“L a National Audubon Society, una delle più antiche organizzazioni ambientaliste, ha annunciato oggi di stare monitorando le piogge acide nel paese perché insoddisfatta degli sforzi del governo. Da luglio i volontari della società hanno raccolto le letture di 64 stazioni di monitoraggio usando cartine di tornasole per misurare l’acidità delle precipitazioni.”
Era il 29 settembre del 1987 e il New York Times descriveva così la decisione della National Audubon Society di affidarsi ai dati raccolti dai cittadini volontari sulle piogge acide, ritenuti più completi di quelli forniti dalle agenzie governative. Solo due anni più tardi un’operazione di questo tipo sarebbe stata descritta con una nuova espressione: Citizen Science.
“A metà degli anni Novanta due studiosi provarono indipendentemente a dare una definizione formale di questo termine” – spiega al Tascabile il dottor Andrea Sforzi, membro del direttivo ECSA, European Citizen Science Association e direttore del Museo di Storia Naturale della Maremma. “Una definizione di questo periodo è dell’ornitologo Rick Bonney che, parlando in particolare di conservazione della natura, definiva la citizen science in maniera piuttosto ‘tecnica’: “uno strumento attraverso cui i non esperti contribuiscono alla ricerca, e che gli scienziati possono usare per fare divulgazione”. L’altra definizione ‘storica’ è invece del sociologo Alan Irwin, che rifletteva maggiormente sul rapporto tra scienza e società. Second Irwin, attraverso la citizen science quei cittadini che non sono scienziati professionisti possono partecipare alla ricerca scientifica in due modi. Non solo affiancano gli scienziati nella ricerca, per esempio raccogliendo e condividendo osservazioni e misure, ma con il loro coinvolgimento fanno anche in modo che la ricerca si occupi dei problemi più sentiti dalla società”.
Citizen science: la storia dietro al nome
Non è un caso che la Audubon Society sia associata a uno dei primi utilizzi del termine citizen science. Alla fine del XIX secolo, quando le società nominate in onore dell’ornitologo e pittore John James Audubon muovevano i primi passi verso una federazione nazionale, in Nord America si tenevano le tradizionali Christmas Sides Hunts. Si trattava di battute di caccia natalizie in cui vinceva la squadra che riusciva a uccidere il maggior numero di uccelli, di qualunque specie fossero e indipendentemente dal loro possibile utilizzo. Nel 1900 l’ornitologo della Audubon Frank Chapman propose un’idea semplice ma rivoluzionaria: perché non cambiare la tradizione e contare gli uccelli delle diverse specie invece di ucciderli, trasformando il massacro in un utile censimento? Nacque così la prima Christmas Bird Count, che da allora ha fatto scuola.
Nonostante gli esempi eccellenti del passato, la citizen science si è sviluppata in particolare negli ultimi decenni fino a diventare un vero e proprio movimento.
Quella che noi oggi chiamiamo citizen science è quindi nata molto prima che il termine cominciasse a emergere e ci si cominciasse a interrogare sul suo significato. Anzi, il consenso tra gli addetti ai lavori è che in qualche forma la citizen science esista da quando esiste la scienza. L’ornitologa Caren Cooper nel suo libro Citizen Science – How Ordinary People Are Changing the Face of Discovery (Overlook Press. 2016) racconta per esempio la storia dell’eclettico Matthew Fontaine Maury, oceanografo, astronomo, divulgatore scientifico.
Maury intorno al 1840 capì che i diari di bordo dei marinai erano una inestimabile fonte di dati oceanografici, che all’epoca non erano sufficientemente considerati. Maury cominciò a organizzare le osservazioni registrate nei diari e pubblicò nel 1847 una carta rivoluzionaria, Wind and Current Chart of the North Atlantic, che spedì ai marinai di tutto il mondo assieme a un diario di bordo standardizzato su cui continuare ad annotare dati oceanografici. Uscirono nuove carte, e la navigazione diventò più veloce, efficiente e sicura, tanto che in breve anche le navi di altre nazioni si unirono all’impresa. Maury a questo proposito scrisse:
Anche se per tutto il resto possono esserci nemici, qui loro sono amici. Ogni nave che attraversa i mari con queste carte e i diari a bordo può essere considerata d’ora in poi un osservatorio galleggiante – un tempio della scienza.
