D el riscaldamento globale si potrebbe dire, ben consapevoli della semplificazione, che abbia due leggi fondamentali, e che la prima reciti grosso modo così: più calore nell’aria significa più energia in circolazione. La seconda: l’energia accumulata nell’atmosfera sotto forma di calore si disperde in un sovrappiù di fenomeni meteorologici estremi. L’estate che ci lasciamo alle spalle, col suo diluvio mediatico di ghiacciai ai minimi storici, incendi disastrosi e inondazioni improvvise, ne ha dato una prova palese: le catastrofi naturali si moltiplicano in numero, è indiscutibile, e moltiplicandosi lasciano affiorare alcune ricorsività statistiche utili a immaginare il mondo che verrà. Con la crisi climatica l’umido diventa ancora più umido, l’arido sempre più arido, l’inconsueto si fa invece comune. Gli eventi rari aumentano di frequenza e con la frequenza cresce anche l’intensità perché, appunto, il clima che si riscalda carica l’atmosfera di un’energia inedita.
Con queste due leggi fisse in testa, prima dell’ultima estate progettavo di scrivere dalle frontiere della crisi climatica, di collocarmi cioè in quegli hot spot del pianeta in cui il riscaldamento globale procede oggi più celere e vistoso, per osservarne da vicino gli effetti sui luoghi e sulle persone, e raccontare come queste provino a mitigarli o ad adattarvisi, ne traggano vantaggio o ne vengano al contrario soggiogate. L’impressione, però, è che il riscaldamento globale riguardi ormai tutto il mondo, non è più lontano nel tempo o nello spazio: è qui, ora, ovunque e in ogni momento. So che se non sono io ad andare alla crisi climatica sarà lei a venire da me – presto o tardi, in una forma o nell’altra. Si tratta soltanto di saper riconoscere l’invisibile prima che appaia in una forma visibile. E di abituarsi sin da ora a convivere con la natura potenzialmente catastrofica di quella forma.
Quando ci si propone di raccontare l’impatto del riscaldamento del clima sui luoghi e sulle persone si attinge, alternativamente, alla retorica del collasso oppure a quella della resilienza.
I cambiamenti climatici di oggi hanno origine tre secoli fa, ne siamo al corrente da almeno sessant’anni, ma in questi ultimi tempi sono diventati evidenti per chiunque. Anche se non avanza in maniera scalare e uniforme, il riscaldamento del clima è un fenomeno inevitabilmente globale, una forza diffusa che si irradia dappertutto: la sua fantomatica invisibilità è soltanto un difetto dell’occhio distratto che lo osserva. Il mondo è già cambiato, questo dovremmo averlo ormai capito, anche se lo sguardo parziale che gettiamo sul quotidiano non ci permette di vedere con chiarezza quanto. L’impressione complessiva è che nel tempo della crisi climatica vivremo in ambienti radicalmente differenti, distanziati da poche decine di chilometri: qui vivibili, là diventati già inospitali. Indipendentemente da dove ci si trovi, sarebbe un azzardo morale considerarsi del tutto al sicuro.
Quando ci si propone di raccontare l’impatto del riscaldamento del clima sui luoghi e sulle persone che li abitano, appare spesso irresistibile la tentazione di ricorrere a un repertorio narrativo che attinge, alternativamente, alla retorica del collasso oppure a quella della resilienza – la capacità di un sistema ecologico di ritornare al suo stato iniziale dopo una perturbazione. Le narrazioni del collasso hanno in genere un effetto anestetico, sedativo nei confronti dei tentativi di adattamento al riscaldamento globale, mentre quelle della resilienza possono al contrario abbagliare con un’immagine esageratamente consolatoria e ottimistica, perciò altrettanto distorta, delle comunità alle prese col riscaldamento globale. Si prenda l’inondazione che nel 1993 travolse il piccolo villaggio benestante di Valmeyer, nell’Illinois. In un primo momento gli abitanti si rassegnano a trasferirsi altrove, poi un agricoltore locale offre loro i terreni per ricostruire la cittadina su una collina poco lontano, 121 metri più in alto del livello del mare. Sorge così New Valmeyer, esempio tra i più sbandierati al mondo di adattamento resiliente ai cambiamenti climatici. Eppure, come fa notare Rachel Hellman sul Guardian, più che la regola, Valmeyer rappresenta l’eccezione: a decretarne il successo furono un reddito pro-capite sopra la media, l’attenzione non comune dei giornali nazionali per una piccola, pacifica e indifesa comunità borghese, l’immediata mobilitazione collettiva per il reperimento e lo sblocco dei fondi utili alla ricostruzione.
Per ogni comunità che si adatta con successo al clima che cambia se ne contano svariate di più che finiscono immancabilmente per fallire.
