Che rapporto c’è tra mente e cervello? È possibile costruire una macchina che riproduca tutte le capacità cognitive umane? Quali altri esseri viventi hanno una mente, e come possiamo concepirla? Come tenere insieme i nostri valori etici ed estetici con la nostra storia naturale? Domande come queste sono oggetto di intense ricerche nelle scienze cognitive. Ma questi problemi, e molte delle idee e argomentazioni con cui li si affronta oggi, risalgono a una ricerca che procede ininterrotta fin dall’epoca della rivoluzione scientifica. Questo fatto è solitamente trascurato o poco conosciuto tra scienziati e filosofi. Si dimentica così l’origine di queste ricerche nel profondo mutamento nelle scienze e nelle idee di natura che ha attraversato gli ultimi secoli. Tra le conseguenze di questo oblio ci sono la rappresentazione riduttiva di pensatori e scienziati del passato, e la ripetizione inconsapevole di passaggi teorici che sono stati già ampiamente discussi. Riconsiderare questa origine è necessario per fare i conti con le nostre domande e le loro ragioni.
In La natura della mente. Da Cartesio alle scienze cognitive (Carocci 2023) Paolo Pecere ripercorre questa storia partendo dalla crisi dell’aristotelismo e dalle nuove filosofie di Cartesio e Galilei all’inizio del Seicento, per arrivare fino ai dibattiti contemporanei. Per la prima volta le idee di autori classici come Spinoza e Newton, Kant e Darwin, William James e Freud, insieme a figure meno note ma importanti come Margaret Cavendish e Emil du Bois-Reymond, sono presentate e collegate con le ricerche di scienziati e filosofi contemporanei, tracciando il profilo di cinque secoli d’indagini collegate da un filo conduttore: la domanda su come il punto di vista dell’esperienza soggettiva può essere accordato con quello della scienza della natura. Pubblichiamo un estratto dell’introduzione, dove si presenta il primo protagonista di questa storia: Cartesio.
I progressi delle neuroscienze negli ultimi decenni hanno suscitato straordinarie aspettative nel campo delle scienze cognitive e nella cultura di massa. L’enorme crescita di dati e di modelli dei correlati neurali dei processi cognitivi e affettivi ha lasciato intendere che i quesiti sollevati dalla filosofia antica potrebbero finalmente essere risolti nel nuovo ambito interdisciplinare della “neurofilosofia”.
Patricia Churchland nel 1986 ha affermato l’imminenza di una nuova rivoluzione scientifica: la formulazione di una teoria meccanicistica della “mente-corpo” che, “nella sua capacità di ribaltare le eterne verità del senso comune”, sarebbe “almeno l’equivalente delle rivoluzioni copernicana e darwiniana”. Sono state definite altre speciali neurodiscipline, che avrebbero il compito di organizzare indagini congiunte del cervello e della mente e, in certi casi, di ravvivare i campi illanguiditi delle scienze umane. D’altronde, oggi vi è una crescente consapevolezza tra i neuroscienziati che il loro campo può trarre beneficio dalla riflessione filosofica su nozioni che compaiono nei protocolli sperimentali, come “localizzazione” e “coscienza”, per valutare il potenziale delle loro ipotesi esplicative.
Tuttavia, la prospettiva che ambiziosi programmi di ricerca neuroscientifici siano in grado di risolvere i problemi della filosofia della mente è stata anche messa in dubbio. In effetti, non è evidente che il progresso empirico nella scienza sia andato di pari passo con il progresso filosofico. Molti filosofi hanno recentemente messo in discussione la presunta evidenza delle tecniche di neuroimaging, sostenendo che esse suggeriscono un quadro semplicistico dei processi cerebrali, se non un’esagerazione delle nostre conoscenze (per esempio Adina L. Roskies, nel 2007 o Colin Klein nel 2010).
Molti filosofi hanno recentemente messo in discussione la presunta evidenza delle tecniche di neuroimaging, sostenendo che esse suggeriscono un quadro semplicistico dei processi cerebrali, se non un’esagerazione delle nostre conoscenze.
