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egli ultimi anni, l’interesse per la Traditional Ecological Knowledge (TEK), tradotta in italiano come conoscenza ecologica tradizionale, ha visto una continua ascesa all’interno dell’accademia e del mondo della ricerca. Definito come un corpo cumulativo di conoscenza, saperi, pratiche e credenze sulle relazioni tra esseri viventi e il loro ambiente, evolutosi tramite processi adattativi e trasmesso di generazione in generazione per via culturale, la Traditional Ecological Knowledge sta progressivamente guadagnado – soprattutto nel mondo anglofono – spazio nei dibattiti pubblici, nelle conferenze di ecologia e nelle politiche di conservazione della natura e della biodiversità. Il tema è però intricato e complesso. Da un lato c’è chi pone l’enfasi sulle differenze epistemologiche tra TEK e conoscenza acquisita tramite metodi scientifici ortodossi, e pensa sia importante trattare la conoscenza indigena come un sapere non scientifico, continuando a relegarla al di fuori dell’accademia e della ricerca. Dall’altro, si osserva una crescente spinta che arriva proprio dall’interno del mondo della ricerca, una spinta all’integrazione di saperi e prospettive, in particolare rispetto alla conservazione di territori e ecosistemi, che mira a riconoscere il valore della conoscenza acquisita sul territorio, di generazione in generazione, da parte di chi da sempre se ne definisce custode.
Quando la comunità scientifica ha effettivamente iniziato a rivolgere l’attenzione alle pratiche di amministrazione del territorio dei popoli indigeni in varie parti del mondo, ha scoperto molte cose interessanti. Esistono molti casi, infatti, in cui l’impatto di questi popoli sugli ecosistemi non soltanto è ridotto e sostenibile, ma è anche in grado di aumentare la biodiversità e la ricchezza ecosistemica.
In termini biologici questo processo viene definito costruzione di nicchia, e rappresenta un processo ricorsivo a due vie, in cui un organismo modifica l’ambiente in cui vive e quindi anche la nicchia ecologica che occupa, modificando di conseguenza anche le pressioni ecologiche e evolutive che subisce. È il caso, per esempio, di molti popoli aborigeni dei deserti dell’Australia centro-occidentale che da sempre mantengono un rapporto molto stretto con l’uso del fuoco e che storicamente fanno uso di incendi controllati per creare mosaici di aree a stadi diversi di ricrescita, al fine di aumentare la quantità di risorse e di biodiversità.
Nicchie, scienza e Tjukurpa
Nel 2013, un gruppo di ricercatori pubblicò uno studio sulla prestigiosa rivista scientifica della Royal Society di Londra, quantificando l’effetto della caccia con uso del fuoco degli aborigeni Martu, nativi del piccolo deserto sabbioso (Little Sandy desert) dell’Australia orientale. I ricercatori avevano scoperto che tra il 1950 e il 1970, all’arrivo delle prime missioni cattoliche e del conseguente abbandono del deserto da parte degli aborigeni Martu, erano seguite l’estinzione locale di decine di specie native e il declino di 43 specie, mentre il territorio era stato messo in ginocchio da numerosi e violenti incendi. Quando, a distanza di circa vent’anni, gli aborigeni Martu avevano poi ripreso possesso delle loro terre native e con esse anche della loro amministrazione tramite uso tradizionale del fuoco, si assisté a un percorso di ripristino della biodiversità e di recupero degli ecosistemi ormai degradati del Little Sandy Desert.
