E siste uno stereotipo di lungo corso, su certe abitudini alimentari dei cinesi, che non senza orientalismo e ipocrisia noi occidentali tendiamo a giudicare disgustose e anormali, antigieniche e malsane. Durante un periodo di studio in Cina, io stesso sono inorridito alla vista di un cane grossolanamente squartato e bellamente esposto in una macelleria ambulante nel Guandong, e ho avuto un sussulto per alcune grasse code di alligatore ostentate al banco dei freschi del centro commerciale più alla moda di Guangzhou. Più volte sono stato informato che avrei potuto gustare del serpente, se solo avessi voluto, in una qualche bettola che lo preparava clandestinamente. A Zhouzhuang, poco fuori Shanghai, il piatto forte al tempo della mia visita era tartaruga al vapore e una sera, a un hot pot con dei locali, ho spizzicato delle cosce di tián jī, letteralmente “pollo campestre” per la bianchezza e la morbidezza delle carni di rospo bollito.
Cibarsi di selvaggina esotica o carne non convenzionale, quella che viene spregiativamente etichettata come bushmeat, è comune in molte zone del mondo: di per sé non c’è nulla di così speciale nelle abitudini alimentari cinesi. Per quanto ne sappiamo, la maggior parte della popolazione in Cina non consuma selvaggina abitualmente, chi vive in città tende a stigmatizzare la predilezione per la “freschezza” della warm meat macellata al mercato, o la considera tuttalpiù un lusso per pochi, irriducibili nouveaux riches. Lo stereotipo sulle usanze alimentari insalubri e rivoltanti dei cinesi si è tuttavia rinvigorito come non mai quando sul finire del 2019, tra le gabbie di animali urlanti dello Huanan Seafood Wholesale Market di Wuhan, il virus SARS-CoV-2 ha compiuto un epocale salto di specie, contagiando il primo di una lunga catena di esseri umani e innescando una pandemia che di lì a breve avrebbe paralizzato il mondo intero.
Da subito ci si è precipitati a denunciare l’appetito cinese per le carni esotiche e la scellerata promiscuità di carcasse, deiezioni e umori al wet market di Wuhan, dal quale si stima siano transitati oltre 47mila esemplari di 38 specie animali diverse, incluse 31 specie selvatiche protette, negli anni immediatamente precedenti alla pandemia. Sin dalle prime fasi del contagio, a molti di noi è parso comodo e giustificabile ricondurre la responsabilità di Covid-19 a un tratto culturale specifico – le pratiche alimentari retrograde, nefande e nocive dei cinesi – anziché a dinamiche strutturali di tipo economico. E se ci fossimo sbagliati? A sollevare la questione è Chuang, un collettivo internazionale di scrittori e giornalisti, molti dei quali residenti in Cina, che da qualche tempo pubblica una rivista di analisi del mercato del lavoro cinese. Le riflessioni sulla pandemia che Chuang ha annotato in presa diretta nel corso del 2020 sono state raccolte in un libro, Contagio sociale (NERO, 2023), meritevole di attenzione come tutto ciò che riesce a filtrare dalla censura degli apparati di Stato e dal controllo paranoico che il governo cinese esercita sul lavoro degli intellettuali.
Cibarsi di bushmeat, è comune in molte zone del mondo, non c’è davvero nulla di così speciale nelle abitudini alimentari cinesi.
Nel primo capitolo del libro, Chuang ricostruisce il discorso dominante sull’eziologia di SARS-CoV-2 con lo scopo dichiarato di smontare la retorica razzista del “virus cinese”. Già allo scoppio della pandemia, il dibattito scientifico e politico si è presto polarizzato attorno a due teorie incompatibili: da una parte l’ipotesi della zoonosi, del salto di specie da animali a umani al mercato di Wuhan; dall’altra la tesi del lab leak, la fuga accidentale del virus dai sistemi di biosicurezza dell’istituto di virologia della città, dove da oltre un decennio si studiano le modificazioni genetiche del Coronavirus.
Dopo quasi quattro anni di reticenze, indagini, depistaggi e complottismi, passati al setaccio in altri saggi sulla pandemia come Dead Epidemiologists (2020) di Rob Wallace e Senza respiro (2022) di David Quammen, la controversia sull’origine di SARS-CoV-2 non ha ancora trovato soluzione, anzi: negli ultimi tempi ha assunto la forma di una battaglia scientifica tra editoriali in cui gli scienziati statunitensi accusano il governo cinese di occultare i dati sulla diffusione della pandemia, e preprint coi quali gli scienziati cinesi difendono l’ipotesi di un’origine esogena del virus per proteggere l’immagine di controllo e competenza delle autorità sanitarie nazionali. Al momento la teoria dello spillover da animale – probabilmente da pipistrelli a un vettore intermedio macellato al mercato di Wuhan – rimane largamente la più accreditata, anche se per l’Organizzazione Mondiale della Sanità entrambe le interpretazioni restano plausibili.
