C hiara Valerio è nata a Scauri nel 1978, è scrittrice e editor della narrativa italiana per Marsilio. Ha studiato matematica per molti anni, e ha un dottorato di ricerca in calcolo delle probabilità.
Il suo ultimo libro è un piccolo pamphlet, pubblicato da Einaudi: La matematica è politica. Mischiando saggio, polemica civile e autobiografia – in maniera non dissimile al suo precedente libro Storia umana della matematica –, Valerio propone un parallelismo tra matematica e democrazia, esplora le analogie fra due spazi apparentemente diversissimi ma in realtà fondati sulla costruzione collettiva di un senso a partire da assiomi e da regole condivise: due “sistemi di regole, che creano comunità e lavorano sulle relazioni”. Sia nella matematica che in democrazia ogni concetto di verità non può che prescindere da un contesto, da definizioni comunemente accettate e da condizioni presenti che potranno in futuro cambiare. Sono costruzioni umane, culturali, che vanno continuamente ridiscusse. Nonostante alcune analogie a tratti azzardate, l’emulsione fra sostanze apparentemente incompatibili tiene soprattutto grazie all’obiettivo personale e civile del libro: riannodare, in tempi di pandemia e quarantene, il piano individuale e collettivo, riscoprire l’essere comunità di individui pensanti e liberi.
Andrea Zanni: In La matematica è politica proponi un inedito parallelismo tra matematica e democrazia: scrivi che entrambe si fondano su “sistemi di regole, creano comunità e lavorano sulle relazioni”. Perché la matematica è un luogo di pluralità, di norme decise in maniera trasparente e conseguenze che devono essere chiare a tutti, in maniera democratica. È un’inversione del luogo comune della matematica come depositaria, invece, di ogni esattezza e verità definitiva, monolitica, dispotica. Di fatto dici che la matematica non è quello che la gente pensa.
Chiara Valerio: È vero, ci tenevo a dire – anche per un’indole, per una nota di carattere – che l’autorità non ha niente a che fare con le regole. Ho studiato per tantissimi anni una disciplina in cui le regole sono ferree, dipendono dal sistema in cui ti stai muovendo, e sono condivise, perché senza quella condivisione non riesci neanche a parlare con gli altri, e ho infine capito che in realtà la matematica, prima di tutto, è la disciplina più lontana dal principio di autorità in cui potessi imbattermi, e che soprattutto l’autorità e le regole – anche se sembrano la stessa cosa – hanno una natura molto differente.
L’autorità ha a che fare con una visione verticale della gestione delle cose, le regole hanno a che fare con una gestione orizzontale delle cose. Quindi questo libro prova a dire che sia la democrazia che la matematica si interessano in qualche modo all’asse orizzontale. Questo è il parallelismo. Tra l’altro storicamente il tempo viene rappresentato sull’asse delle ascisse, quindi sull’asse orizzontale.
Poi ci sono le differenze, fra matematica e democrazia. La matematica non tratta degli esseri umani: gli enti della matematica non sono persone. Gli enti della democrazia sì: questo ovviamente su una scala diciamo “tridimensionale” non consente il parallelismo, però dal punto di vista del linguaggio, il linguaggio che la democrazia rappresenta e che la matematica rappresenta, trovo ancora questa analogia convincente. Anche adesso che mi sono trasformata in chi legge il libro, e non sono più chi l’ha scritto.
AZ: Una delle parole che mi veniva in mente inizialmente, durante la lettura, è la parola gioco, proprio nel senso matematico della “teoria dei giochi”: quella in cui elabori un sistema, gli dai delle regole e fai partire la scintilla della vita, per vedere che succede.
E volendo fare un passo in più, una cosa bellissima dei giochi è che ti rendi conto che c’è un’enorme libertà, anche con pochissime regole. Cioè la generazione dei mondi, la generazione degli spazi è gigantesca, anche in un gioco apparentementi semplicissimo come per esempio Game of life di John Conway. O, se penso a cose più filosofiche, l’idea che tutta la complessità dell’universo possa essere racchiusa in poche regole computazionali che ancora dobbiamo scoprire, come da vent’anni propone Stephen Wolfram.
