L a storia dell’umanità degli ultimi 100.000 anni rappresenta lo sforzo della nostra specie per emanciparsi dalla natura, piegarla a nostro uso e avere un’esistenza meno precaria: al momento sembra che la vittoria sia indiscutibile. Tale è il successo ottenuto che c’è naturalmente qualcuno che ne abusa e, di conseguenza, c’è qualcun altro che pensa che il rimedio per evitare questi abusi sia tornare ai bei tempi andati del paleolitico. Quando la vita media era di trentatré anni, un bambino su tre non arrivava ai quindici anni e coloro che ci riuscivano avevano una speranza di vita complessiva intorno ai cinquantaquattro anni.
Nei paesi industrializzati abbiamo un problema con il cibo, mangiamo troppo e male. Non tutti i nostri geni hanno ancora recepito che abbiamo smesso di essere cacciatori-raccoglitori da 10.000 anni e che ora se vogliamo nutrirci basta andare al supermercato o al ristorante più vicino. Ciononostante, molto è cambiato. Per esempio circa 5.000 anni fa abbiamo cominciato a digerire il lattosio in età adulta, non tutti, ma molti in Europa. Certo, è cambiato anche il clima, ora fa molto più caldo rispetto a 20.000 anni fa, e di conseguenza abbiamo bisogno di meno calorie e meno proteine. Non dimentichiamo che questi aggiustamenti si ottengono facilmente in 800 generazioni grazie al potenziale adattativo, all’epigenetica, alla deriva genetica, a effetti del fondatore e così via, senza dover aspettare le lente mutazioni del DNA. La contraddizione tuttavia dell’esserci evoluti per centomila anni come cacciatori-raccoglitori ed essere diventati “da poco” (evolutivamente parlando) coltivatori e allevatori può essere significativa in alcune popolazioni, manifestandosi in obesità, malattie cardiovascolari e disturbi alimentari assortiti.
Era il 1975 quando il gastroenterologo americano Walter Voegtlin pubblicò il suo libro “La dieta dell’età della pietra” in cui, ignaro all’epoca dell’esistenza di adattamenti evolutivi rapidi che prescindessero dalle mutazioni, e forte di concetti “recenti” come quello di ecologia, proponeva il ritorno a una dieta paleolitica, poiché “contro natura non si può andare”, come dice nella sua prefazione. Il presupposto di base (errato, siamo e siamo sempre stati onnivori, tutti i primati superiori lo sono a eccezione di gorilla e oranghi, vegetariani) era che ci fossimo evoluti come specie strettamente carnivora che era passata al consumo di vegetali dopo l’invenzione dell’agricoltura. Non è chiaro perché dei carnivori stretti avrebbero dovuto iniziare a coltivare piante, ma il risultato dell’agricoltura, secondo Voegtlin, è che mangeremmo troppi alimenti inadatti al nostro apparato digerente, e da qui deriverebbero gli scompensi metabolici sofferti da molti americani, come l’obesità. Il libro di Voetglin fu riscoperto circa un quarto di secolo dopo, quando nel 2002 il nutrizionista Loren Cordain pubblicò “The Paleo Diet” il “manifesto ideologico” di questa dieta “secondo natura”. L’idea di base di Cordain è di eliminare tutto quello che ritiene sia stato introdotto nelle nostre diete dopo l’invenzione dell’agricoltura, cereali, derivati del latte, legumi, zuccheri, sale, tè, caffè, bibite gassate, alcol, grassi raffinati, lasciando solo carne, pesce, uova, alcune verdure, frutta, noci e “oli salutari”. L’idea è diventata molto popolare in tutto il mondo, ma la sua efficacia nel migliorare la nostra salute e soprattutto la sua attendibilità scientifica è nulla, e anzi potrebbe addirittura essere dannosa.
L’idea di base della paleodieta è di eliminare tutto quello che sia stato introdotto nelle nostre diete dopo l’invenzione dell’agricoltura: cereali, derivati del latte, legumi, zuccheri, sale, tè, caffè, alcol.
