M a a E.T., piaceranno i Beatles? Chissà. Per saperlo dovremo aspettare quasi mille anni, ammesso che ci sia qualcuno in ascolto dalle parti di Polaris. Nel 2008, la NASA ha inviato in quella direzione un segnale radio con la canzone Across the Universe dei Fab Four, per celebrare i cinquant’anni dell’agenzia (e i quaranta della canzone). Il messaggio sonoro impiegherà 431 anni a percorrere la distanza che ci separa dalla stella polare, e ci vorrà almeno altrettanto per ricevere l’eventuale giudizio degli alieni. Insomma, rimarremo col dubbio per un bel po’. Nel frattempo, potremo rimuginare sui tanti altri interrogativi che un tentativo del genere ci fa venire in mente. Primo tra tutti, ovviamente: quanto è probabile che lì fuori ci siano esseri intelligenti in grado di captare (e inviare) segnali radio interstellari? Ma anche: chi ci dice che esseri del genere sarebbero in grado di capire quello che potremmo provare a comunicare, e viceversa?
Questo è un aspetto cruciale, ma spesso trascurato, nei ragionamenti sulla possibilità di contatto con forme di vita extraterrestri. Pensiamo a qualcosa che noi esseri umani riteniamo piuttosto universale come la musica, appunto. Non c’è bisogno di padroneggiare un linguaggio specifico per riconoscere una melodia (anche se diverse culture possono non essere d’accordo sul fatto che la stessa melodia sia piacevole o meno). Tuttavia, noi appartenenti alla specie Homo sapiens abbiamo in comune un apparato uditivo sensibile a un certo intervallo di frequenze, il che è frutto di un processo evolutivo avvenuto su un pianeta con un’atmosfera composta di una miscela di gas tale da avere una certa densità e pressione a una data temperatura, cosa che a sua volta dipende dalla distanza del pianeta dal Sole, e così via. Anche restando sulla Terra, la selezione naturale ha dotato altri organismi di organi sensoriali molto diversi dai nostri: come può suonare Across the Universe per un delfino o per un pipistrello? E come suonerebbe per esseri apparsi su un pianeta in linea di principio piuttosto diverso dal nostro, ed evolutisi per rispondere a pressioni ambientali di altra natura? Con buona pace di Steven Spielberg, che in Incontri ravvicinati del terzo tipo immaginò che potessimo stabilire una conversazione con gli alieni usando le note musicali, le cose sono parecchio più complicate.
Le abilità comunicative sono legate alla struttura biologica di un organismo, a sua volta adattatasi per sopravvivere in un ambiente particolare.
Restando nel campo della fantascienza, il recente film Arrival (e ancora di più il racconto di Ted Chiang da cui è tratto) si è avvicinato un po’ di più a una descrizione realistica di come potrebbero andare davvero le cose il giorno in cui dovessimo fare conoscenza, diretta o indiretta, con una specie aliena. Il film mostra in maniera convincente come le abilità comunicative siano legate alla struttura biologica di un organismo, a sua volta adattatasi per sopravvivere in un ambiente particolare: gli eptapodi (gli alieni) a simmetria circolare di Arrival, sembra di capire, vengono da un pianeta con un’atmosfera molto diversa dalla nostra, e comunicano tra loro con suoni per noi del tutto incomprensibili. Anche la loro scrittura segue una prassi peculiare nella codifica dei simboli, ed è espressione di un linguaggio a noi profondamente estraneo dal punto di vista logico, grammaticale e sintattico, come conseguenza dei diversi processi cognitivi che lo sottendono.
Perfino restando nell’ambito del linguaggio umano, non c’è accordo tra i linguisti sull’idea che esista una grammatica universale innata, legata all’evoluzione del cervello. Ma allora, è possibile immaginare un linguaggio universale, indipendente dalle condizioni contingenti, che qualunque essere intelligente sarebbe in grado di comprendere? Se c’è qualche speranza, potrebbe avere a che fare con la matematica: dopotutto, come diceva Galileo, è la lingua in cui è scritto l’universo. Ma come tradurre la speranza in qualcosa di più concreto è tutt’altro che ovvio. Il più famoso messaggio che l’umanità ha provato a inviare volontariamente verso altre stelle è quello irradiato dall’antenna del radiotelescopio di Arecibo, nell’isola di Porto Rico, nel 1974. Conteneva una sequenza di 1679 cifre binarie: se verrà intercettato da una specie che, oltre agli strumenti tecnologici adatti, abbia anche abilità matematiche, questa dovrà prima di tutto rendersi conto che il numero 1679 può essere scomposto in maniera unica nel prodotto di due numeri primi (23 x 73), dopo di che dovrà intuire, in qualche modo, il nostro desiderio che gli uni e gli zeri che compongono il messaggio vengano disposti in una matrice rettangolare di 23 righe e 73 colonne, quindi “accendere” e “spegnere” i pixel corrispondenti, e infine interpretare la figura risultante.
È possibile immaginare un linguaggio universale, indipendente dalle condizioni contingenti, che qualunque essere intelligente sarebbe in grado di comprendere?
Cosa tutt’altro che ovvia, perché la figura è un misto di elementi grafici (c’è un omino stilizzato che campeggia nella parte inferiore del quadro, e più sotto una specie di capanna che solo qualcuno dotato di grande fantasia potrebbe riconoscere come una rappresentazione dell’antenna che ha inviato il messaggio, sempre che ne abbia vista una simile) e di simboli logici (i numeri da uno a dieci in formato binario), assieme a schemi che non sono né una cosa né l’altra (i numeri atomici degli atomi che formano la molecola del DNA). Insomma, un bel rompicapo, che probabilmente anche una squadra di esseri umani molto intelligenti e esperti di crittografia avrebbe il suo bel daffare per decifrare. Figuriamoci alieni che potrebbero ragionare in modo completamente diverso.
Forse lo scenario più credibile di cosa potrebbe accadere se un giorno fossimo noi a ricevere un segnale dalle stelle lo ha messo insieme Stanislaw Lem, che nel 1968, ne La voce del padrone (in Italia lo ha ripubblicato qualche anno fa Bollati Boringhieri), ha immaginato una task-force di scienziati alle prese con l’interpretazione di un segnale radio extra-terrestre di natura apparentemente artificiale. Nella pessimistica visione di Lem, neanche la matematica ci aiuterebbe a colmare il baratro che ci separerebbe da esseri con cui non avremmo in comune neanche le più elementari caratteristiche fisiche, biologiche o psicologiche. Più che un romanzo di fantascienza, quello di Lem è un saggio mascherato da finzione, che affronta con grande profondità i vari aspetti (matematici, filosofici, linguistici, ecc.) e le enormi difficoltà della comunicazione tra specie intelligenti diverse. Una profondità assente in molta della produzione fantascientifica a cui siamo stati abituati (cosa di cui Lem si fa esplicitamente beffe, celando le sue critiche verso certa faciloneria hollywoodiana dietro quelle del protagonista del racconto), ma anche, talvolta, perfino alle riflessioni accademiche sulla possibilità di contatto con intelligenze extraterrestri. In realtà il messaggio di Arecibo, la canzone dei Beatles e gli altri, pochi, segnali che negli anni abbiamo affidato alle onde elettromagnetiche perché segnalassero la nostra presenza ad altri eventuali coinquilini della Via Lattea, servono, appunto, a poco più che a questo: a dire ci siamo, siamo qui, esistiamo – o, più probabilmente, visti i tempi lunghissimi che anche la luce impiega a coprire le distanze con le altre stelle, siamo esistiti.
E neppure questo desiderio di lasciare un segno possiamo dire che sia universale.