CV: Una delle prime cose che ho regalato a mio nipote è una piccola torre di Hanoi, un rompicapo di legno con alcuni dischi che devono essere spostati da un paletto ad un altro secondo una regola, che di fatto è un algoritmo ricorsivo. Già questo semplice gioco ci insegna immediatamente che c’è qualcosa che ha a che fare con i pezzi e qualcosa d’altro che ha a che fare con la combinazione di quei pezzi. Ed è nella combinazione che sta il divertimento.
Quando eravamo bambini – io sono nata nel 1978 – c’erano giochi fantastici come la tavola di Galton, in cui tante piccole sfere vengono lasciate scorrere su un piano, attraversano una specie di imbuto e sono infine ostacolate da tanti pioli che le fanno accumulare sul fondo secondo una curva a campana.
Quali sono i principi che governano la tavola di Galton? Essenzialmente la gravità, e dei pioli. Dalla gravità e dai pioli, da un gioco per bambini, viene fuori una curva alla quale ci affidiamo per descrivere gli andamenti di fenomeni molto diversi. Tu citi Game of life e Wolfram: mi fai venire in mente che stiamo parlando di sistemi in qualche modo ricorsivi e tutti i sistemi ricorsivi partono da quattro semplicissime regole – più semplice di certo della gravità e dei pioli – partono da quel singolo nastro immaginato da Alan Turing per la sua macchina, e in cui possiamo dire di essere completamente immersi, pur senza arrivare agli eccessi di Matrix.
Le mosse possibili in una macchina di Turing sono passo avanti, passo indietro, scrivi nella cella, cancella la cella. E la macchina di Turing è la base dei computer e del mondo moderno. Non ci vogliono tante regole per far nascere una vita varia e complessa.
Dopo aver scritto un codice, ci vuole un programma che compili quel codice, lo processi, lo renda esecutivo. Se i comandi sono pochi, i programmi compilatori sono complessi, se i comandi sono molti, i programmi compilatori sono leggeri. Voglio dire che le regole, dalla torre di Hanoi, ai comandi di coding, sono solo una parte del gioco, la parte più divertente e come combini le regole, cosa decidi di farci, quale mondo disegnano le regole e quali anfratti di quel mondo ti paiono non esistere, e poi invece esistono.
Il modo in cui combini le regole fa in qualche modo la vita. E fa anche la vita democratica. Questo volevo dire nel libro. Anche il non avere una regola è una regola. Non si esce da un sistema di convenzioni: non siamo esseri che possono vivere fuori un sistema di segni arbitrari e convenzionali.
AZ: Una cosa strana è che uno magari legge i cinque postulati di Euclide oppure legge la Costituzione italiana e in un qualche modo si assomigliano, in quanto sistemi di regole, in quanto “generatori di spazi”. L’interazione – in questo caso l’interazione tra regole – è quello che crea la complessità.
Uno potrebbe vedere quello che i giuristi chiamano il “combinato disposto”, ovvero il risultato dell’interpretazione congiunta di due o più norme, come uno spazio vettoriale generato dalle leggi. È d’altronde la parte più difficile: in questo senso, la giurisprudenza è lo studio dell’interazione di alcune leggi in uno spazio legale, la matematica è lo studio dell’interazione di alcune regole in uno spazio matematico.
CV: Tu dici che le regole sono generatori di spazi, e sì, ovviamente lo sono, possiamo quasi matematizzarlo. Nei secoli si sono accorti per esempio che lo spazio generato dai postulati di Euclide poteva cambiare quando, appunto, si modificava il postulato delle parallele. Il quinto postulato, ma ci sono voluti secoli e secoli per azzardarsi a dirlo, è logicamente indipendente dagli altri, poteva essere cambiato e generare un’altra geometria. I postulati non sono esattamente quello che in geometria si chiama “sistema di vettori linearmente indipendenti”, ma ci somigliano.