Ma in effetti, cosa mangiavano i nostri antenati del paleolitico? Bisogna innanzitutto capire di cosa stiamo parlando. Il Paleolitico, l’“età della pietra”, coincide più o meno con il Pleistocene, un’epoca durata da 2.6 milioni di anni fa sino alla fine dell’ultima era glaciale, 10.000 anni fa. In questo lunghissimo periodo ci sono state quattro ere glaciali principali seguite da altrettanti periodi interglaciali e un gran numero di periodi glaciali minori. I continenti continuavano a spostarsi, l’America si allontanava, il Mediterraneo si chiudeva, il Tibet e le Alpi si innalzavano, la Pianura Padana si riempiva, le specie si evolvevano, si estinguevano, migravano.
È in questo periodo che in Africa si evolvono Homo habilis, Homo erectus, Homo ergaster, Homo heidelbergensis, Homo neanderthalensis, Homo sapiens, per citarne alcuni. Quando i nostri antenati migrarono fuori dall’Africa diverse specie coesistevano: Homo erectus, Denisova e dopo Homo sapiens in Asia, Homo heidelbergensis, Homo neanderthalensis e poi Homo sapiens in Europa. In tutta questa giravolta di specie, climi e continenti certamente non c’era una dieta fissa – mercoledì due uova alla coque, filetto di manzo, insalata e succo d’arancia. Non c’erano neanche i manzi, per non parlare delle arance e dell’insalata coltivate. I nostri antenati mangiavano quel che trovavano, e quel che trovavano dipendeva da dove e quando.
Per amor di semplicità, concentriamoci sull’Europa degli ultimi 40.000 anni, in piena era glaciale. I Neanderthal, a causa del freddo e della localizzazione settentrionale, erano specializzati nella caccia a grandi erbivori terrestri. Rispetto a Homo sapiens pare avessero tassi metabolici più elevati e minore efficienza nel termoregolare, e quindi serviva loro più cibo. Secondo uno studio condotto da Bryan Hockett del Bureau of Land Management del Nevada una donna Neanderthal in gravidanza aveva bisogno di almeno 5.500 kcal al giorno, oltre il doppio rispetto a una donna moderna. Un fabbisogno da esploratore polare equivalente a 10 cheesburger grandi al giorno, che renderebbero più che obesa qualunque seguace delle paleodiete moderne. Per chi si volesse cimentare, bisogna ricordare che sfortunatamente i cheeseburger non esistevano, quindi lo stesso studio propone la seguente paleodieta neandertaliana: 2,7 kg di bisonte, mezzo chilo di costolette di cervo e di coda di uro, 60 grammi rispettivamente di cervello, fegato, e lingua, 120 di stomaco, un coniglio intero, 60 grammi di midollo. Togliendo le parti non edibili questo equivale a 2.5 kg di carne al giorno, di cui il 40% sono grassi.
I Neanderthal erano specializzati nella caccia a grandi erbivori terrestri. Rispetto a Homo sapiens pare avessero tassi metabolici più elevati e quindi serviva loro più cibo.
A causa della supposta mancanza di vegetali, carboidrati, vitamina C, acido folico, calcio, zinco e potassio sono sotto rappresentati in questa ipotetica dieta neandertaliana e non compatibili con la sopravvivenza, mentre le proteine sono in quantità troppo elevate, tossiche per un essere umano moderno per via dell’accumulo di acidi urici, e così pure la vitamina A. Dato che i Neanderthal sono vissuti in Europa per 250.000 anni, è probabile che il consumo di materiali di origine vegetale fosse molto più alto, o che il fabbisogno calorico giornaliero fosse più basso. Certamente nella parte meridionale dell’areale dei Neanderthal, Spagna e sud Italia, c’era anche consumo di pesce, mammiferi marini, conchiglie e piante per introdurre almeno iodio e omega 3, ma nel centro della Germania, all’epoca una tundra ghiacciata che pullulava di mammuth, l’unica fonte di acidi grassi monoinsaturi era probabilmente il midollo estratto dalle ossa. Complessivamente, una dieta piuttosto sbilanciata per creature evolutesi in Africa. O dobbiamo postulare diete “paleo” molto più ricche di vegetali o dobbiamo ipotizzare che una delle cause di estinzione dei Neanderthal fosse una dieta inadatta.
