L a pandemia compare sui media per la prima volta con uno scarno comunicato della Commissione Municipale di Wuhan per la Salute, il 31 dicembre 2019, ripreso il giorno stesso da Reuters e South China Morning Post. Brevi trafiletti, quasi in imbarazzo per l’incertezza, che sono le prime gocce di un diluvio. Rapido come o più del virus, stava per dilagare il torrente di informazione sulla pandemia che ha dominato i media del pianeta per due anni, fino all’invasione russa dell’Ucraina a febbraio 2022.
Nel giro di poche settimane giornali e televisioni si sono riempiti di argomenti, fino a quel momento, esoterici per la grande maggioranza della popolazione. Il discorso di tutti i giorni si è colmato di vaccini a mRna, immunità cellulare e anticorpale, indici R0 e altri concetti di virologia ed epidemiologia, passati in un lampo dalla letteratura accademica ai talk show. Sembrerebbe la situazione perfetta per il trionfo della buona divulgazione e del giornalismo scientifico: una enorme quantità di informazioni complesse da comunicare a tutti i possibili settori di pubblico, in una situazione che è, letteralmente, di vita o di morte. Non è andata così.
In Italia esiste una comunità viva e spesso estremamente competente di comunicazione della scienza, fatta di figure molteplici e diverse: da chi cura mostre e musei, al giornalismo, a chi fa spettacoli teatrali, fino a un numero crescente di youtuber, streamer e divulgatori social. Eppure durante la pandemia i media e la politica raramente hanno attinto a questa serie di competenze che anzi, come vedremo, sono state addirittura osteggiate e messe da parte.
In Italia esiste una comunità viva e spesso estremamente competente di comunicazione della scienza, fatta di figure molteplici e diverse; eppure i media e la politica raramente attingono a questo bacino.
Il nodo centrale delle vicende degli ultimi due anni è questo: è stata comunicata tantissima scienza, ma pochissima da chi comunica scienza per mestiere. Secondo Silvia Bencivelli, giornalista scientifica, “la comunicazione della scienza, specie come settore di ricerca, chiamiamola psicologia sociale, è stata ignorata durante la pandemia, anche se avrebbe potuto indirizzare una buona comunicazione. Avremmo potuto confrontarci con l’incertezza, con le paure, usare questa letteratura scientifica per modulare la comunicazione della scienza in senso alto. Questo non è successo da parte delle istituzioni, che ci hanno ignorato”. Che cosa è successo, allora?
Un’articolazione spezzata
Possiamo pensare alla comunicazione della scienza come un’articolazione. Uno snodo attivo, e non passivo, che lubrifica e modula il rapporto tra scienza e società in entrambe le direzioni, consentendo a entrambe di muoversi in più direzioni in modo fluido e robusto.
Quest’articolazione in Italia era già debole ma, invece di irrobustirsi, durante la pandemia sembra essersi completamente spezzata. “La pandemia ha rimesso al centro della scena mediatica la figura dell’esperto ma in una versione disintermediata del rapporto tra esperto e pubblico, dove la mediazione dovrebbe essere svolta, appunto, dalla comunicazione: non necessariamente nel senso di una figura in carne e ossa di comunicatore, ma dalla comunicazione come competenza”, dice Antonio Scalari, giornalista scientifico e collaboratore di Valigia Blu.
I media italiani sono spesso, in passato, stati vittime della seduzione della “parola dell’esperto”, ovvero di una figura autorevole, o supposta tale, che possa fornire un comodo ipse dixit. L’esperto ha infatti un doppio vantaggio. Primo, è una figura di cui il pubblico di norma tende a fidarsi, in quanto ha o si suppone abbia l’autorità per parlare di un certo tema (mentre notoriamente il pubblico è molto scettico nei confronti dei giornalisti). Secondo, solleva le redazioni da uno dei principali e più faticosi compiti della comunicazione della scienza: comprendere e riassumere in modo articolato il consenso della comunità scientifica – o la mancanza di esso – su un tema. Ma le soluzioni facili a problemi complessi, si sa, sono spesso sbagliate.
I media italiani sono spesso, già in passato, stati vittime della seduzione della “parola dell’esperto”: una figura autorevole, o supposta tale, che possa fornire un comodo ipse dixit.