Nella storia della citizen science, Andrea Sforzi sottolinea invece il ruolo dei collezionisti, naturalisti dilettanti ma competenti che hanno messo a disposizione di tassonomi, paleontologi e geologi professionisti le loro inestimabili raccolte (Darwin è famoso per la fitta corrispondenza che teneva con allevatori di piante e animali di tutti i tipi). Nonostante i tanti esempi eccellenti del passato, non si discute però che la citizen science si sia sviluppata in particolare negli ultimi decenni, sia filosoficamente sia in termini di portata di partecipazione, fino a diventare, spiega Sforzi, “un vero e proprio movimento”.
Rivoluzione digitale
Uno dei motori di questa crescita è stato senza dubbio la diffusione dell’informatica e dell’elettronica di consumo. Nel 1999 chiunque avesse un personal computer poteva installare Seti@home, un programma di calcolo distribuito sviluppato a Berkeley che lavorava ai dati radioastronomici raccolti dal progetto Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence) quando la macchina era inutilizzata. Non abbiamo ancora trovato gli alieni, ma il successo delle adesioni a Seti@home ha permesso di sviluppare Boinc (Berkeley Open Infrastructure for Network Computing), una delle principali piattaforme per il calcolo distribuito, attraverso la quale è ora possibile prestare il proprio computer a decine di progetti analoghi, che spaziano dalla cosmologia alla biologia molecolare.
Come spiega Sforzi, la citizen science prevede diversi livelli di coinvolgimento. Nel primo dei 10 principi della citizen science stilati dalla European Citizen Science Association infatti si legge: “i cittadini possono agire come utenti, collaboratori, o responsabili del progetto, e ricoprono un ruolo significativo nel progetto”, e ancora, al punto 4: “le persone coinvolte in progetti di citizen science possono, se vogliono, prendere parte a più fasi del processo scientifico”, dallo sviluppo dei quesiti alla comunicazione dei risultati.
Nel caso del calcolo distribuito non è necessariamente richiesto un grande impegno: oltre a scaricare il programma e impostare le preferenze, in teoria è possibile anche dimenticarsi della sua esistenza e ignorare i periodici messaggi di aggiornamento del progetto. In realtà, come spiega Cooper nel suo libro, anche il calcolo distribuito rientra pienamente nella citizen science: i progetti più riusciti sono animati da comunità affiatate che, oltre a competere tra loro (spesso facendo apposite modifiche al pc per potenziare il calcolo), discutono in forum a cui partecipano anche gli scienziati. È da questo tipo di scambi che da Rosetta@home, che usa la potenza dei microprocessori per risolvere la struttura tridimensionale delle proteine, è nato Foldit, un gioco dove sono gli stessi utenti a cercare soluzioni a questo complicato puzzle. Collettivamente i giocatori di Foldit possono vantare diverse pubblicazioni, tra cui una relativa al design di un nuovo enzima.
La rivoluzione degli smartphone ha ulteriormente accelerato la diffusione della citizen science. Ognuno di noi ora ha in tasca uno strumento scientifico molto versatile.
Un altro livello di coinvolgimento lo troviamo in Galaxy Zoo, lanciato nel 2007, che invitava i volontari ad aiutare gli scienziati a classificare le immagini delle galassie. Il successo ha superato di molto le aspettative, e grazie a legioni di citizen scientist gli scienziati sono riusciti a classificare quasi un milione di galassie in pochi anni, un lavoro altrimenti impossibile. Da Galaxy Zoo è nato Zooniverse, una piattaforma dell’associazione statunitense Citizen Science Alliance da cui si accede a centinaia di progetti dove sono i singoli cittadini a fare la differenza. Di recente il lavoro dei volontari del progetto Planet Hunters, che analizza i dati del telescopio Kepler, ha portato alla scoperta di un nuovo sistema planetario.