Quindi le regole, in questo caso i postulati, generano propriamente e anche metaforicamente uno spazio. Ecco, considerare la costituzione un “sistema di vettori linearmente indipendenti” è più complicato, perché appunto gli enti della della Costituzione sono esseri umani. Forse non serve neanche arrivare alla Costituzione per capire che negli spazi generati dagli articoli costituzionali non c’è questa lineare indipendenza… Anche riguardo le tavole della legge, i Dieci comandamenti di Mosè, non si può dire assolutamente che siano linearmente indipendenti. Una persona può dire falsa testimonianza ma non tradire la moglie, può nominare il nome di Dio invano ma non uccidere, cose così. Potrebbero essere interdipendenti. Ma mi piacerebbe poter vedere in 4 o 5 dimensioni per capirlo meglio… basterebbe poter vedere il tempo forse.
AZ: È molto affascinante questa idea di trovare un nucleo di regole, come dire se uno potesse asciugare la costituzione fino ai suoi numeri primi, per rimanere in metafore matematiche. Assiomi totalmente indipendenti ma che bastano, sono necessari e sufficienti a generare questo “spazio della Costituzione”. Ma non mi pare una roba di questo mondo.
CV: Anche perché noi sappiamo dal Terzo Secolo avanti Cristo che i numeri primi sono infiniti, mentre noi sappiamo sicuramente che quel sistema di regole non potrebbe essere infinito.
AZ: Tornando al discorso di prima, tu dici che quando c’è ricorsività c’è qualcosa di interessante. O ancora meglio: quando c’è qualcosa di interessante c’è ricorsività. Questa è la tesi del famoso libro Gödel, Escher, Bach, in cui Douglas Hofstadter mostra come al centro di cose diversissime come la vita, la coscienza, i paradossi, la musica di Bach o le grafiche di Escher, c’è sempre l’autoreferenzialità, un processo che guarda sé stesso. Anche il teorema di incompletezza di Gödel dice i numeri naturali, fra le cose più semplici che conosciamo, sono però complessi abbastanza da generare una matematica in cui noi sappiamo che ci saranno teoremi veri, ma non dimostrabili. Qualcosa che fino a Gödel non pensavamo neanche fosse possibile.
In un certo senso anche con il quinto postulato delle parallele ci si è resi conto che quello che sembrava un pilastro, uno dei cinque che doveva sostenere l’impalcatura della geometria, in realtà era una porta. E là fuori c’era un universo, un universo non euclideo.
CV: Ci abbiamo messo anche quasi duemila anni di pensiero ossessivo per capire le questioni intorno al postulato delle parallele. Negli anni mi sono convinta che abbia a che fare con il trasporto parallelo. Con l’espressione trasporto parallelo si intende, dal punto di vista geometrico, la traslazione di un vettore mantenendo costante l’angolo che il vettore forma con la superficie curva. Se l’angolo con la superficie è costante, gli oggetti che traslo – come nelle tavole di disegno tecnico a scuola – non si deformano. Ecco, penso davvero, come ho scritto nel libro, che la questione delle parallele abbia a che fare con il trasporto parallelo, quindi con l’idea che le nostre verità mantengano la forma che gli abbiano dato gli esseri umani. Se non esistesse geometricamente il trasporto parallelo, proiettando l’essere umano da qui all’eternità non è detto che esso mantenga la forma antropomorfa. Quindi in qualche modo secondo me la questione del postulato delle parallele è un buon esempio per dire che siamo esseri vanitosi ma che questa vanità ci porta pure talvolta a grandi scoperte.