Ho scritto “consenso della comunità scientifica”. È un nodo importante. La scienza e le sue deliberazioni nascono da un “collettivo di pensiero” come diceva già quasi un secolo fa Ludwik Fleck, non sono patrimonio di un singolo o dei singoli scienziati. Il singolo scienziato non ha per forza un quadro corretto e completo della situazione. Può avere idee idiosincratiche, può avere motivi suoi per non credere a dati altrimenti accettati, può semplicemente essere un eccentrico (del resto il mondo della ricerca un po’ richiede di essere testardi e di avere idee singolari, per uscire dalla massa e per avere la motivazione di andare avanti nonostante i numerosi fallimenti). È estremamente probabile che nessuno scienziato sia concorde con la comunità scientifica su ogni possibile argomento. Non è il suo lavoro. Ma la migliore approssimazione che abbiamo su un tema scientifico è proprio quello su cui, in media, questa comunità concorda.
È questo uno dei tendini principali della nostra articolazione: comprendere questo consenso che è più dell’opinione dei singoli, e convogliarlo ad altri segmenti della società. È un lavoro complesso che richiede competenza, intelligenza e intuito, conoscenze dei meccanismi interni della scienza, capacità di leggere tra le righe e fiuto per capire quali sono risultati affidabili e quali meno.
Su temi dove il consenso è solido e pacifico da tempo la questione può sembrare in gran parte teorica, perché gli esperti saranno quasi tutti d’accordo. Con il COVID invece questa ferita sgorga: una crisi nuova da parte di un virus sconosciuto, in cui la stessa comunità scientifica si è trovata spesso divisa e preda di spinte irrazionali. Era quindi più importante che mai quel faticoso lavoro di setaccio che sta a monte della comunicazione, in cui distillare quello che si sa e separarlo dalle opinioni, dalle ipotesi, in cui si pesano i dati e la loro fragilità o solidità.
C’è un faticoso lavoro di setaccio a monte della comunicazione: distillare quello che si sa e separarlo dalle opinioni, dalle ipotesi, in cui si pesano i dati e la loro fragilità o solidità.
Non è accaduto, almeno in Italia, nulla di tutto questo. C’è stato invece il sorgere grottesco delle virostar (ben riassunto nei meme in cui virologi, immunologi ed epidemiologi appaiono come i calciatori di un album di figurine Panini). Esperti (e a volte sedicenti tali) che sono stati catapultati sui media, per motivi spesso più mediatici che correlati alla competenza o l’autorevolezza, spesso messi l’uno contro l’altro mentre intorno si assiste al combattimento di galli in camice. Mediatizzazione della scienza, per Nico Pitrelli, direttore del Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste, ovvero “l’intensificazione dei dibattiti mediatici su argomenti scientifici, l’aumento degli attori che cercano spazio sui media per esprimere le proprie idee sulla scienza e soprattutto la polarizzazione delle opinioni”.
Il paradosso è che questa mediatizzazione, mentre metteva gli scienziati sui troni televisivi, ha anche disintegrato ogni speranza di fiducia nell’expertise. Lo spettacolo di medici e ricercatori affetti spesso da narcisismo patologico, alla ricerca della dichiarazione d’effetto e sovraesposti, li ha screditati. Come dice Silvia Kuna Ballero, divulgatrice e giornalista scientifica, “c’è stato un flusso incoerente di bit informativi slegati, privi di contesto e giocoforza contraddittori; non si è dato spazio a nessuna mediazione, a nessun lavoro di ricostruzione del contesto complessivo, che rappresentasse questi bit come singoli pezzi di un quadro in costruzione”. Lasciato a ricostruire un puzzle, il pubblico è rimasto inevitabilmente disorientato e confuso, fino a sviluppare un rifiuto verso la sovraesposizione degli esperti.
Scienziati o attivisti?
Se mai ci fosse stata ancora un’illusione della comunità scientifica e della comunicazione della scienza come agenti neutri, questa è saltata definitivamente con la pandemia. Pitrelli ci avverte che “uno degli aspetti su cui riflettere è stato il progressivo assottigliamento tra la presunta consulenza obiettiva sulle politiche da adottare, quella che si chiama advice, e l’advocacy, vale a dire l’appoggio esplicito a determinate scelte, siano esse sociali, economiche, legislative, sanitarie”. Appoggio in cui la scienza è stata usata e si è lasciata usare, continua Pitrelli: “l’expertise scientifica nel nostro Paese è stata sostanzialmente plasmata dalla politica. Il processo di selezione degli scienziati interpellati dai media ha seguito ad esempio logiche narrative coerenti con differenti scelte di policy più che preoccuparsi di individuare la conoscenza migliore disponibile in un determinato momento”.