Ciò detto, quel che a Chuang preme sottolineare è che il consumo di bushmeat non può essere compreso senza considerare i cambiamenti strutturali nella produzione alimentare, in primis l’estensione capitalistica delle pratiche di allevamento in cattività a specie selvatiche precedentemente cacciate su piccola scala, e ora al centro di vere e proprie filiere commerciali globali. Sulla carta il contrabbando di carne esotica è da tempo fuori legge in Cina, ma il governo sembra fare di tutto per tollerarlo con controlli permissivi e clamorosamente insufficienti rispetto alla portata del fenomeno – un business globale che muove un monte di affari imponente e irresistibile, come testimoniato tra gli altri dal giornalista scientifico Rudi Bressa nel suo Trafficanti di natura (Codice, 2023). Chuang parla di “contagio sociale” nella misura in cui non è possibile scindere la diffusione di un’epidemia dalle circostanze socio-economiche in cui dilaga: un secolo fa, per dire, furono le condizioni disastrose del proletariato urbano a favorire la diffusione dell’influenza spagnola, oggi è la trasformazione di carne esotica in commodity e la sua commercializzazione negli affollati mercati dell’Asia a scatenare virus emergenti come SARS-CoV-2.
In anni recenti, anche un’altra variabile di mercato come la volatilità del prezzo della carne di maiale ha spinto in alto la domanda di bushmeat: “il calo di disponibilità e di affidabilità della carne di maiale dovuto all’epidemia di influenza suina”, spiega Chuang, “ha causato un aumento dei prezzi della carne e di conseguenza un incremento nella raccolta di selvaggina e nell’allevamento di altre specie, comprese alcune vendute nei wet market”. Detto altrimenti, se il salto di specie al mercato di Wuhan è la causa prossima della pandemia, le crisi ricorrenti nel sistema capitalistico-industriale di produzione alimentare possono essere considerate la sua causa remota: quella che è colpevolmente sfuggita alle analisi più superficiali dell’esperienza pandemica.
Nessun Paese al mondo alleva e consuma più suini della Cina, dove il governo ha creato delle riserve strategiche di carne di maiale proprio per calmierare i prezzi nei periodi di crisi dell’offerta e autorizzato qualche anno fa la costruzione di “allevamenti verticali” per intensificare ulteriormente la produzione, dopo che un’ondata di peste suina africana aveva imposto l’abbattimento di quasi il 40% dei maiali presenti sul suolo nazionale. A settembre del 2022, non lontano da Wuhan, è entrato in funzione quello che è considerato ad oggi il più grande allevamento di maiali al mondo: in un grattacielo di calcestruzzo di ventisei piani alto come il Big Ben ha sede un’unica pig farm in grado di accrescere e portare al macello fino a mezzo milione di capi l’anno. Ammassare tanti animali geneticamente simili in uno spazio così circoscritto aumenta sensibilmente il rischio di malattie epidemiche, ragione per cui in altri Paesi le leggi impongono di ampliare gli ambienti e ridurre la densità degli animali allevati per metro quadro di superficie. È da questa insidiosa combinazione di agribusiness, economie di scala e produzione alimentare industriale che, come ricorda il già citato Rob Wallace nel suo Big Farms Make Big Flu (2016), sono scaturite molte delle epidemie recenti, da Nipah all’influenza aviaria.
Per continuare la sua folle corsa all’auto-accrescimento, il capitale detta radicali cambiamenti nell’uso della terra, nelle pratiche di allevamento e nelle abitudini alimentari, obbliga al rural push e all’urbanizzazione coatta, costringe le economie locali a confrontarsi con l’aggressività dei mercati globali: tutti fattori che spingono ceppi virali un tempo isolati o innocui verso ambienti iper-competitivi, nei quali trovano le condizioni ottimali per il salto di specie. È già successo altrove e con altre epidemie prima di Covid-19, si prenda Ebola: in Spillover (2012) lo stesso Quammen raccontava che, già a partire dagli anni Settanta, la pesca intensiva al largo delle coste dell’Africa occidentale dilaniò le riserve ittiche da cui dipendeva la sussistenza di vaste popolazioni locali, determinando un aumento nella domanda di selvaggina e l’installazione di nuovi allevamenti di bestiame ai margini delle foreste, lì dove il salto di specie diventa drammaticamente più probabile per il contatto diretto con la fauna selvatica.