Tuttavia, nonostante gli esiti benefici delle pratiche di amministrazione degli ecosistemi e della biodiversità condotte dagli aborigeni australiani e da molti altri popoli indigeni nel mondo siano stati quantificati secondo i criteri e i metodi della scienza occidentale (misurazione, esperimenti e riproducibilità), la cornice teorica e epistemologica tra i due mondi non potrebbe essere più distante. Nozione centrale per i popoli indigeni in Australia, infatti, è quella di dreaming o Tjukurpa (nelle lingue indigene del deserto australiano). Il Tjukurpa è un concetto complesso, che comprende il sapere tradizionale, la legge culturale, le relazioni tra persone – e tra persone e altre specie –, la storia e la vita quotidiana, e le songlines, sistemi tradizionali per navigare il territorio, tramandati oralmente in forma di canti durante riti cerimoniali. Questi elementi, tutti insieme, permettono alle forze creative sprigionate dagli esseri antenati ancestrali di rivivere e mantenere ordine nel mondo. E quando queste pratiche sono interrotte il mondo ne soffre e si ammala, come nel caso degli indigeni Martu, e della pausa dall’uso del fuoco (parte fondamentale del Tjukurpa), con conseguente collasso degli ecosistemi.
L’importanza del Tjukurpa e di come questo concetto sia intrinsecamente connesso alla società indigena e alle sue terre mi si manifesta chiaramente quando attraverso per la prima volta i deserti dell’Australia centrale. Il Tjukurpa regola la possibilità di accedere a luoghi e definisce i tempi per visitarli, e in presenza di chi. Alcuni animali possono essere cacciati solamente in alcuni periodi dell’anno e in alcune specifiche aree. Lo stesso avviene con l’uso del fuoco e con la raccolta delle piante, come mi spiega Ellen Ryan, dottoranda dell’università di Darwin, che studia l’effetto e la percezione di alcune specie invasive sulle comunità indigene.
Con Ellen e il suo compagno Luke, che come lei segue progetti di conservazione a due vie, a cavallo tra accademia e comunità indigene, ci dirigiamo, a bordo di un fuoristrada, verso l’interno delle terre indigene Aṉangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara, dove entrambi lavorano. Ellen e Luke parlano la lingua Pitjantjatjara e si sono offerti di farmi da interprete nelle comunità. Il cielo blu elettrico, senza nuvole, contrasta con la sabbia rossa su cui viaggiamo. Al nostro passaggio si alzano in volo grandi stormi schiammazzanti di cocorite verdi e rumorosi gruppi di diamanti mandarini, conosciuti rispettivamente come kiilykiilykari e nyii-nyii in lingua locale, parole onomatopeiche che richiamano le vocalizzazioni di questi uccelli.
Luke li osserva con il binocolo. È un buon segnale, dice. La stagione delle piogge è appena finita e il deserto brulica di vita. Dobbiamo rallentare per evitare di scontrarci con una famiglia di emu che attraversa la strada lentamente. Intorno a noi si estendono boschi di Mulga (Acacia aneura), acacie del deserto (Olneya tesota) e cespugli di Spinifex (Triodia), una pianta spinosa che offre rifugio a molte specie del deserto australiano e che i popoli nativi da sempre utilizzano per costruire rifugi e per estrarre una potente colla naturale. Più in là si scorgono montagne di granito rosso, che emergono dal deserto come giganti solitari. Sono un luogo sacro per le donne, mi dice Ellen, a cui gli uomini non hanno accesso.
Ci fermiamo lungo la strada. Ellen mi mostra l’oggetto del suo progetto di ricerca: una pianta graminacea di origine africana, chiamata Nappola perenne (Cenchrus ciliaris). È una specie invasiva, una vera e proprio piaga che sta mettendo a rischio gli ecosistemi locali. I suoi semi vengono sparsi dai veicoli lungo le strade. Poi una volta che ha attecchito lungo i margini, la pianta inizia a diffondersi e a colonizzare l’intero ecosistema, facendo scomparire tutte le piante native, molte delle quali hanno un’importanza fondamentale per la vita tradizionale degli Aṉangu (parola con cui i popoli indigeni di lingua Pitjantjatjara e Yankunytjatjara, dove mi trovo, si autodefiniscono). La cosa peggiore, aggiunge, è che la pianta è estremamente resistente al fuoco, avendo delle radici profonde, e tende ad avere la meglio anche sulle piante native, nonostante queste siano adattate agli incendi da decine di migliaia di anni. Questo adattamento, aggiunge Ellen, è una strategia che attacca al cuore i sistemi tradizionali di amministrazione e cura del territorio tramite l’uso del fuoco regolati dal dreaming e gli Aṉangu ne sono sconvolti.