Lo spettacolo di medici e ricercatori affetti spesso da narcisismo patologico, alla ricerca della dichiarazione d’effetto e sovraesposti, li ha screditati.
Un po’ di scienza come leva per giustificare a posteriori scelte già prese o da prendere. Un gioco a cui una piccola ma rumorosa minoranza di scienziati si è prestata con entusiasmo. Sciolti da ogni intermediazione, hanno fatto irruzione nell’arena comunicativa con tutto il peso dei propri titoli accademici, come lottatori di sumo. Per Pitrelli, gli scienziati “parlano per rivendicare la propria expertise, in nome dell’istituzione scienza, per difenderne l’autorità, in nome della propria università o del proprio laboratorio, per ottenere finanziamenti. L’ideale dello scienziato libero da valori e interessi che nella comunicazione pubblica trasferisce semplicemente fatti e conoscenze è insomma distante dalla realtà”.
In Italia ci sono stati diversi casi critici di questa disarticolazione – tra cui il virologo Guido Silvestri e l’epidemiologa Sara Gandini. Fin dai primi giorni di pandemia abbiamo ascoltato infatti voci di una visione “rosea” della situazione, inviti tesi al recupero dello status quo, la “normalità”, a costo anche di “danni residui” e al rifiuto ostinato di quasi ogni misura restrittiva che potesse controllare il contagio. Atteggiamento rimbalzato poi sui media e che, ambiguamente, a volte ha anche finito per guardare con simpatia alla famigerata Great Barrington Declaration: un documento scientificamente confuso e fallace che fondamentalmente chiedeva al virus di circolare liberamente, isolando soltanto le persone più a rischio in nome di una fantomatica immunità di gregge che, oggi sappiamo, non è possibile. Un atteggiamento “controcorrente”, insomma, che, prendendo in mano la comunicazione e spingendo a volte discutibili studi, ha infine avuto un impatto concreto sulle politiche del governo italiano. Non si può non ricordare che posizioni simili, in altri contesti e in altri Paesi, sono state sponsorizzate da network neoliberisti di “mercanti di dubbi” come i fratelli Koch, allo scopo di lasciare mano libera all’economia.
Per progetti del genere, la comunicazione professionale della scienza – consapevole invece di quale fosse il vero consenso accademico sulla pandemia e ben capace di riconoscere le tattiche di disinformazione – è una nemica. C’è stata quindi, da parte di questa minoranza, una sistematica e rabbiosa delegittimazione di ogni voce che si riportasse al consenso scientifico sulla pericolosità del virus.
Falsi d’istituzione
Per molti il caos comunicativo sul COVID, denominato spesso con il brutto termine infodemia, si identifica con le notizie false. Abbiamo visto tutti la piena di fake news praticamente su ogni singolo tema pandemico, dall’origine del virus ai vaccini. Esautorati dal compito di spiegare la pandemia, i comunicatori sono rimasti nelle retrovie: “il ruolo dei comunicatori della scienza è stato simile a quello dei vigili del fuoco: sono dovuti intervenire per spegnere degli incendi”, osserva Antonio Scalari. Una collocazione naturale per una comunità che purtroppo è spesso ancorata a una mentalità asfittica e reattiva, in cui divulgazione e comunicazione della scienza sembrano dover sempre coincidere con una eterna lotta con le notizie false.
Il problema non sono solo le fake news o i complottisti: durante la pandemia, moltissima informazione falsa e parziale è nata e passata attraverso i canali più ufficiali.
Ma è difficile spegnere incendi se il piromane ce l’hai in casa. Le notizie false non sono state affatto monopolio di agenti oscuri, si tratti dei famigerati network russi o del complottismo nostrano. Moltissima informazione falsa e parziale, anche a causa delle dinamiche descritte prima, è nata e passata attraverso i canali più ufficiali, rendendo difficilissimo il lavoro dei fact checker e disintegrando ulteriormente ogni fiducia residua nel concetto di expertise. Di chi ci si può fidare, quando una testata di fact checking è costretta a smentire il presidente dell’Aifa o il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti?