Ovviamente la ricorsività – e credo che in fondo di esserci arrivata sempre da lì, da una cosa che non c’entra niente – però ha un’attitudine di rappresentazione –, la Recherche di Proust: laddove c’è ripetizione c’è senso di realtà. Perché questo? Un po’ perché siamo esseri ruminativi: nonostante tutti i nostri dispositivi digitali e tutta la velocità che ci è imposta non ci faccia tornare sulle cose – e che tornare sulle cose sembri quasi una perdita di tempo – in realtà naturalmente torniamo sulle cose. Malinconici neurologicamente perché l’area della memoria del passato è la stessa dell’immaginazione del futuro.
Quindi la ricorsività in qualche modo interpreta un’attitudine del pensiero umano, così come lo conosciamo noi oggi, nel 2020; l’attitudine a ripensare. Noi ripensiamo – certe volte con nostalgia, abbiamo rimorsi, abbiamo ripensamenti rispetto a delle verità che noi pensavamo accettate, anche verità sentimentali. La ricorsività in qualche modo fa questo. È vero che come dice Hofstadter quando c’è qualcosa di interessante lì c’è ricorsività. Ma io dico che quando c’è qualcosa di ricorsivo in fondo c’è qualcosa di estremamente umano.
AZ: Una cosa bellissima che dice Paolo Zellini, altro matematico e saggista, è che l’algoritmo è degli uomini: vive nello spazio e nel tempo, in uno spazio di memoria e in un tempo di esecuzione, al contrario della “matematica degli dei”, quella dei numeri – enti astratti che vivono nell’iperuranio di Platone. Quindi l’algoritmo è una chimera, divina e umana, non è un caso che sia alla base della nostra epoca attuale.
CV: E ti fanno pure vedere come si fa l’infinito! Matematicamente, lo abbiamo capito davvero solo con lo strumento degli algoritmi. Prima l’infinito era un’entità molto più astratta, con gli algoritmi ridiventa più concreto.
AZ: Tornando alla ricorsività, mi viene in mente che lo diceva anche Norbert Wiener, il fondatore della cibernetica che poneva il concetto di feedback (e quindi di ricorsività) alla base di ogni complessità. Invece di avere una scatola nera con input e output, con il feedback l’output si ritrasforma in input, e modifica come funziona la macchina stessa. Questo meccanismo è alla base, e lo stiamo scoprendo da decenni, di tutto ciò che è vita, coscienza, universo, tutto quanto.
CV: La cosa che mi ha sempre divertito è che ha congetturato il feedback lavorando alla precisione dei missili americani, per colpire gli obiettivi in mare. Quindi a Wiener, oltre alla genesi del mondo moderno, dobbiamo pure il gioco della battaglia navale. Lui ha formalizzato un gesto che ognuno di noi conosceva naturalmente.
Per me è speciale, uno dei più grandi matematici del secolo. Il mio professore di dottorato aveva studiato con un suo allievo, per cui mi sono trovata con tutti i suoi libri quando ero molto giovane, e leggerli è stata un’esperienza letteralmente lisergica: quando leggevo Dio e Golem mi sembrava di aver preso dell’LSD.
AZ: Tu parli di matematica come studio di relazioni, quindi anche di reti, che sono una delle metafore fondamentali di questo secolo, soprattutto in questi tempi pandemici.
CV: Dopo tanti anni di studio, penso che la matematica sia essenzialmente una scienza che si occupa delle relazioni tra gli enti e numeri. Numeri e numeri, enti ed enti. E che se fosse presentata così sarebbe naturale pensare del perché è una disciplina che si impara un passo dopo l’altro e che quindi, appresa un passo dopo l’altro, ti inocula, senza spiegartelo, ma costruendolo, un principio di causalità. Il principio di causalità è una grande bussola quando vivi in un mondo ricorsivo e che si struttura per reti. Il principio di causalità, è praticamente innato, arriva con i naturali. L’ho visto con mio nipote Francesco, dopo aver detto mamma e papà, mia sorella gli ha insegnato a contare. Contare fino a cinque, sulle dita di una mano. Quindi noi impariamo a contare fino a 5 prima ancora di imparare la grammatica italiana, senza sapere nulla di numeri naturali, immediatamente sappiamo tutto, perché la regola di costruzione dei naturali “coincide” con i naturali.