Introdotta in Australia centrale negli anni Cinquanta e Sessanta, a seguito di lunghi periodi di siccità, per prevenire l’erosione del terreno e ridurre le tempeste di sabbia, questa pianta ha trovato in Australia un facile terreno di diffusione. Ora è attivamente monitorata dalle ranger indigene delle comunità Pitjantjatjara Yankunytjatjara, insieme ai ricercatori dell’università di Darwin e del governo del South Australia, che lavorano in modo congiunto per trovare una soluzione al problema.
Acque sacre
Il giorno successivo, accompagnati da tre ranger Aṉangu, ci rechiamo a visitare una delle pozze d’acqua permanenti, un luogo sacro e nascosto in una gola rocciosa, a qualche ora di distanza dalla comunità. Lungo la strada incontriamo decine di carcasse d’auto abbandonate e bruciate dal sole, come fantasmi nel deserto. Nelle comunità Aṉangu, mi spiegano, non esiste la proprietà privata, che le tre ranger Aṉangu definiscono un modo di pensare tipico dei bianchi. Le poche auto a disposizione sono condivise tra varie famiglie e vengono utilizzate per visitare luoghi sacri, andare a caccia, fare visita ad altre famiglie e organizzare cerimonie. Tuttavia, il deserto logora e consuma rapidamente le auto, che non potendo essere riparate a causa dell’assenza di materie prime, vengono infine abbandonate. Dove possibile, le auto abbandonate vengono smontate, e i pezzi sono presto riciclati a bordo di altre auto che, seguendo un peculiare ciclo, tendono poi a guastarsi a loro volta e a giacere dimenticate in qualche strada polverosa nel deserto. Questa carenza di mezzi, si lamenta Sonia, una delle tre ranger, è un grave problema che affligge la comunità, in cui le persone soffrono la ridotta possibilità di muoversi all’interno del proprio stesso territorio.
Lasciamo il fuoristrada alle pendici di una gola rocciosa, che risaliamo lungo un sentiero stretto. Ellen e le ranger, preoccupate per la rapida diffusione di nappola perenne nella gola e nei pressi della pozza, mappano alcune di queste piante con un GPS. Sonia mi fa notare come la diffusione della nappola perenne stia rapidamente causando il declino di numerose piante di grande importanza culturale (bush medicine), come il bush tomato (Solanum sp) e irmangka-irmangka (Eremophila alternifolia), una piante dalle importanti proprietà curative per la pelle.
In una fetta della comunità scientifica si osserva da anni una crescente spinta all’integrazione di saperi ecologici che mira a riconoscere il valore della conoscenze indigene acquisite sul territorio.
Le pozze d’acqua e le piante medicinali occupano un ruolo importantissimo nel Tjukurpa, che ne regola l’uso, il consumo tramite canzoni, danze, cerimonie e arti figurative. Nell’arte tradizionale indigena, infatti, le pozze d’acqua nel deserto e le piante medicinali rappresentano un tema ricorrente a fianco di animali totemici e scene di caccia. L’arte figurativa dei popoli aborigeni australiani, sulla quale si fondano attualmente gli interessi milionari di un mercato d’arte internazionale in continua crescita, rappresenta un’istantanea senza tempo del Tjukurpa: vie dei canti che collegano luoghi di importanza culturale e ecologica, aree dove trovare piante e animali, alcuni ormai di fatto estinti ma ancora presenti nelle narrazioni e storie collettive.