Ancora peggio se in questo caos, come avverte Pitrelli, le istituzioni hanno reagito alimentando una “visione paternalistica e, in definitiva, autoritaria della comunicazione scientifica e della scienza nella società”. Pensiamo a quanto accaduto sui vaccini; la comunicazione, istituzionale e non, si è sentita pressoché costretta a difendere il vaccino a ogni costo. Convincere a vaccinare è diventato una specie di obiettivo militare. Questo è tornato indietro come un boomerang quando da un lato alcuni vaccini hanno riscontrato problematiche più o meno concrete (pensiamo al caso AstraZeneca) per quanto del tutto secondarie rispetto al loro beneficio, dall’altro quando l’ascesa delle varianti Delta e Omicron hanno costretto a rivedere in corsa il ruolo dei vaccini, annullando certe narrative troppo semplicistiche.
Non solo contagi e vaccini: c’è stata molta confusione anche sul Green Pass, strumento la cui giustificazione di salute pubblica è stata messa in secondo piano per spingere invece l’obiettivo sociale della vaccinazione.
In particolare, c’è stata molta confusione sul Green Pass. Strumento la cui giustificazione di salute pubblica è stata messa in secondo piano per spingere invece l’obiettivo sociale della vaccinazione. Per questo la comunicazione “di trincea” ha a volte giustificato il Green Pass con motivazioni che, di fronte a varianti capaci di infettare e rendere infettivi anche i vaccinati, non tenevano più completamente (anche se il Green Pass, riducendo le occasioni di infezione per i non vaccinati può aver contribuito comunque a limitare il numero di ricoveri e decessi).
Abitanti della terra di nessuno
Quella della comunicazione professionale della scienza è una comunità debole. È fatta in gran parte di precari, di freelancer, di persone non inquadrate in una redazione o solo a tempo determinato. Sono figure professionali che non collimano con i confini normali del lavoro intellettuale e scientifico. Abitano una terra di nessuno, in quella voragine aperta tra le “due culture”: troppo umanisti per gli scienziati, troppo scienziati per gli umanisti, poco visibili dal pubblico, finiscono per essere visti con sospetto da tutte le comunità tra cui dovrebbero invece mediare. Nei giornali non ci sono più redazioni scientifiche, e non sono state ricostruite neanche durante la pandemia. Senza contare che le tariffe ormai ridicole pagate dalle redazioni impediscono a molti comunicatori di talento di considerare, per esempio, i quotidiani come un target professionale. Questo non significa che non esista un mercato del lavoro per chi comunica la scienza, ma raramente è nei mass media. È invece su testate specializzate, negli uffici stampa, nei musei, o in altre nicchie, dove però difficilmente si può influire sul pubblico di massa in una situazione di emergenza.
In questa situazione di fragilità, la pandemia “ha spinto la comunità scientifica – per usare una metafora del mondo della finanza – a un’OPA ostile sulla comunicazione della scienza”, secondo Fabio Turone Lantin, giornalista scientifico e segretario di SWIM, una delle principali associazioni italiane di science writers. “Questo tentativo di parte del mondo accademico di accreditarsi come ‘voce della scienza’, in parte riuscito, nasce non solo dalla speranza – anch’essa molto ottimistica – di poter fare meglio, ma anche da altre spinte, interne al mondo dell’Università e della ricerca” ovvero, per Turone Lantin, a causa dell’equivoco della cosiddetta “terza missione”. Ovvero, da quando l’accademia viene valutata anche per la sua capacità di “trasferire i risultati della ricerca al di fuori del contesto accademico, contribuendo alla crescita sociale”, questa ha cercato di arrangiare iniziative di comunicazione scientifica, spesso senza grande successo, ma tanto basta, conclude Turone Lantin: “il mondo italiano dell’accademia si illude di disporre al proprio interno di competenze nella comunicazione scientifica che non ha finora mai pensato di coltivare davvero, e non è interessato alle osservazioni che arrivano dal mondo esterno”.
Quella della comunicazione professionale della scienza è una comunità debole, fatta in gran parte di precari, che abitano una terra di nessuno, in una voragine aperta tra cultura umanistica e scientifica.
È il momento di un’autocritica, per Silvia Bencivelli: “se loro ci ignorano noi non possiamo piangere. È vero, tutte le volte che esce un bando per un addetto stampa non viene richiesto un master in comunicazione della scienza. Ma forse non ci considerano perché nella loro ottica evidentemente non diamo un significativo valore aggiunto. Altrimenti ci chiamerebbero. Non possiamo decidere noi i criteri: se c’è questo scollamento è anche colpa nostra, che non ci sappiamo far vedere e non ci sappiamo valorizzare”. A sua volta Turone Lantin punta il dito su “molti dei fenomeni che erano in gran parte già visibili, ed erano da tempo al centro della riflessione di chi si occupa di giornalismo scientifico e comunicazione della scienza: dalla tendenza a ipersemplificare, che va a braccetto con il paternalismo, alla conseguente polarizzazione delle posizioni, con esacerbazione dei toni tra i ‘buoni’ (pro-scienza) e tutti gli altri”. Fenomeni che la pandemia avrebbe amplificato, secondo Turone Lantin.