Dopo l’estinzione dei Neanderthal, 25.000 – 30.000 di anni fa, i sapiens più o meno moderni che vivevano in Italia erano alti, forti, robusti e godevano di ottima salute. Uno dei Cro-magnon trovato nelle grotte dei Balzi Rossi in Liguria, l’uomo di Mentone, risalente a circa 25.000 anni fa, era alto 1.90 m, ed è stato sepolto con un copricapo di conchiglie forate e denti di cervo, e così pure il suo “collega” della Barma grande, anche lui 1.90 m con ossa degli arti superiori molto sviluppate. Dall’altro lato d’Italia la donna di Ostuni, in Puglia, una sapiens moderna risalente a 27.000 anni fa, era alta 1.70 m, robusta e con una dentatura in perfette condizioni alla morte, sui 20 anni, per problemi legati a una gravidanza. Anche lei aveva un copricapo di conchiglie forate e denti di cervo, quindi ungulati e forse molluschi erano parte della dieta di questi nostri antenati. “Ad Agnano, dove sono stati ritrovati i resti della donna”, dice Donato Coppola, direttore del museo delle Civiltà Preclassiche della Murgia Meridionale di Ostuni, “si consumavano carni di cavallo (70%) ed uro (30%) oltre naturalmente a tutto ciò che di vegetale offriva la natura, difficilmente documentabile”.
L’Italia, specie il sud, era un rifugio per le specie che cercavano di sfuggire al freddo della glaciazione e di conseguenza la biodiversità italiana era altissima. Tra le tante specie presenti si annoverano cervi, cavalli selvatici (detti tarpan, oggi estinti), l’estinto asino idruntino, l’uro, antenato dei bovini moderni, anch’esso estinto, lepri, volpi, ghiottoni e persino mammut e rinoceronti lanosi nel Salento. Tra gli uccelli c’era l’alca impenne, oggi estinta, strolaghe minori e mezzane, cigni selvatici, morette codone, orchetti marini, pesciaiole e molti altri uccelli che oggi prediligono la taiga o zone oceaniche temperate o fredde, a nord della Gran Bretagna. Per farla breve, gli italiani vissuti intorno al picco glaciale, 26.000 anni fa, mangiavano bene. Non ci sono evidenze di pesca sino al paleolitico superiore in Italia, sebbene siano stati trovati in Giappone ami di 23.000 anni fa. D’altro canto, nella grotta Paglicci, in provincia di Foggia, sono state trovate prove di raccolta e utilizzo dell’avena: un pestello con resti fossili di amido ci racconta di un utilizzo dei cereali di oltre 20.000 anni precedente l’invenzione dell’agricoltura nella mezzaluna fertile, e di una insospettata capacità di elaborazione dei cereali, che venivano seccati al calore prima di trasformarli in farina.
Osservando i resti di coltivatori e allevatori del neolitico, sappiamo che mangiavano molto peggio dei loro predecessori: l’altezza diminuisce, i denti cadono, le ossa si fanno più fragili.
Nel sito di Bilancino II (Firenze), 25.000 anni fa si macinavano con mortai i rizomi di Typha, la canna palustre, di felce, e di diverse altre graminacee selvatiche. Non c’era olio, perché per la domesticazione dell’olivo, avvenuta in Medio Oriente tra 8.000 e 6.000 anni fa, dobbiamo attendere svariate migliaia di anni, ma c’erano grassi animali in abbondanza. Non c’erano agrumi, quasi tutti di provenienza asiatica e non c’erano ovviamente tutte le piante americane come pomodori, patate, mais, peperoni e melanzane e cacao. Qualche legume c’era, per esempio il pisello selvatico e forse le fave, di cui non si trova l’antenato selvatico. Ma soprattutto, c’erano decine di specie, animali e vegetali, che oggi sono andate perse.