La questione dell’insegnamento è una questione cruciale ha a che fare con una cosa che ho letto tanti anni fa in un libro che ho molto amato, Possessione di Antonia Byatt (tradotto in italiano da Anna Nadotti per Einaudi). Possessione è un romanzo nel quale, secondo me, la Byatt ha voluto inserire i suoi poemetti vittoriani altrimenti impubblicabili (pur essendo lei Antonia Byatt). Intorno ai poemetti costruisce una specie di spy story dove ci sono due ricercatori, i quali dipendono da due professoroni, uno inglese e un’altra americana.
Quando i due si incontrano per spiegare alla BBC cosa sta succedendo, quale terremoto stia attraversando la letteratura inglese, cioè che Christabel LaMotte, che viveva con una donna, era invece fidanzata con Randolph Ash, e addirittura avevano avuto una figlia – e comincia a parlare Blackadder, l’inglese, ad un certo punto Leonora Stern, l’americana, lo ferma e gli dice: “Stop, James, do it sexy”, e comincia a dire la stessa cosa, ma diversamente.
Allora io penso che raccontare la matematica come una scienza di relazione sia fare quella cosa che faceva Leonora Stern con James Blackadder riguardo la letteratura vittoriana: cercare di renderlo accattivante. Questo perché noi impariamo a parlare essenzialmente per sedurre ed essere sedotti. Perché il linguaggio formale è una delle più grandi seduzioni!
Tant’è che porta alla mistica: se non fosse una delle più grandi seduzioni che noi abbiamo a disposizione, perché tutti i matematici alla fine della loro vita tendono al “teorema di Dio”? Anche Gödel, o Ennio De Giorgi; perché Paolo Zellini, il nostro grande studioso e teorico matematico, ritiene reali i numeri trasfiniti? Ecco: come si arriverebbe a queste ricerche se il linguaggio formale non fosse una forma di massima seduzione? Scendendo a piani più bassi, ai piani non di studio, ma di formazione – si confonde sempre la cultura che è un gesto singolo, un’intenzione, con l’istruzione che è un gesto collettivo, un diritto costituzionale –, ecco, scendendo al livello di formazione, perché non si può sottolineare che la matematica ha questa forma di seduzione basata sul fatto che è la scienza delle relazioni? Io vorrei dirlo, e lo dicevo sempre quando insegnavo a scuola, ci ho sempre creduto.
AZ: Una cosa che mi ha colpito la racconti all’inizio con l’aneddoto di Caccioppoli: “uno studente, durante un esame di risposte stentate, confessa al professore di essere innamorato della matematica e il professore risponde, in napoletano: – Guaglio’, ma nun si’ ricambiat’“. Mi ha fatto ridere perché io stesso dicevo spesso: “A me la matematica piace, sono io che non piaccio a lei”.
Tu però dici una cosa su cui io personalmente non sono ancora sicuro di essere d’accordo, cioè che la matematica è democratica, basta studiare. Tendenzialmente la studiamo male, ma tutti possono accedere. Questo è ovviamente vero, ed è invece sbagliata l’idea comune per cui la matematica è solo roba da geni e predestinati.
Dico così, ma non ne sono poi così convinto. Ricordo molto bene la fatica che ho fatto sui libri di matematica. Forse perché ho approcciato la matematica in maniera “sbagliata”, molto filosofica e romantica: che è uno degli approcci più sbagliati, perché poi ti scontri con tutto un apparato universitario che è tutto tranne che romantico o letterario: hai cinque esami di analisi, quattro di algebra, quattro di geometria, ecc.