Ma forse qualcosa si sta muovendo. Sempre Turone Lantin segnala che “proprio in epoca di pandemia, la SISSA di Trieste ha ripreso a organizzare un convegno nazionale di comunicatori della scienza – nel novembre del 2021 – dopo anni di inattività. Nel farlo, ha beneficiato anche del lavoro fatto da gruppi nati lontano dall’accademia e in parte sovrapponibili – l’associazione SWIM e la comunità informale di Strambino, messa in piedi dalla divulgatrice Beatrice Mautino e il gruppo Frame – che secondo me hanno contribuito a porre le basi per la nascita di una vera comunità nazionale dei divulgatori, che sta crescendo lentamente e non ha subito particolari danni a causa della pandemia, anzi ha in alcuni casi offerto una sponda ad alcuni suoi esponenti che nei mesi più caldi sono stati particolarmente esposti ad attacchi, in particolare sui social media”; anche se Bencivelli è più prudente: “associazioni come SWIM non sono tutto; c’è un mondo là fuori di persone che fanno il nostro mestiere che non fanno parte di queste bolle”. Esiste quindi, forse, più che una comunità coesa, una serie di nuclei di comunità, che ancora non rappresentano tutto il mondo della comunicazione scientifica. Se e come questi possano e debbano riavvicinarsi, è una questione aperta.
E se non fosse la scienza, il problema?
Due anni dopo l’inizio della pandemia una comunicazione razionale sul COVID è, per dirla senza mezzi termini, impossibile. Non perché in teoria non si possa fare, ma perché non ci sono quasi più orecchie per ascoltarla: la popolazione stremata, come la politica, non ne vuole più sentir parlare, vuole solo andare oltre. Anche se il virus è ancora qui. E quelle orecchie che ci sono, spesso vivono accampate nelle strette trincee di una polarizzazione radicale che ha molto a che fare con le politiche della pandemia e poco con la scienza in sé.
Più che una comunità coesa, esiste una serie di nuclei di comunità, che ancora non rappresentano tutto il mondo della comunicazione scientifica. Se e come questi possano e debbano riavvicinarsi, è una questione aperta.
“La pandemia ha fatto esplodere criticità di un mix di disinformazione, social media e carenza di comunicazione istituzionale difficile da districare ma su cui è opportuno interrogarsi perché si ripresenterà in futuro”, avverte Pitrelli. La pandemia di COVID-19 non sarà l’ultima pandemia, né l’ultima crisi a sfondo scientifico con cui avremo a che fare. La crisi della comunicazione che l’Italia ha subìto durante questa pandemia non promette bene per il futuro.
Da un lato, è vero, le competenze della comunicazione scientifica dovrebbero essere considerate essenziali dalle istituzioni e dai media. perché diano loro una voce ufficiale efficace, univoca, limpida e non paternalistica, che possa indirizza politica e cittadinanza. E fin qui, belle intenzioni. Ma serve, la comunicazione della scienza? È una domanda dolorosa e provocatoria – una che io non dovrei farmi, forse, perché anche io sono un comunicatore della scienza – ma va fatta, perché dopo questi due anni sembra che la risposta possa essere “non molto”. Non è chiaro se la buona o cattiva comunicazione abbia mutato significativamente le scelte della società. È difficile sostenere che in Germania o nel Regno Unito la comunicazione della pandemia sia stata peggiore che in Italia, eppure entrambi i Paesi hanno tassi di vaccinazione nettamente inferiori ai nostri.
Forse la vera lezione di questi anni è che la pandemia era un problema scientifico solo sullo sfondo, mentre la vera questione era politica e ideologica. È stato un grande teatro in cui si è sperimentata la reazione della civiltà contemporanea alla prima di varie crisi esiziali che ci attendono.
Forse la vera lezione di questi anni è che la pandemia era un problema scientifico solo sullo sfondo, mentre la vera questione era politica e ideologica.