La rivoluzione degli smartphone ha ulteriormente accelerato la diffusione della citizen science. Ognuno di noi, osserva Sforzi, ora ha in tasca uno strumento scientifico molto versatile. Uno smartphone è uno strumento di geolocalizzazione, una macchina fotografica, un registratore, un computer connesso a internet, e ha moltissimi altri sensori che possono essere sfruttati per la ricerca scientifica. Tra le app più popolari troviamo iNaturalist, ora sviluppata dalla California Academy of Science, che trasforma il telefonino in raffinato taccuino per le osservazioni naturalistiche, dove le specie fotografate e georeferenziate vengono poi classificate dalla community e da un software. Sicuramente un cittadino senza formazione non può sostituire l’opinione di un esperto tassonomo, ma il sistema ha un meccanismo di consenso che permette di identificare molte specie in maniera sufficientemente robusta per gli scopi di ecologi e biologi.
Alcuni progetti di citizen science prevedono strumentazioni specifiche (per esempio stazioni meteo, centraline ambientali, ecc.), ma che grazie alla libera circolazione dei progetti e alle opportunità delle nuove tecnologie (come la stampa 3d e le altre attrezzature dei Fablab) sono ora molto abbordabili.
Scienza e democrazia
Scriveva Carl Sagan, nel suo Il mondo infestato dai demoni (1996, Baldini&Castoldi):
I valori della scienza e della democrazia concordano, anzi in molti casi sono indistinguibili. Scienza e democrazia hanno avuto origine – nelle loro forme civilizzate – nello stesso tempo e nello stesso luogo, ossia nell’antica Grecia, fra il VII e il VI secolo a.C. La scienza conferisce potere a chiunque si dia la pena di impararla (anche se a troppi è stato sistematicamente impedito di farlo). Essa prospera sul libero scambio di idee, che ne è anzi una condizione indispensabile; i suoi valori sono antitetici al segreto. Essa non ha alcun punto di vista speciale o alcuna posizione privilegiata. Tanto la scienza quanto la democrazia incoraggiano opinioni non convenzionali e discussioni vigorose. Entrambe richiedono ragioni adeguate, argomentazioni coerenti, criteri rigorosi di prova nonché onestà.
Sarebbe un errore ridurre l’esplosione della citizen science al solo progresso tecnologico. Non si può infatti parlare di scienza dei cittadini senza includerla nel più ampio ambito dell’Open Science. Secondo una delle diverse scuole di pensiero, l’obiettivo della scienza aperta dovrebbe essere quello rendere i prodotti della ricerca ugualmente accessibili a tutti i cittadini. Anche la conoscenza scientifica, insomma, dovrebbe essere un bene comune.
Può sembrare un’idea radicale, ma non fa altro che ribadire il legame tra democrazia e scienza ricordato, tra gli altri, dall’astronomo e divulgatore Carl Sagan. Solo svilendo il significato di democrazia a “decisione della maggioranza”, e pretendendo che la scienza esista sospesa in una bolla al di fuori della società, è possibile resuscitare l’infelice slogan “la scienza non è democratica”.
Come ha osservato il sociologo Andrea Cerroni a margine del convegno “Scienza aperta. per un democrazia della conoscenza” (Milano, 10 marzo, 2016):
Nella società della conoscenza, tanto ai non scienziati è richiesto di formarsi e informarsi su questioni scientifiche sempre più presenti nella vita quotidiana, quanto agli scienziati è richiesto di inserirsi nei processi di formazione del consenso nell’opinione pubblica.
La citizen science come movimento va oltre i risultati, il risparmio di tempo e denaro che consente, e lo sviluppo tecnologico che promuove, ma diventa uno degli strumenti per rendere la scienza aperta, e quindi democratica. Un esempio di questa apertura viene da uno dei templi della scienza. Il CERN, oltre a portare avanti su Zooniverse il suo progetto di citizen science, da anni pubblica i dati delle collisioni di LHC: lo scorso dicembre ha reso disponibili a chiunque 1 petabyte (un milione di miliardi di byte) di dati.
