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a nota editoriale che accompagna ogni volume della Piccola Biblioteca Morale di e/o è un documento degno di attenzione. Unisce la preveggenza di lotte che ormai hanno sessant’anni e la frustrazione di chi oggi ne ha venti. La PBM è una collana nata – scrive Goffredo Fofi che la cura – per “reagire all’abulia della cultura di questi anni, dominata dal narcisismo, dal flusso delle mode, dalla decadenza di figure intellettuali forti”; narcisismo e mode ci sono sempre stati, ma gli intellettuali forti? Viene da chiedersi se gli intellettuali si indeboliscano quando costretti ad arrancare dietro a un mercato che uccide il testo ragionato, un mercato dove – dettaglio non trascurabile – girano pochi soldi, meglio pochissimi; scopo di questi libri sarebbe proprio “non-accettare quel che il potere quotidianamente ci impone trovando complici – servi volontari – a milioni”: ma anche gli involontari dopotutto, miserabili, hanno un cuore.
Sepolti Sciascia Calvino Ortese Pasolini eccetera, si legge, sono emerse “masse di scriventi da cui ben di rado si distaccano figure di scrittori e studiosi all’altezza delle necessità del nostro tempo, che i più avvertiti giudicano estremamente critico o addirittura pre-finale, proprio nel senso di una possibile fine della natura e fine della società umana”. Gianfranco Bettin evidentemente, l’autore di I tempi stanno cambiando (e/o PBM 2022), rientra tra quest’ultimi.
Bettin è nato a Venezia, di cui ormai è un riflesso del Genius loci: attivista ecologista, è stato deputato al parlamento e prosindaco di Venezia, dove è consigliere comunale per la lista Verde progressista. Sul territorio veneziano, così complesso e torturato, è attivo e ecologista dalla fine degli anni Settanta, già da quando – appena diciannovenne – scrisse una delle recensioni più lucide sulla Storia di Elsa Morante, appena pubblicato; tanto che Morante, non facilissima, insisterà per conoscere quel ragazzino che sembrava sbucato da una sua poesia. Bettin è anche sociologo e scrittore: tra le varie pubblicazioni, si segnalano Il clima è fuori dai gangheri (Nottetempo, 2004), il romanzo Cracking (Mondadori, 2019) e Le avventure di Numero Primo (Einaudi, 2018), scritto insieme a Marco Paolini. Con il regista Andrea Segre, invece, ha scritto Il pianeta in mare, presentato alla 76ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
“Che ne sarà della neve / che ne sarà di noi?”. Hai dedicato il tuo libro a degli amici che non ci sono più, scrittori che hanno voluto abitare la frontiera del disastro: Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto. Erano scrittori dell’Antropocene prima che si chiamasse così. Che importanza hanno avuto nella pratica della tua scrittura?
Sono dei punti di riferimento, non solo letterari, anche se il loro magistero letterario agisce in profondità in chiunque li abbia incontrati davvero su quel piano: uno più colto e raffinato, Zanzotto; Rigoni Stern più naturalmente e profondamente narratore; entrambi dotati di altissimo senso poetico. Sono anche figure di grande forza morale, etica e, per questa via, politica, oltre a essere stati degli amici indimenticabili.
Il tuo impegno ecologista ha ormai più di quarant’anni, quasi mezzo secolo di trasformazioni, rivelazioni, curve a gomito… guardando al presente della lotta ecologista, qual è la prima differenza che ti colpisce, rispetto ai primi anni Ottanta?
Oggi c’è più consapevolezza. Soprattutto, il peso della scienza nelle motivazioni ecologiste è cresciuto, per fortuna. In realtà, è stato così fin dall’inizio. Charles D. Keeling, che misurò per primo l’accumulo di CO2 in atmosfera, Rachel Carson e la “primavera silenziosa”, gli scienziati del Club di Roma che mostrarono i “limiti della crescita”… sono alle origini dell’ecologia politica. Ma a lungo il discorso pubblico verde è stato soprattutto “movimentista”. Ora si è tornati a riequilibrare i due registri: politico (o politico-culturale, ed etico) e scientifico (interdisciplinare, tra scienze fisiche e scienze sociali ed economiche).
Parlare di emergenza climatica è sempre complicato, ma anche parlare di Venezia non scherza. Ci si inventa nuove parole per nuovi problemi, come l’ormai ubiquo iperoggetto, che nel libro provi a superare con un’accezione più dinamica-perturbatoria, ipermutamento. Giocando con le parole allora, quali sono le ipersoluzioni che potrebbero salvare Venezia, di tutte le città italiane forse la più inclassificabile, la più ipercittà?