Non abbiamo idea del tasso di estinzione delle specie al passaggio tra il paleolitico e il neolitico, ma sicuramente i cambiamenti climatici causati dalla fine della glaciazione, l’innalzamento del livello del mare di molti metri e l’antropizzazione dovuta all’agricoltura che richiedeva il taglia e brucia delle foreste deve aver pesato moltissimo. Questo vuol dire che così come sono scomparsi l’uro, l’asino idruntino, il cavallo selvatico, l’alca impenne, il mammut e tanti altri animali, sono anche scomparse moltissime specie vegetali che sicuramente gli uomini del paleolitico sapevano sfruttare. Una ricostruzione precisa di quel che poteva davvero essere la dieta sapiens e neanderhtal del paleolitico è pertanto quasi impossibile, dal momento che è impossibile ricostruire i valori nutrizionali di specie che non conosciamo. Sappiamo però che coltivatori e allevatori del neolitico mangiavano molto peggio dei loro predecessori, e lo sappiamo osservando i loro resti. L’altezza diminuisce, i denti cadono, le ossa si fanno più fragili.
Il parco archeologico di Santa Maria di Agnano, a una quarantina di chilometri da Brindisi, è un’area abitata ininterrottamente dall’uomo a partire da almeno 30.000 anni fa, forse prima, un luogo di culto ininterrotto. Osservando le sepolture ritrovatevi, custodite nel Museo di Civiltà preclassica della Murgia Meridionale a Ostuni, si può avere uno spaccato dello stato di salute degli abitanti della zona dal paleolitico ad oggi, e il salto di qualità dei resti ossei dal regime dei cacciatori-raccoglitori a quello dei coltivatori-allevatori è brusco. Questo però non significa che mangiare grano coltivato faccia male alla salute, ma solo che la vita stanziale portava ad avere più figli che aiutassero col raccolto, e che maggiore densità di popolazione dove non ci sono più molti animali da cacciare significa avere alla fine meno cibo e più malattie per tutti. Un problema tuttavia che sembriamo avere brillantemente risolto, dato che oggi siamo sette miliardi.
Un fattore chiave su cui riflettere quando si compara il fabbisogno nutrizionale odierno con quello del paleolitico sono l’“etologia” della nostra specie e le abitudini sociali.
Un fattore chiave che dovrebbe far riflettere quando si compara il fabbisogno nutrizionale odierno con quello del paleolitico è pertanto l’“etologia” della nostra specie, e le abitudini sociali. In assenza di automobili, strade, ascensori, smartphone, armi da fuoco e tutto quello che la tecnologia fa per noi, gli uomini e le donne vissuti 40.000 o 20.000 anni fa facevano molta più attività fisica. La separazione dei ruoli era minima e le donne contribuivano tanto quanto gli uomini alla caccia. La cattura di un grosso erbivoro non era semplice e tutto il villaggio doveva contribuire, inclusi anziani, bambini e donne incinte, e anche raccogliere canne palustri o avena in mezzo alla tundra artica per avere un po’ di carboidrati richiedeva grandi sforzi. Le prede catturate erano specie selvatiche povere di grassi e i vegetali avevano semi e tuberi molto più piccoli di quelli odierni selezionati, difficili da raccogliere. Molto diverso è il caso degli animali addomesticati, selezionati nel corso degli ultimi 10.000 anni per fornire più grassi e proteine possibile, o dei vegetali coltivati che producono moltissimi carboidrati con relativamente poco sforzo. I polli moderni discendono da una specie asiatica molto piccola rispetto a una moderna gallina da carne, e mangiare del petto di pollo oggi è molto diverso dal mangiare una folaga nel paleolitico, dal punto di vista di grassi e proteine assunti, e di calorie spese per procacciarsi il cibo.
In conclusione, se avete bisogno di perdere peso, non fatevi affascinare da sconclusionati regimi alimentari nostalgici del tempo in cui l’assideramento era una normale sconvenienza e al posto del micio di casa c’erano le tigri dai denti a sciabola. L’archeologia e l’ecologia raccontano cose molto differenti da Cordain e Voegtlin, che di queste diete hanno fatto un business milionario. Spegnete il pc, mangiate più verdure, andate a fare due passi e pensate alla fortuna che abbiamo nell’avere la cena pronta in frigo.