Chuang parla di ‘contagio sociale’ nella misura in cui non è possibile scindere la diffusione di un’epidemia dalle condizioni socio-economiche in cui dilaga.
Perché proprio la Cina, allora? “Il motivo per cui tante epidemie sembrano emergere in Cina non è culturale”, osserva Chuang, “è una questione di geografia economica”. La Cina è oggi l’avamposto mondiale del capitalismo, e il capitalismo è intimamente connesso alla proliferazione delle pandemie: le crisi ecologiche e pandemiche non sono che un effetto perverso collaterale dell’irrefrenabile espansione del capitale. Si tratta di una tesi suffragata da decine di evidenze storiche e circolata anche in altri libri critici sulla pandemia: in The Origins of Covid-19 (2021), ad esempio, la studiosa di questioni internazionali Li Zhang sposta il dibattito proprio sul rapporto tra capitalismo globale e malattie emergenti. Anche Clima corona capitalismo (2021) di Andreas Malm offre una sintesi magistrale del rapporto tra capitalismo estrattivista, crisi ecologica e incidenza delle pandemie. “La Cina”, scrive Malm, “ha potuto fare da culla alla malattia solo perché le tendenze globali vi sono rappresentate in forma concentrata”.
Non basta infatti uno spillover a scatenare una pandemia: occorre anche una rete di scambi, collegamenti, rapporti umani attraverso cui quel primo impulso possa propagarsi. Ebola rimase un’epidemia locale semplicemente perché i Paesi in cui il virus si manifestò erano esclusi dai circuiti della globalizzazione, cosa che ovviamente non vale per la Cina, col suo ingombrante ruolo di nazione-traino dei commerci internazionali. Indagando la genealogia di decine di epidemie dell’età moderna, lo storico Mark Harrison ha messo in luce in Contagion: How Commerce Has Spread Disease (2012) il nesso profondo che lega la diffusione dei virus alla circolazione capitalistica delle merci: è nei grandi mercati e negli interporti, luoghi di scambio e promiscuità, che i patogeni vengono movimentati, provocati, spostati d’ambiente, portati al punto di compiere il fatidico spillover, proprio com’è accaduto a Wuhan.
Ma se il sistema capitalistico accresce la possibilità che insorgano nuovi contagi, è vero anche il contrario, e cioè che l’emersione stessa del capitalismo è stata facilitata e consolidata dal diffondersi delle epidemie. Lo spopolamento che seguì la peste europea nel tardo Medioevo, ad esempio, stimolò l’intensificazione della produzione agricola e alimentare proprio per via della carenza di forza-lavoro da impiegare in agricoltura e allevamento. Nello stesso periodo, le epidemie esportate dai colonizzatori europei nelle Americhe contribuirono a decimare i nativi e a liberare terreni per l’espansione del sistema capitalistico-mercantile su scala mondiale. Sembra quasi che, ogni volta che una pestilenza si abbatte sulle nazioni e fa terra bruciata, il capitalismo trovi spazio fertile per propagarsi ancora più brutalmente: anche l’affievolirsi della pandemia di Covid-19 ha visto un simile trionfo del “capitalismo di ritorno”, più spietato e inacidito di prima – un esito opposto al “capitalismo morente” profetizzato da Slavoj Žižek e altri intellettuali anti-sistema all’alba della pandemia.
Nella seconda parte del libro, Chuang smonta poi un altro mito centrale nella narrazione ufficiale della pandemia, ovvero la convinzione che la Cina abbia contenuto il contagio meglio di altre nazioni, e che ciò sia stato possibile per merito delle istituzioni autoritarie e della capacità repressiva dello Stato-partito. Per Chuang si tratta di un racconto propagandistico che il governo cinese ha fabbricato su se stesso per dirsi essenziale alla sopravvivenza dell’intera nazione, e che per poco non ci ha persuasi: la Cina come Paese della politica “zero Covid”, degli ospedali prefabbricati eretti in tempo record per far fronte ai ricoveri, degli operatori in tuta protettiva che irrorano le strade di igienizzanti, dell’esecuzione in massa di tamponi ad ogni nuovo focolaio, dei compound inaccessibili e del contact tracing più esasperato, invadente e coercitivo. Misure draconiane ma apparentemente efficaci, considerate in patria una rivincita del sistema cinese e ammirate all’estero come modello da imitare.