Nuove antiche politiche di conservazione
Il modo in cui il Tjukurpa si articola nello spazio, mi dice Ellen, può giocare un ruolo cruciale nella protezione di aree dall’importante valore ecologico-biologico e culturale. Molto spesso, infatti, le aree sacre coincidono con luoghi ad alta biodiversità. È il caso delle pozze d’acqua dove ci troviamo, che rappresentano delle vere e proprie oasi, da cui dipende la sopravvivenza di molte specie del deserto. In effetti, mentre l’intenso chiacchiericcio di un gruppo di calopsitte (Nymphicus hollandicus) copre le nostre parole, sulla sabbia fresca, all’ombra di un gruppo di Muur-muurpa o desert bloodwood (Corymbia opaca), un albero nodoso e dalla corteccia pallida tipico dell’Australia del Nord, troviamo tracce fresche di emu, canguri, dingo e wallaby, venuti ad abbeverarsi alle pozze.
In questo senso, mi dice, le politiche occidentali di conservazione della natura, per essere davvero efficaci devono rispettare la cultura e la conoscenza locale. Non soltanto tramite interviste mirate ai membri della comunità sulla presenza di particolari specie, ma più in generale, rispettando e mantenendo vivo il Tjukurpa. E di conseguenza, quindi, anche la lingua con cui le storie del dreaming sono tramandate e tutta la complessa e intricate rete culturale di diritti e doveri che riempiono la vita culturale aborigena. Solo in questo modo il dreaming, tramandato di generazione in generazione, può vivere e proteggere luoghi e ecosistemi. Bisogna lavorare a politiche di conservazione ibride, aggiunge. Concedendo il titolo di terra protetta indigena, il governo può preservare cultura, identità e allo stesso tempo gli ecosistemi.
Effettivamente, se c’è un dato molto chiaro che è ormai preso ampiamente in considerazione dalla comunità scientifica internazionale è quello che riguarda l’importanza di includere i popoli indigeni nelle politiche di conservazione. Un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista scientifica Nature Sustainability ha ulteriormente avallato questa intuizione. Gli autori della ricerca hanno messo in evidenza come nonostante i popoli che si definiscono indigeni rappresentino meno del 5% della popolazione globale, essi siano responsabili e amministrino il 37% delle terre ancora definite “naturali”. Nello specifico, il 67% delle terre indigene è classificato dagli autori della ricerca come “naturale” (ecosistemi funzionanti), contro solo 44% delle terre amministrate da popoli non indigeni.
Prima di ritornare alla comunità, raccogliamo delle piante di tabacco mingulpa (Nicotiana) tra le rocce, una specie dal grande valore culturale per gli Aṉangu, che ne masticano le foglie contenenti un potente stimolante. Il giorno successivo portiamo le piante raccolte come offerta agli anziani della comunità. Incontro Tjulkiwa Atira Atira, una delle elders (anziane) considerata ninti pulka (sapiente) dalla comunità intera, a causa della sua profonda conoscenza del territorio, degli ecosistemi e del dreaming. Tjulkiwa Atira Atira, insieme ad altre donne anziane, ha inoltre inventato una canzone sulla nappola perenne.
Canzoni indigene
Quella delle canzoni rappresenta una pratica importante tra i popoli indigeni australiani, che collettivamente ne possiedono migliaia. Le canzoni si riferiscono a piante, animali e alle loro interazioni e costituiscono un corpus collettivo che svolge una funzione simile a quella di un inventario del sapere ecologico necessario alla sopravvivenza nel deserto.
Dopo averci cantanto la canzone, Tjulkiwa Atira Atira ci racconta della sua personale connessione con il territorio.“Ho curato la mia terra da quando ero bambina. Seguivamo le tracce di namara [il fagiano australiano, un uccello di medie dimensioni endemico del deserto] sulla sabbia… Camminavo ovunque, e gli anziani si portavano i ragazzi con sé e gli insegnavano tutto, cantando”. Così mi racconta di avere imparato le songlines.