Il fatto è questo: siamo poco abituati a pensare in spazi rarefatti, con pochi elementi. Altrimenti sarebbe più facile fare i finali degli scacchi, quando hai un re una torre e due pedoni. Più difficile certamente che fare un’apertura perché gli elementi sono pochi, ma lo spazio e le possibili interazioni sono di più. Come diceva Feynman, c’è un sacco di spazio: non fisico, ma matematico, combinatorio. Ecco, io trovo questa cosa spesso “poco umana”, perché noi non siamo per niente bravi a mettere ordine in spazi astratti, quando c’è pochissimo margine di errore. E questo secondo me rende la matematica comunque più facile per persone che, per mille motivi, sono più capaci e non hanno paura di questi spazi.
CV: Mi piace molto l’esempio della scacchiera perché mi permette di dire una cosa. A me piaceva giocare a scacchi; non ero particolarmente brava, però la mia capacità risiedeva nel fatto che quando cominciavo a giocare, i pezzi, per me, non erano solo i pezzi degli scacchi, ma anche le caselle. Man mano che perdevo i pezzi, guadagnavo caselle, avevo dunque una specie di numero di pezzi invariante.
Hai detto prima “mi ricorda la fatica che ho fatto a studiare matematica”: anch’io ho fatto tanta fatica, non sono di quelli che sono arrivati a capire gli spazi di Hilbert volando. Io ci sono sicuramente arrivata a nuoto, con estrema fatica. Però mi ricordo anche la soddisfazione di quando sono approdata e di cosa mi ha permesso dopo.
Io sono stata una bambina – forse il mio genere mi aiuta – piena di favole, dove per arrivare a conquistare la principessa, devi scalare la torre. Quindi l’idea di superare ostacoli molto alti per arrivare dove vuoi arrivare mi è stata raccontata da quando ero bambina. Quindi forse c’è una predisposizione di genere al contrario – rispetto a quello che si pensa – per la matematica: perché l’ostacolo non ti spaventa, non c’è altro modo.
AZ: Effettivamente io ho avuto tante colleghe in università, la matematica è spesso studiata da ragazze, tanto che non ho mai davvero capito il pregiudizio che fosse una cosa “da maschi”. Probabilmente rimane un grosso ostacolo – il classico soffitto di cristallo – per diventare professoresse o ricercatrici… per cui spesso le ragazze spesso non fanno ricerca ma vanno a insegnare a scuola. Forse è quindi sempre il solito discorso. Come con la scrittura, chi sa tenere il culo sulla sedia, chi sa studiare ce la fa.
D’altronde, provocando un po’, si potrebbe applicare il concetto di male gaze anche al quinto postulato di Euclide. Ci abbiamo messo dei secoli a interpretarlo diversamente: ad un certo punto ci doveva essere qualcuno pensasse in maniera differente, si lasciasse andare al diverso.
CV: Da domani dirò che l’ho pensata io questa cosa, me ne sono già appropriata. Perché è così… Ci ho riflettuto proprio qualche giorno fa, quando facevo un’intervista in radio. Pietro Greco, conduttore di Radio3 Scienza, mi ha chiesto: “Ma secondo te c’è una differenza tra il cervello maschile e il cervello femminile?”
E io per la prima volta ho capito e ho risposto: “Secondo me no. Però aspettiamo duemila anni per vedere se quella parte di cervello relazionale che ci è stata negata negli ultimi 1500 riusciamo a recuperarla nei prossimi secoli.” Anche questa è una cosa matematica: pensare che siamo esseri – maschi o femmine – che non vivono soli, e che quello che ci sta intorno è una forma di intelligenza. Gli altri sono la parte del nostro cervello fuori di noi.
A me questo piace della matematica, puoi negare per molto poco di sapere ciò che sai. Pensarlo mi dà un fresco senso di responsabilità. Se una cosa la sai, non puoi negare a lungo di saperla. Ti ha cambiato, come il feedback, ha cambiato il sistema.