La via italiana
Sono nate diverse associazioni per la citizen science. Tra queste si ricordano la statunitense Citizen Science Association (CSA), la Australian Citizen Science Association (ACSA) e la European Citizen Science Association (ECSA). Il loro scopo è stabilire delle reti di collaborazione che permettano alla citizen science di progredire in accordo con principi etici e filosofici simili a quelli elencati nel decalogo della ECSA. Lo scorso autunno la ECSA, assieme all’Accademia delle Scienze, CNR e altre sigle italiane ed europee hanno organizzato a Roma la prima conferenza italiana sulla citizen science.
Tra i progetti presentati, Lifemipp e C-Smon sono quelli finanziati a livello europeo, entrambi dedicati al censimento di specie armati di smartphone. I bioblitz, intervalli di 24 ore in cui i cittadini segnalano tutte le specie che riescono a trovare un’area, sono comuni a diversi progetti di citizen science di questo tipo, e in Italia sono organizzati in maniera continuativa dal Museo di Storia Naturale della Maremma, che ha indirizzato tutte le sue attività verso la citizen science con Natura e social Mapping. La Scuola delle formiche, ideato all’Università della North Carolina per scoprire quali specie di formiche abitano le nostre città, in Italia è portata avanti dal Laboratorio di Mirmecologia dell’Università di Parma, che raccoglie le schede e i campioni inviati dai cittadini. Dal 2009 l’Università del Salento ha portato avanti, anche con la collaborazione della rivista Focus, Occhio alla medusa!, per la segnalazione delle meduse nei nostri mari con particolare attenzione alle specie aliene.
Non mancano alcuni progetti al di fuori dall’ecologia e dalla conservazione, per esempio Cithyd, Citizen Hydrology è un progetto tutto italiano per la misura dei livelli idrici lungo fiumi e corsi d’acqua della nostra penisola, i cui problemi legati al dissesto idrogeologico sono tanto noti quanto poco affrontati. Earthquake Network invece, sviluppato da Francesco Finazzi (Università di Bergamo) mira a creare una rete mondiale di rilevamento sismico usando sia gli accelerometri degli smartphone, sia le segnalazioni degli utenti. L’obiettivo principale è riuscire, in caso di forte terremoto, ad avvisare in tempo chi ancora non è stato raggiunto dalla scossa.
Andrea Sforzi spiega che in Italia c’è molto interesse da parte della ricerca e l’incontro ha gettato le basi per disegnare una via italiana alla citizen science, cioè una strategia nazionale di sviluppo. Lo scorso 5 aprile al Museo di Storia Naturale della Maremma si è riunito il gruppo informale Citizen Science Italia. L’obiettivo della giornata è stato definire un documento comune da presentare il giorno dopo alla tavola rotonda “Verso una strategia condivisa per la citizen science in Italia”, tenutosi nella biblioteca dell’Accademia Nazionale delle Scienze a Roma.
La formazione, tanto dei cittadini quanto degli scienziati, sarà cruciale in questo percorso. Non è detto che qualsiasi progetto di ricerca sia adatto a servirsi della citizen science. Nel caso, richiederà al ricercatore un impegno non banale per la sua effettiva realizzazione. A volte si teme che il “punto debole” siano proprio i cittadini, cosiddetti non esperti, che non saprebbero fornire osservazioni e misure affidabili quanto quelle degli scienziati. La letteratura tende a smentire questa visione, ma è comunque compito dei ricercatori, non dei cittadini, scrivere un progetto che (come qualunque altro) integri dei metodi di convalida dei dati.
“La citizen science è considerata una metodologia di ricerca come qualunque altra”, recita il sesto punto del decalogo Ecsa, “con limiti e margini di errore che devono essere tenuti sotto controllo. Tuttavia, a differenza delle metodologie tradizionali di ricerca, la citizen science fornisce ampie opportunità di coinvolgimento del pubblico e di democratizzazione della scienza”.