La comunicazione della scienza poteva fare poco di fronte a un intrico di giudizi e pregiudizi sociali, ideologici, identitari e personali che spingono le azioni di individui e governi. Forse, semplicemente, la comunicazione della scienza non poteva avere un ruolo in qualcosa che, alla fine, non era di sua competenza. È una lezione che si dovrà tenere a mente per la crisi climatica e le crisi future: territori in cui la comunicazione della scienza dovrà essere solo una di molti partner alla pari con la sociologia, l’antropologia, gli studi politici e psicologici, le arti e le letterature.
Preparare il terreno
Ritrovare la direzione della comunicazione della scienza in Italia è un problema che ha mille soluzioni e che di certo non mi arrogo neanche lontanamente, da semplice mestierante, di prendere sulle mie spalle. Mi limito qui a delineare uno dei possibili punti di vista: che non è e non deve essere l’unico.
Chi comunica la scienza spesso si pone degli obiettivi a breve termine. “Cosa abbiamo ottenuto con questo articolo, con questa mostra, con questo progetto?”. È naturale e anche doveroso in molti casi, ma limitarsi a questo è miope. La pandemia è stata una sberla di umiltà: questo lavoro, su distanze brevi, non sembra in grado di influenzare significativamente la risposta della società. Non solo: non è neanche questo l’obiettivo corretto.
La pandemia, costante emergenza, ha reso difficilissimi i tempi della riflessione; è il caso di riprenderli.
Chi comunica la scienza allora forse deve guardare a obiettivi diversi, a distanze diverse. La pandemia, costante emergenza, ha reso difficilissimi i tempi della riflessione; è il caso di riprenderli. Dice Silvia Kuna Ballero: “Assisto all’emergere di forme di comunicazione scientifica e aggressiva che hanno molto successo, da una parte presentandosi come autoritaria, oggettiva e razionale e dall’altra ricalcando certe forme retoriche del populismo. Allo stesso tempo però, un po’ all’ombra di questa comunicazione a suon di schiaffi, resta comunque un considerevole insieme di persone che necessita di chiarire i propri dubbi in modo più dialogico, e penso che ci sarà sempre. Forse il ruolo della comunicazione scientifica professionale è quello di esserci comunque per queste persone”.
Può essere paradossale, perché finora abbiamo parlato di cosa è successo durante un’emergenza, ma una strada da perseguire, secondo me, è proprio uscire dalla cornice dell’allarme, quella in cui si reagisce invece di agire. Credo che chi parla di scienza, al di fuori delle comunicazioni istituzionali, dovrebbe ragionare nell’ottica della preparazione di un terreno. Chi parla di scienza non potrà esserci per tutto il pubblico, non potrà cambiare le cose al volo. Potrà invece tentare di far parte del tessuto culturale del Paese. Intrecciandosi con la scuola da una parte e con il resto della cultura dall’altra; cercando attivamente dialoghi in terreni che non ci sono familiari. Creare lentamente un solco di opere – libri, podcast, video, arte, videogiochi, conferenze, dialoghi. Credo che la comunicazione della scienza non debba essere vista come una traduzione o come un ponte, ma come un’attività culturale autonoma.
Allo stesso modo per cui una fotografa non è semplicemente una persona che trasporta un’immagine dal luogo dell’obiettivo ai miei occhi, ma è un’artista che crea, così la comunicazione della scienza deve assumere su di sé la libertà e responsabilità di essere un’attività creativa, autonoma, che usa la scienza, tanto i suoi risultati quanto le sue difficoltà, per creare qualcosa di nuovo, che ha valore in sé, nel tipo di opere che crea e nel tipo di riflessioni che scatena. È una strada difficile, ma che può portare lontano. Se la comunicazione della scienza diventa una forma autonoma della cultura, può essere di nuovo interlocutrice di media, politica, società, così che possa entrare in gioco durante la prossima crisi.
La comunicazione della scienza non deve essere vista come una traduzione o come un ponte, ma come un’attività culturale autonoma.
È un progetto vago? Sì. Ma rivendichiamola, questa vaghezza. Riprendendo un’idea cara a una delle più influenti comunicatrici italiane della scienza, Beatrice Mautino (che sui social si firma, appunto, come divagatrice), parlare di scienza dev’essere un vagare, un divagare oltre che un divulgare, un cammino tra sentieri dove ci si può perdere; e forse proprio perdendosi per i sentieri, invece di arroccarsi sulla difensiva, si può ritrovare un posto nella società e nella cultura.