Secondo la ricostruzione di Chuang, è stata al contrario la fortuna, più che la capacità, a salvare da subito il governo cinese: la fortuna che un singolo punto di origine fosse identificato così velocemente, e che la pandemia scoppiasse giusto prima del Capodanno cinese, quando centinaia di milioni di persone si sarebbero messe in viaggio propagando il virus in ogni periferia dell’impero di mezzo. Nelle interviste raccolte da Chuang dopo il durissimo lockdown di Wuhan ciò che emerge con più forza sono la censura e l’immobilismo del governo nella prima reazione alla pandemia, la totale inconsapevolezza dell’emergenza in corso da parte dei cittadini e i maldestri tentativi dello Stato di insabbiare gli allarmi, lo spaesamento nell’applicazione di misure esageratamente punitive, il panico per il capitalismo che d’improvviso si ferma, le speculazioni degli industriali e la miseria dei mingong, infine l’evidente contraddizione tra la necessità di contenere la pandemia e le pressioni per riaprire le fabbriche in fretta e furia.
A detta di Chuang il governo cinese si è palesato in tutta la sua drammatica incompetenza fin da quando ha complicato la situazione mettendo a tacere Li Wenliang, medico e whistleblower della prima ora che aveva tempestivamente denunciato la diffusione del Coronavirus, e di lì in avanti ogni mossa della macchina statale non è stata altro che un ulteriore esercizio di profonda inettitudine. “Benché le infrastrutture epidemiologiche abbiano operato con relativa efficienza, identificando il virus, rintracciando la sua origine geografica e processando i test a tampone su larga scala in tempi record”, riconosce Chuang, “l’infrastruttura sociale del controllo pandemico si è dovuta confrontare con la sostanziale spaccatura dello Stato cinese”.
Sembra quasi che, ogni volta che una pestilenza si abbatte sulle nazioni e fa terra bruciata, il capitalismo trovi spazio fertile per propagarsi ancora più brutalmente.
Come notato da Gabriele Battaglia, la governance in Cina alterna da sempre fasi di accentramento e decentramento, in un sottile gioco di equilibri: rimane impraticabile realizzare una piena direzione centralizzata, col potere che si irradia per cerchi concentrici da Pechino a ogni angolo di un Paese da quasi un miliardo e mezzo di persone, ma al tempo stesso demandare la leadership ai funzionari locali in un sistema eccessivamente decentralizzato comporterebbe dei seri rischi per l’autorità del partito. Nel suo diario pandemico dalla Cina, Massa per velocità (2021), lo stesso Battaglia racconta come, con l’emergenza sanitaria ormai già fuori controllo, il governo cinese sia corso ai ripari mobilitando gli organi amministrativi locali e riabilitando i comitati di condominio e di quartiere, un vecchio retaggio del maoismo. L’obiettivo era estendere verticalmente l’autorità dello Stato e collegare le minuscole unità di controllo territoriale agli apparati della burocrazia centrale, ma a giudizio di Chuang una simile strategia di governance ha mostrato presto tutti i suoi limiti: “il contenimento ha coinvolto la catena di comando verticale, ma qualsiasi decisione trasmessa attraverso la catena è stata lenta, incompleta e spesso contraddittoria”.
Se la situazione non è sprofondata nel caos, afferma Chuang, è stato grazie alla mobilitazione orizzontale, volontaria e di massa della gente comune: più che per il potere onniveggente e quasi magico dello Stato-partito, “la pandemia in Cina è stata contenuta soprattutto perché la maggior parte delle persone si è seriamente impegnata nel tentativo, anche solo passivamente”. Nelle diverse fasi dell’emergenza sono sorte svariate iniziative popolari di volontariato, reti di solidarietà, forme mutualistiche di aiuto nei quartieri, attività di coordinamento autogestite dalla popolazione studentesca e altre modalità clandestine e compensative di auto-organizzazione della società civile che hanno contribuito a tenere in piedi il famigerato “modello cinese”, altrimenti fallimentare.