Gli Aṉangu, dice, da sempre si prendono cura della propria terra. Poi sono arrivati i bianchi, che hanno iniziato a chiamarlo land management. Ma per gli Aṉangu questo concetto non esiste, precisa. “Ora bianchi e Aṉangu collaborano e lavorare insieme significa interessere relazioni, ngapartji-ngapartji (concetto molto importante che in lingua Pitjantjatjara significa aiutarsi a vicenda e lavorare collettivamente). Ma i bianchi devono rispettare e imparare cosa è permesso e cosa no”.
Un problema comune, di cui si lamenta la comunità, è che i ricercatori, quando arrivano, hanno spesso già delle domande in testa a cui vogliono trovare una risposta e non si preoccupano di costruire un rapporto con le persone del luogo.
Un problema comune, commenta Ellen, è che i ricercatori, quando arrivano, hanno spesso già delle domande in testa a cui vogliono trovare una risposta. Bisogna, invece, prima di tutto costruire un rapporto con le persone del luogo, per poi formulare insieme le domande giuste. Gli Aṉangu posseggono una profonda comprensione degli ecosistemi, della loro storia e dei cambiamenti nel tempo. Sanno quali specie reggono il funzionamente dell’ecosistema. Non è un caso infatti che le specie più importanti a livello ecologico occupino un posto importante nel dreaming, le cui storie e canzoni insegnano sempre qualcosa dell’ecosistema, spesso dipingendo funzioni e processi che, essendo in vigore da migliaia di anni, hanno condizionato il paesaggio stesso. Gli Aṉangu possiedono una visione ecosistemica, olistica e interconnessa delle cose, conclude.
Olismo e riduzionismo
Mi appare sempre più chiaro il significato del termine olistico riferito alle epistemologie indigene, una parola spesso abusata nei dibattiti mainstream, anche all’interno dell’accademia, e comunemente utilizzata in opposizione al concetto di riduzionismo tipico della scienza occidentale. Si riferisce all’impossibilità di separare, scorporare i vari elementi della cultura indigena. L’arte, le cerimonie, la legge, le danze, le reciproche relazioni di obblighi e doveri, regolate dalla legge del dreaming, con altri umani e animali sono parte di una rete di saperi inestricabile e indivisibile. Secondo molti accademici, la visione olistica indigena offre una rappresentazione del mondo in grado di cogliere la struttura relazionale degli ecosistemi e l’interconnessione dei processi in atto, con una capacità unica di soffermarsi sui macrofenomeni, intesi come correlazione tra eventi distanti, senza però necessariamente investigare la trama dei rapporti di causa-effetto tra gli eventi stessi. La scienza occidentale, al contrario, incentrata su una visione spesso meccanicistica, cerca di indagare le reti causali tra eventi a una grana più fine.
D’altro canto, anche il termine riduzionismo, associato comunemente al mondo scientifico nei dibattiti sull’incontro tra TEK e ricerca occidentale, non rende necessariamente giustizia alla scienza contemporanea, sempre più attenta ai sistemi complessi, alle reti e all’emergenza di regolarità all’interno di sistemi in cui processi interagiscono in modo non lineare. Tyson Yunkaporta, uno dei più importanti accademici indigeni in Australia, autore del libro Sand Talk, how indigenous thinking can save the world, trova profonde assonanze tra le scienze della complessità e il pensiero indigeno, proprio grazie alla visione interconnessa dei fenomeni che entrambe offrono.