È questa combinazione di fattori tutt’altro che scontata ad aver fatto di Valmeyer un caso di resilienza, anziché di collasso. Non sempre va così, anzi quasi mai: per ogni comunità che si adatta con successo al clima che cambia, come Valmeyer, se ne contano svariate di più che finiscono immancabilmente per fallire. Sempre Hellman racconta che a Princeville, in North Carolina, hanno atteso vent’anni i fondi per riparare il terrapieno a protezione della città devastato dall’uragano Floyd nel 1999 e poi di nuovo nel 2016, dall’uragano Matthew. Più di recente, i terreni resi instabili dallo scioglimento del permafrost di Napakiak, in Alaska, hanno spinto la comunità locale di Yup’ik a mettere a punto un piano di ritiro nell’entroterra, ma mancano i finanziamenti federali per il ricollocamento. A Taholah, nello stato di Washington, l’erosione delle coste minaccia la comunità di nativi della Quinault Indian Nation, che ha chiesto, senza successo, di potersi reinsediare più in altura. Storie di mancata resilienza dai ricchi e potenti Stati Uniti: figurarsi quel che accade, o potrà presto accadere, nei luoghi più indigenti del pianeta.
Eppure adoriamo più che mai pensarci resilienti: come individui e come comunità, tanto nei confronti dei traumi personali quanto delle catastrofi collettive. Abusata dalla retorica che ha accompagnato gli ultimi mesi di pandemia di COVID-19 e cooptata dai centri di potere come dal marketing pubblicitario, “resilienza” è oggi una parola talmente logora da risultare tautologica, inservibile, svuotata del suo significato. Pare potersi applicare ad ogni ambito della vita, spopola nei titoli dei manuali di how-to, sembra aver colonizzato il vocabolario di tutti: delle società di consulenza aziendale che propongono di sostituire la filosofia del just in time con quella del just in case (pianificare le scorte per essere pronti alle emergenze), degli psicologi della catastrofe a caccia di pazienti con disturbo da stress post-traumatico, dei governi nazionali e dei ministri della transizione energetica in cerca di appellativi alla moda per nominare i propri ambiziosi piani di investimento in ripresa economica e sostenibilità. La spettacolarità lessicale del termine resilienza è oggi tale che non manca chi, come ha fatto la linguista Maria Vittoria D’Onghia, si adopera per mettere in discussione l’utilità analitica di questa parola passe-partout.
Di fronte agli effetti della crisi climatica la resilienza si rivela una qualità quanto mai sopravvalutata.
Di fronte agli effetti della crisi climatica la resilienza si rivela una qualità quanto mai sopravvalutata, largamente meno veritiera del suo contrario, una condizione con un nome ben preciso: isteresi, l’incapacità di un sistema di ritornare a uno stato di equilibrio dopo uno shock. Diversamente da resilienza, isteresi è un termine oggi in disuso e gode di una notorietà pressoché nulla, ma si tratta comunque di un concetto ampio, versatile, capace di scavalcare gli steccati disciplinari. In fisica e in biologia indica il sistema che, sottoposto a pressione esterna, anziché adattarsi e conservare l’omeostasi, rimane deformato. In sociologia si parla di isteresi dell’habitus: i nostri modi di fare, alle volte, non si adeguano alle trasformazioni del contesto sociale in cui viviamo, o lo fanno con una certa latenza. Pierre Bourdieu, il primo ad adottare il termine nelle scienze sociali, cita a titolo di esempio Don Chisciotte: cavaliere in un mondo in cui non esiste più la cavalleria, pervicace ai suoi valori al punto da non accorgersi che il milieu in cui acquisivano di significato è già da tempo scomparso. In psicologia l’isteresi ha preso il nome di “trappola astrusa”, la tendenza degli individui a perseverare in un’azione anche quando è irragionevolmente costosa, nociva o insensata rispetto alle mutazioni dell’ambiente.
Il termine isteresi compare anche tra le pagine di Convivere con la catastrofe. Piccolo manuale di collassologia (Treccani 2021) di Pablo Servigne e Raphaël Stevens. I due collassologi ricorrono al concetto per indicare una delle modalità canoniche con cui un sistema socio-ambientale risponde a un pattern di crescita esponenziale che lo sottopone a una pressione interna o esterna. Così, alle prese col riscaldamento globale, siamo come una popolazione di conigli che si riproduce su un prato di dimensioni finite: la crescita può rallentare a poco a poco fino a stabilizzarsi e a raggiungere un nuovo equilibrio con l’ambiente, oppure può superare la soglia massima che il prato può sostenere e determinare un degrado irreversibile del prato stesso così come della qualità vita dei conigli, o infine può sfondare il limite e continuare ad accelerare fino al collasso dell’ambiente e della popolazione che lo abita. Il secondo scenario, tra la mitigazione e il collasso, è quello dell’isteresi: una volta guastato, l’ambiente è compromesso e non torna più com’era prima, rimane alterato, anelastico all’urto che ha subito. Ci si può solo adattare al fatto che non possa essere ripristinato in tempi ragionevolmente brevi.
Tra la mitigazione e il collasso, c’è l’isteresi: una volta guastato, l’ambiente è compromesso e non torna più com’era prima. Ci si può solo adattare al fatto che non possa essere ripristinato in tempi ragionevolmente brevi.