Se, come a me pare, viviamo dentro un ipermutamento – più che, come pensa invece Timothy Morton, in un iperoggetto – allora la salvezza di una città che vi è particolarmente esposta non può che risultare dal combinarsi tra un agire globale e un agire specifico locale. In effetti, il dramma attuale di Venezia, sotto il profilo fisico, ecologico e quello socioeconomico, deriva da questa combinazione di aggressioni. Ciò che andrebbe fronteggiato da un mix adeguato tra l’azione globale contro la crisi climatica – il mix di adattamento ad essa e di superamento delle sue cause – e l’azione locale – fine delle manomissioni dell’ecosistema lagunare in primis: basta scavi di canali, via gli abusi tipo grandi navi, grandi infrastrutture, fine della monocultura turistica, rigenerazione del patrimonio abitativo, tutela del diritto alla residenza, della qualità della vita della comunità veneziana…
Di tutti gli inquinanti (intendo sia le sostanze che le abitudini) credo uno dei più letali e sottovalutati sia il turismo. È una forza cieca, troppo vincolata a una sfera difficilmente misurabile, un groviglio di desideri e impulsi che – nonostante le ovvie sproporzioni – è interclassista e interraziale. Il futuro del turismo può convivere con quello del pianeta?
Come spiega bene Marco d’Eramo (e non solo lui), il turismo è una forza economica e sociale potente perché unisce la spinta e l’intensità di una pulsione umanissima (conoscere, girare, muoversi, la curiosità, l’avventura, il piacere, la scoperta…) all’artiglio del mercato. In città come Venezia tale forza diventa a volte quasi inarrestabile, fisicamente invadente e prepotente, plasma il contesto, lo modella a sua immagine e a sua modalità, entra nel profondo della composizione sociale e delle biografie (il regista Andrea Segre, nel suo ultimo film Welcome Venice, in cui mostra il conflitto tra due fratelli divisi tra mercificare, guadagnandoci molto col turismo, la casa di famiglia e tutelarla come spazio della propria storia ed esperienza, descrive con efficacia la questione). Turismo e pianeta possono convivere se, esattamente come a tutta la sfera economica, sapremo mettere dei limiti, indirizzare questa forza potente e non farsene fagocitare.
“La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”. Nel saggio scrivi di Alex Langer, lo citi, lo rievochi. Cosa ricordi, di lui? Se dovessi raccontarlo a chi è nato dopo la caduta del Muro, da dove cominceresti?
Ho conosciuto Alex molti anni fa, prima che – lui protagonista – fossero fondati i Verdi in Italia e in Europa. Era uno dei più onesti, intelligenti e simpatici esponenti del ’68 europeo (abbastanza più giovane di lui, in realtà l’ho conosciuto a metà circa degli anni Settanta, nelle formazioni della nuova sinistra nata da quel grande sommovimento). Lo descriverei come una delle figure che più si sono interrogate sui limiti delle culture politiche otto-novecentesche e sulle potenzialità delle intuizioni e delle elaborazione, ma anche delle esperienze, emerse in particolare nella seconda metà del Novecento: l’anti autoritarismo, l’antidogmatismo, il pacifismo e la nonviolenza, il rapporto difficile, necessario e fecondo con il nuovo femminismo, la critica dello scientismo ma anche la scoperta che proprio dalla scienza possono venire risposte inaudite a problemi e questioni che da secoli, se non da millenni, ci angustiano e ci interrogano; poi la centralità dell’ecologia come disciplina e come visione politica e culturale, che riflette la tutela della biodiversità, l’adesione ad essa come elemento chiave della vita stessa, e la pratica della convivenza come suo risvolto tra gli umani. Mite com’era, e fautore della “conversione ecologica” (e di altre conversioni), Alex tuttavia non ignorava la necessità e la forza dei conflitti, il loro essere spesso il solo modo attraverso il quale le novità, i percorsi di liberazione e di emancipazione e, appunto, la conversione, possono farsi strada nel mondo, nella Storia.
L’emergenza climatica non è una questione, è la questione. Il pensiero, per prenderne le misure, viene costretto a contorcersi verso più direzioni insieme, in uno sforzo spastico che non può salvarsi dalla contraddizione. I tempi stanno cambiando conferma la regola: verso il finale del saggio – per esempio – la soluzione nucleare viene definita anacronistica, un vagheggiamento fuori tempo e fuori luogo. Eppure, girando pagina, alludi al Novacene di Lovelock (l’ideatore del concetto di Gaia), l’ipotesi di un’umanità che “grazie a macchine super intelligenti con cui entrerà in simbiosi […] potrà espandersi nel cosmo attraverso questa nostra discendenza artificiale”. Non sono queste in fondo due facce della stessa moneta tecno-soluzionista? Tu aggiungi, “magari Lovelock avrà ragione”. Come dire: magari anche no. Conoscendo anche il tuo impegno decennale nella divulgazione delle criticità del Mose, non è che il fascino del Novacene risieda nel suo idealismo? Forse le macchine più belle sono quelle che non esistono ancora.