Nel suo libro sottolinea però la grande differenza prospettica tra le epistemologie indigene e quelle della scienza occidentale: la posizione dell’osservatore. Il principio di indeterminazione della meccanica quantistica, scrive, per cui la mera presenza di un osservatore è in grado di influenzare l’esito di un esperimento, e che ha così fortemente scosso le fondamenta della fisica novecentesca, in fondo non rappresenta un ostacolo per un pensatore indigeno, il cui punto di vista si pone per definizione all’interno di un sistema, che inevitabilmente influenza con la sua stessa presenza e mai all’esterno, come nella scienza occidentale. Tyson Yunkaporta racconta come una struttura comune a molte culture indigene si articoli attraverso cinque concetti chiave: 1. Una visione relazionale della realtà e dell’apprendimento. 2. L’importanza della costruzione di storie nella memoria collettiva e nel passaggio della conoscenza. 3. L’utilizzo pervasivo delle metafore nella conoscenza (balli, danze, rituali e oggetti). 4. Una completa immersione nell’ambiente. 5. La ricerca di pattern e correlazioni all’interno di un sistema per trovare soluzioni a problemi complessi.
Molti popoli indigeni sanno insomma di essere dei guardiani, il cui compito è proteggere e tramandare alla generazione successiva il mondo come l’hanno ricevuto. Mi confronto sul tema con John Bradley, professore di cultura indigena a Melbourne. Bradley parla tre lingue indigene e per gran parte della sua carriera ha lavorato insieme a biologi e ecologi, studiando le conoscenze ecologiche dei popoli aborigeni del nord dell’Australia.
Crede che sia possibile che la scienza occidentale e le culture indigene possano dialogare, ma, sottolinea, perché questo avvenga è necessario costruire ponti epistemologici tra le due culture. Gran parte del problema, mi spiega, sta nel fatto che la scienza occidentale tende a mantenere un approccio tuttora coloniale nei confronti delle altre culture, prendendo in prestito dalla conoscenza tradizionale indigena i concetti che trova più utili, per poi reinserirli all’interno del proprio contesto epistemologico. Mancano infatti scienziati e ecologi che parlino lingue indigene e che siano in grado di comprendere a fondo la cultura da cui attingono le informazioni che cercano.
Quel giorno, uno degli anziani della comunità, dopo essere tornato da un’escursione tra le montagne, riporta ai nipoti di avere osservato un fiore del quale è certo di non possedere alcuna conoscenza. Ellen, dopo aver ascoltato attentamente la descrizione fornita dall’uomo, crede che si tratti della misteriosa orchidea del deserto, una specie rara e endemica, osservata per l’ultima volta da un botanico 35 anni prima in quella stessa area e da allora considerata estinta. Tra gli archivi, su un erbario ingiallito dal tempo, leggiamo a fatica le informazioni che lo stesso botanico ha annotato a matita molti anni prima: osservata dopo le grandi piogge. Le informazioni sono incoraggianti e la notizia si diffonde nella comunità, creando un visibile fermento tra gli Aṉangu di tutte le età.
Molti popoli indigeni sanno di essere dei guardiani, il cui compito è proteggere e tramandare alla generazione successiva il mondo come l’hanno ricevuto.
Il giorno successivo si organizza una spedizione. A bordo di tre fuoristrada, ci uniamo a un gruppo di donne e bambini per andare a cercare la misteriosa orchidea. I bambini corrono e si arrampicano tra le rocce della montagna mentre li seguiamo tra i cespugli, fermandoci all’ombra di un fico del deserto (Ficus platypoda) per assaporare uno dei suoi frutti dolci, che ricorda vagamente il sapore di una caramella di gelatina. Il sole, ancora basso in cielo, proietta delle lunghe ombre sulla pianura, al di sotto, mentre due aquile volano in circolo sopra le rocce granitiche rosse, erose dal tempo. Fino a dove si estende la vista, osservo boschi di mulga e acacie in un paesaggio rigoglioso incontaminato e mi sembra chiarissimo che, nonostante la difficoltà di reciproca comprensione tra scienza occidentale e conoscenza ecologica tradizionale indigena, abbiamo ancora moltissimo da imparare da chi da sempre si definisce custode di quel paesaggio che mi si apre davanti.