A differenza dei conigli che proliferano su un prato, col riscaldamento globale il nostro problema principale non è dettato dall’aumento della popolazione, ma dei consumi e delle emissioni che in nessun modo riusciamo a frenare. L’isteresi climatica ha poi una caratteristica che è sua e sua soltanto: quando gli effetti dell’aumento delle temperature diventano finalmente visibili, spesso è già tardi per fare qualcosa. “Prendete l’immagine di un interruttore su cui si esercita una pressione crescente”, esemplificano Servigne e Stevens. “All’inizio non si muove, aumentate e mantenete la pressione, non si muove ancora, e poi, a un certo punto, clic! Passa a uno stato completamente diverso da quello iniziale”. Per lungo tempo si è creduto che gli ecosistemi rispondessero alle perturbazioni in modo incrementale ma graduale. Oggi sappiamo invece che il riscaldamento del clima ci proietta in una condizione di discontinuità improvvise, accadimenti emersivi imprevedibili e, per usare una formula coniata dal filosofo Jean-Pierre Dupuy, di “temporalità invertite”: la catastrofe diventa per noi possibile solo a posteriori, quando ormai l’interruttore ha già fatto clic. Imparare a cogliere i segnali premonitori del clima che si scalda non offre allora alcuna garanzia che il sistema non sia già transitato allo stato successivo, catastrofico e non più prevenibile.
Se così stanno le cose, più che cullarci nel mito rassicurante della resilienza, dovremmo cominciare a “pensare con l’isteresi”: fare il callo all’idea che prima o poi potremmo ritrovarci a vivere in un mondo precario e diminuito, irripristinabile nelle condizioni di abbondanza che precedevano l’escalation di catastrofi. “Pensare con l’isteresi” significa anche riconoscere, come fanno Servigne e Stevens, che abbiamo creato sistemi socio-tecnici giganteschi e monolitici, nient’affatto flessibili eppure indispensabili a mantenere le attuali condizioni di vita di miliardi di persone: questi sistemi “non solo impediscono qualsiasi transizione, ma non possono nemmeno più permettersi di essere provocati, altrimenti collassano”. Si immagini se, dall’oggi al domani, si smettesse di bruciare petrolio: nel loro Climate After Growth (2013) Asher Miller e Rob Hopkins calcolavano che un solo barile equivale a circa 24.000 ore di lavoro umano, ovvero undici anni con un carico di quaranta ore settimanali. Nel momento in cui scrivo si consumano globalmente quasi 100 milioni di barili di petrolio al giorno: come si possa vivere, senza una fonte sostenibile e rinnovabile che rimpiazzi tutta quell’energia, è la grande incognita del nostro tempo.
Gli ecosistemi naturali e la biodiversità non si piegano al riscaldamento globale senza spezzarsi. Noi umani non ci adatteremo alla crisi climatica senza sacrificare nulla di noi stessi.
Siamo prigionieri dei combustibili fossili, del sistema finanziario e del debito pubblico, di un modello inscalfibile di crescita materiale attorno al quale sono state modellate tutte le nostre istituzioni e aspettative. “Il paradosso”, osservano Servigne e Stevens, “è piuttosto comico: per sperare di sopravvivere, la nostra civiltà deve lottare contro le fonti del proprio potere e della propria stabilità”. Ai lock-in del sistema energetico, finanziario e produttivo si combina poi la path-dependence (“dipendenza dal percorso”) delle evoluzioni tecnologiche attuali, determinate dal passato e dirette a risolvere i problemi delle innovazioni precedenti in una spirale che si avvita su se stessa, facendosi via via sempre meno resiliente agli shock esterni. Anche le città in lotta contro il tempo per adattarsi al riscaldamento globale è come se cambiassero continuamente, ma mai abbastanza da tenere il passo del clima: quanto in alto salire sul livello del mare? Quanto a fondo scavare i bacini imbriferi di cattura delle acque piovane? Quale parte del patrimonio urbano conservare e a cosa, invece, rinunciare?
Le città sbilanciate dai cambiamenti climatici non crollano senza ferirci. Gli ecosistemi naturali e la biodiversità non si piegano al riscaldamento globale senza spezzarsi. Noi umani non ci adatteremo alla crisi climatica senza sacrificare nulla di noi stessi. Riconoscere l’isteresi climatica significa fare esercizio di accettazione nei confronti di tutto ciò che il riscaldamento globale esigerà di sottrarci. A livello macroeconomico, sostengono Servigne e Stevens, dovremo inventare un’economia di “discesa energetica” e allargare lo spazio a beneficio di tutti i modelli alternativi di società oggi ai margini, dall’agroecologia alla decrescita. Sul piano personale, invece, c’è chi suggerisce che dovremo liberarci dalla nostra pretesa di stanzialità, dal nostro bisogno di controllo, dall’illusione di possedere il posto in cui nasciamo e da tutte quelle altre scorciatoie di pensiero che ci ostacolano nel vedere un mondo già cambiato. Continuare a pensarsi resilienti è soltanto un inganno della mente.