’accordo su cosa quei fatti significhino.
Nella scienza della comunicazione questo viene usato per definire il modello del deficit di informazione, a lungo dibattuto da accademici frustrati. Poiché le scoperte di ricerche controverse – su tutto ciò che va dalla teoria dell’evoluzione ai pericoli della benzina addizionata col piombo – non riuscivano a convincere il pubblico, si cercava il modo migliore di ritoccare il modello in modo che i fatti parlassero da soli. Ma quando i siti indipendenti, e poi i social media, i podcast e infine YouTube, hanno cominciato a parlare per i fatti e a minare l’autorità di professionisti dei fatti come giornalisti, dottori e documentaristi, il modello del deficit di informazione è stato definitivamente abbandonato. In anni recenti questo ha prodotto una sorta di panico morale.
Mentre scrivevo questo libro, verso la fine del 2016, il dizionario dell’Oxford University Press ha nominato “post-verità” la parola dell’anno, citando un aumento del 2000% nel suo uso in discussioni riguardanti il referendum sulla Brexit e le elezioni presidenziali americane. Commentando l’annuncio, il Washington Post ha scritto di non essere sorpreso. E ha invece deplorato: “È ufficiale: la verità è morta. I fatti sono superati”. Nell’ultimo decennio termini come fatti alternativi hanno occupato in misura sempre crescente la coscienza pubblica, e in tutto il mondo i profani hanno acquisito familiarità con concetti a lungo banditi in psicologia, come le bolle di filtraggio e i bias di conferma. L’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha detto al mondo intero che le fake news sono come “uccidere la mente delle persone”. Il termine fake news si è poi trasformato: da nuovo modo di bollare la propaganda, a definizione di più o meno tutto ciò che la gente rifiuta di credere. È così che Brian Greene, un fisico che studia la teoria delle stringhe, ha detto a Wired: “Siamo giunti a un punto molto strano nella democrazia americana, in cui si attaccano alcune caratteristiche della realtà che, appena un paio d’anni fa, avremmo pensato fossero fuori discussione”.
I filosofi razionalisti sostenevano che l’istruzione pubblica avrebbe sviluppato la democrazia eliminando ogni forma di superstizione.
I social media si sono adattati, lasciandosi alle spalle foto di cibi e bambini per privilegiare discussioni su argomenti controversi che generano una maggior partecipazione pur diventando più difficili da gestire. È iniziata una nuova guerra fredda basata su una disinformazione mirata, e nel volgere di qualche mese l’amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, si è trovato davanti al Congresso per spiegare come i troll russi stessero seminando nuovi feed armati di esche digitali, non tanto per disinformare quanto piuttosto per stimolare discussioni senza sbocchi che rendono difficile la collaborazione democratica. Verso la fine di quel decennio, un editoriale del New York Times affermava che la stessa democrazia era in pericolo perché i fatti avevano “perso la loro capacità di supportare il consenso”. Il New Yorker cercò una risposta alla domanda “Perché i fatti non ci fanno cambiare idea?”, mentre The Atlantic scrisse apertamente che “questo articolo non vi farà cambiare idea”. Poi arrivò la minacciosa copertina della rivista Time, che a caratteri cubitali rossi su fondo nero riportava una domanda, in cui sembrava riassunto il panico morale di fronte al crescente caos epistemico: “la verità è morta?”.
E tutto questo prima di Qanon, dei raduni di “Stop the Steal”, delle rivolte, dell’impeachment di Donald Trump, dei teppisti che abbattevano le torri 5G sospettando che emettessero raggi tossici, delle proteste nelle capitali di vari stati in cui si sosteneva che il Covid-19 era un inganno, dell’aumento dei no vax, e delle manifestazioni di massa contro la brutalità della polizia e il razzismo del sistema in seguito alla morte di George Floyd. In ciascuno di questi casi, all’interno di questo nuovo ecosistema dell’informazione, tutti cercavano disperatamente di far cambiare idea a chi la pensava in modo diverso, a volte con video, a volte con articoli, a volta con pagine di Wikipedia.
È iniziata una nuova guerra fredda basata su una disinformazione mirata.
Ma dopo aver conosciuto la vicenda di Charlie Veitch, non riuscivo a smettere di chiedermi: se viviamo nel mondo della post-verità, se i fatti non possono far cambiare idea, allora come si spiega che Charlie abbia cambiato idea quando gli sono stati sottoposti dei fatti? Ecco perché mi ero recato a Manchester per incontrarlo. E dopo aver sentito la sua storia, ho iniziato ad avere gli stessi dubbi che erano sorti in lui a New York. Ero all’oscuro di tutto quando incontrai Charlie Veitch, ma la risposta alla domanda perché i fatti che lo hanno indotto a cambiare idea non hanno indotto a cambiare idea anche i suoi amici mi avrebbe fatto capire perché molti di noi oppongono resistenza a certi fatti e non ad altri.
[…] In un mondo appiattito e online come il nostro, in cui è più probabile avere a che fare con persone che la pensano diversamente da noi, una diffusa resistenza al cambiamento – su argomenti di varia natura, dall’ipotesi che Bill Gates ci spinge a vaccinarci perché vuole introdurci nel sangue dei microchip, alla reale esistenza del cambiamento climatico, alla valutazione di un film qualsiasi – ci ha portato a un’epoca di pericoloso cinismo. All’interno di questo ecosistema dell’informazione, in cui tutti hanno accesso a fatti che sembrano confermare le proprie opinioni, abbiamo iniziato a credere di vivere in realtà separate. Siamo arrivati a considerare le persone dall’altro lato della barricata irraggiungibili come i truther che avevano accompagnato Charlie a New York. Anch’io la pensavo in questo modo, ma scrivendo questo libro ho cambiato idea. Tutto è iniziato quando mi sono avventurato per incontrare dei professionisti nell’arte di far cambiare idea.
Un estratto da Come si cambia idea di David McRaney (Aboca, 2023).