Per Chuang tutto questo mutualismo dal basso ha pesato molto, addirittura più della reazione impacciata e inconsulta del governo centrale, così come ha pesato l’adesione acquiescente dei cittadini alle misure contenitive, violabili di per sé in qualsiasi momento, e rispettate forse più che altrove per il primato accordato dall’etica confuciana all’ordine sociale rispetto alle libertà individuali. Sul fatto che sia stata la mobilitazione popolare a rendere efficace le politiche di contenimento in Cina molti commentatori hanno taciuto, motivo per cui Chuang critica apertamente quello che ad oggi è il racconto più noto della letteratura pandemica, Wuhan. Diari da una città chiusa (2020) della scrittrice Fang Fang: un libro che sì, affronta i nodi della censura, della malagestione e del controllo panottico e pervasivo dello Stato cinese, ma non si esprime minimamente sul ruolo giocato dalla società civile.
Sembra una questione marginale, non lo è: da sempre la dottrina comunista si sfrangia in statalismo e autonomia popolare, dirigismo e mutualismo, stringersi a coorte attorno allo Stato o mobilitarsi contro di esso. La spaccatura diviene ancora più rilevante nei momenti di crisi, quando lo Stato appare improvvisamente come un rifugio: è al suo potere organizzativo e regolatore, ma anche alla sua benevolenza e imparzialità, che ci si sottomette hobbesianamente per trovare salvezza, protezione, sicurezza, giustizia. Secondo il filosofo Alberto Toscano, durante la pandemia si è manifestato chiaramente questo “desiderio di Stato”, sebbene non senza ambiguità: c’è sempre il rischio che lo stato di eccezione porti a legittimare un’eccessiva concentrazione del potere in un organismo sovrano, o che in nome della biosicurezza e della salute collettiva governi con tendenze autoritarie ne approfittino per introdurre misure repressive o per far retrocedere ulteriormente il fronte dei diritti individuali, come per altro polemizzato nel controverso A che punto siamo? (2020) di Giorgio Agamben.
In Cina lo Stato ha spento i focolai e sedato il malcontento nei quartieri in lockdown con misure analoghe a quelle adottate nei casi estremi di contro-insurrezione, e al tempo stesso ha colto l’opportunità della pandemia per sviluppare nuove tecniche di controllo sociale da esercitare in futuri episodi di sommossa, dalle mobilitazioni per l’indipendenza di Hong Kong ai campi di rieducazione dello Xinjiang. “L’incompetenza basilare del governo cinese l’ha costretto ad affrontare il virus come se si trattasse di una rivolta popolare”, conferma Chuang, “mettendo in scena una guerra civile contro un nemico invisibile”. Pur nella disgrazia, Covid-19 è stata l’occasione per testare nuove tecnologie di tracciamento e per abituare la popolazione a una logica della sorveglianza sempre più intrusiva.
Se la situazione non è sprofondata nel caos, afferma Chuang, è stato grazie alla mobilitazione orizzontale, volontaria e di massa della gente comune.
L’analisi di Chuang si ferma al primo anno di pandemia, e non fa dunque alcun riferimento alle centinaia di contestazioni successive all’imposizione di lockdown selettivi durante la seconda e la terza ondata pandemica – a riprova di quanto la tendenza alla disobbedienza sia radicata in Cina almeno quanto quella all’obbedienza. Se il libro fosse riscritto oggi, con ogni probabilità Chuang continuerebbe a rifiutare l’immagine di uno Stato che, nella gestione di crisi ed emergenze, prende in mano la situazione e fa tutto da solo, senza l’apporto dei movimenti grassoroots e la partecipazione della società civile a rendere davvero efficaci le politiche del governo.
Nel suo libro sulla pandemia, Malm sostiene invece la tesi contraria: fare ciò che “lo Stato avrebbe dovuto fare” è un “segno meno, non un più”, scrive a proposito delle iniziative popolari emerse durante la pandemia per smarcarsi dal pericolo corso da Chuang di sopravvalutare il ruolo dell’autonomia popolare nella trasformazione dello status quo. C’è chi per questo ha accusato Malm di sostituire il feticcio dell’anarchismo e del mutualismo con il feticcio speculare: quello dello Stato leninista e illuminato che si appropria di ogni potere e mette al bando il mercimonio di carne selvatica, gli allevamenti industriali e le emissioni di gas serra per il bene dell’umanità tutta. La verità forse e come sempre sta nel mezzo, tra Malm e Chuang: per arginare le crisi future, sanitarie o ambientali che siano, occorrerà riporre fiducia in uno Stato responsabile, coraggioso e irreprensibile, fiancheggiato però dalle pratiche solidaristiche e democratiche della società civile, da cui possa trarre la capacità di giudizio e la forza d’azione che altrimenti gli mancano.