Le macchine più belle sono sempre quelle che non esistono ancora… ma le più utili sono quelle che già sono tra noi, che usiamo per rendere la nostra vita migliore e, spesso, possibile, che ce la salvano, letteralmente. Cosa sono state, cosa sono, le terapie intensive in questa pandemia? O la meravigliosa tecnologia che fa sì che un dentista possa non farti del male mentre ti fa delle cose che altrimenti sarebbero torture strazianti… Ma si pensi anche alla potente semplicità con cui un pannello fotovoltaico cattura e utilizza luce e calore del Sole, cioè energia aggiuntiva, facendo – ed è il solo caso in cui ciò avviene – del sistema Terra un sistema che si apre a un apporto esterno, dunque rompendo, o almeno contrastando, l’altrimenti inarrestabile entropia che ogni sistema chiuso subisce. Fantastico, no? Eppure fattibile, anzi in atto, operativo. Appunto da sviluppare al massimo, contro l’abuso delle fonti fossili, monumenti all’entropia cui saremmo condannati!
Lovelock fa il visionario, sia pure calcolando e analizzando la progressione della tecnologia (in rapporto alla nostra evoluzione cognitiva), e più che di idealismo, nel suo caso, parlerei decisamente e banalmente di “ottimismo”. Un ottimismo, si badi, non campato per aria, argomentato, ma certamente, come dire, pre-scelto, un ottimismo della volontà e della ragione – in ciò, sì, carente della pars critica e scettica, sempre necessaria. Ma, in fondo, questo suo slancio si può anche apprezzare. Resta il fatto che, senza la scienza e la tecnica, non usciremo né dalla crisi climatica (ed ecologica) né da quella politica. Anche il Nomos verde della Terra evocato da Ferrajoli nella sua proposta di Costituzione globale del pianeta non ne può prescindere. Non si tratta di puntare sul “tecno-soluzionismo” ma di sapere che, priva del supporto tecno-scientifico, ogni soluzione si riduce a idealismo, a velleità, a soggettivismo e, in definitiva, a superomismo. Abbiamo già visto cosa abbiano prodotto queste derive.
Nel tuo saggio accenni ai “limiti di un pensiero ecologista prevalentemente del Nord del mondo”, cosa intendi? Stiamo andando verso una storia ecologista riscritta dai paesi ricchi?
Esiste già una storia verde del nord del mondo, come esiste un’ecologia maschile e, perfino, un’ecologia umana (troppo umana). La critica che ormai molti movimenti ecologisti del sud del mondo rivolgono a certi aspetti non marginali del pensiero ecologista occidentale colpisce questa visione che, pur benintenzionata, riflette alcuni approcci “coloniali”. Bisogna, invece, decolonizzare l’ecologia politica (e de-maschilizzarla, e de-antropizzarla anche): c’è un gran bel lavoro da fare, interessantissimo, a occhio ricchissimo di promettenti scoperte, su questa strada. Nel libro cito un po’ di autori, soprattutto di autrici [Donna Haraway, John Mbaria, Mordecai Oganda, Isabelle Stengers etc], che vanno in questa originale direzione.
Scrivi di convulsioni, “di una fase storica decisamente fuori controllo [dove] ogni esito sarebbe possibile e perfino l’impensabile legato all’andamento dei fenomeni naturali potrebbe riguardare anche lo stesso andamento delle relazioni umane, il destino della nostra specie, in un mondo di cui non governiamo più nulla”. Stiamo iniziando il terzo anno di pandemia; da qualche settimana, la Russia ha invaso l’Ucraina. Eppure, anche di fronte a eventi di questa gravità e intrecciati alla realtà delle contraddizioni dello sviluppo, la retorica del cosiddetto infotainment (che si cristallizza nell’opinione pubblica) non sembra raccogliere nemmeno alla lontana la possibilità di un racconto più maturo o consapevole, dove accanto a guerra si possa scrivere “energia”, accanto a pandemia “allevamenti intensivi”, o “turismo insostenibile”. Abbiamo iniziato cercando una nota di speranza, ma di fronte a certe constatazioni, dove possiamo trovare le forze per credere in un altro mondo?
Sono ormai decenni che a livello di mainstream si ignora o, quando non si può, si deforma, si dileggia, si depreca e stigmatizza, chi esprime la possibilità di un altro mondo. A volte, per una serie di fattori, questa forza emerge con nettezza, e allora si vede che riempie le piazze, si vede che, anche quando viene data per dispersa, o ignorata, sta in realtà lavorando a fondo e in estensione, concentrata su singole pratiche ed esperienze, ma continuando a fare rete, a richiamarsi da una parte all’altra del pianeta, allargando i cerchi concentrici, o il caracol che l’ex Subcomandante Marcos ama citare, la spirale, la chiocciola, che costituisce la sua metafora dei cicli storici ma anche dei movimenti in atto nel pianeta. Dovremmo coltivare la consapevolezza e l’autonomia di questo movimento (che dice il contrario di There Is Not Alternative, T.I.N.A.: dice che ce ne sono innumerevoli, di alternative, in ogni settore e campo), dovremmo sviluppare l’alterità non marginale o autoghettizzata bensì immersa nel mondo e nella Storia, esattamente là dove singole soluzioni risolvono problemi e prende forma, ogni volta di nuovo, la linea a cui tendere, l’orizzonte che si apre.