Dato che il neuroimaging ha aumentato le aspettative sia nella comunità scientifica sia nella cultura popolare, filosofi e psicologi hanno messo in guardia contro il rischio che il “neuroentusiasmo” possa condurre a malintesi, parlando per esempio di “ciberfrenologia” (Michael Hagner) e di “neuromitologia” (Brigitte Falkenburg). Dato che gli esperimenti non possono far altro che indicare i correlati neurali dei processi cognitivi, cioè le aree cerebrali che si attivano in concomitanza con essi, i critici sostengono che le scoperte empiriche devono essere interpretate in una prospettiva filosofica se si vuole espandere la nostra conoscenza e possibilmente il nostro controllo dei processi mentali. Ma la ricerca di una prospettiva filosofica ha determinato un diffuso disaccordo anziché condurre a un progresso riconosciuto. Più di trent’anni fa Daniel Dennett, sebbene fosse pienamente convinto del valore delle scoperte delle neuroscienze per la filosofia, già lamentava la difficoltà di fermare l’”infruttuosa oscillazione del pendolo” che passa per le diverse teorie filosofiche della mente come il dualismo e la teoria dell’identità.
Alla luce di queste controversie, oggi sarebbe difficile costruire una narrazione lineare e progressiva dell’indagine filosofico-scientifica sulla mente, il cervello e la conoscenza, come fece Alexandre Koyré con l’astronomia e la fisica nel suo famoso libro Dal mondo chiuso all’universo infinito, ma è ancora più importante riesaminare e connettere i particolari di questa vicenda. Negli ultimi decenni, la ricerca storica ha riconsiderato la filosofia antica e moderna alla luce delle scienze cognitive. Eppure i filosofi della mente e i neuroscienziati raramente prendono in considerazione questo contesto, con la conseguenza che i concetti e i problemi vengono analizzati senza tener conto sufficientemente delle precedenti elaborazioni, le argomentazioni del passato sono spesso inconsapevolmente ripetute e immagini confuse o errate di famosi filosofi del passato – come René Descartes e Immanuel Kant – sono impiegate per misurare i progressi nel campo.
L’obiettivo che mi sono proposto nella scrittura di La natura della mente è quello di includere in un’unica narrazione la ricerca moderna e contemporanea sulla mente, sul cervello e sulla conoscenza, al fine di descrivere lo sviluppo delle teorie filosofiche e scientifiche nel loro contesto storico, di esaminare problemi ricorrenti e di evidenziare elementi di continuità e discontinuità a lungo termine.
Il punto di partenza della mia ricostruzione è Cartesio, per una serie di ragioni. Le nostre nozioni di anima e di mente sono originariamente radicate in antiche e complesse tradizioni, che comprendono la filosofia greca, latina e araba. Anche la neuroanatomia e la neurofisiologia sono radicate nell’antichità, soprattutto nella medicina ellenistica e romana, tuttavia, i tratti più caratteristici delle scienze cognitive sono più direttamente correlati alla rivoluzione scientifica nella filosofia del xvii secolo, e in particolare al pensiero cartesiano. Descartes formulò il progetto di una spiegazione meccanicistica e neurofisiologica della conoscenza e al tempo stesso pose il problema dei suoi limiti, sia in una prospettiva epistemologica (il meccanicismo è in grado di spiegare qualsiasi processo cognitivo?) sia in una prospettiva metafisica (che cos’è la mente e in che modo possiamo concepire la sua presenza nel mondo della fisica moderna?).
Oggi sarebbe difficile costruire una narrazione lineare e progressiva dell’indagine filosofico-scientifica sulla mente, il cervello e la conoscenza, ma è ancora più importante riesaminare e connettere i particolari di questa vicenda.
Queste domande diedero inizio a una discussione che è continuata fino a oggi. Allo stesso tempo, la metafisica cartesiana ruppe per molti versi con le precedenti concezioni dell’anima e della mente, come le teorie aristoteliche e neoplatoniche dell’anima, sostenendo che fossero inadeguate a guidare l’indagine filosofica della natura. Su questo sfondo, la tesi metafisica di Descartes secondo cui l’essere umano è composto da due sostanze distinte e tuttavia unite, caratterizzate rispettivamente dal pensiero e dall’estensione, rappresentò un nuovo inizio. Nel suo sistema filosofico, questa nuova metafisica era la radice dell’albero della conoscenza, la fisica meccanicistica era il tronco e i rami erano riducibili a tre scienze: meccanica, medicina e moralità. Questo programma interdisciplinare ha lasciato un segno riconoscibile nelle scienze cognitive odierne.
D’altra parte, Descartes doveva molto alla filosofia aristotelico-scolastica che intendeva superare. Aristotele concepiva la scienza dell’anima come parte della scienza della natura. Nella psicologia aristotelica, gli affetti non sono concepibili senza il corpo; per esempio, la rabbia era inseparabile dal sangue caldo (Aristotele, De anima). Il filosofo considerava l’anima in generale come l’atto del corpo, corrispondente alle sue diverse operazioni (simile alla vista per l’occhio). Quindi “l’anima non esiste senza un corpo e tuttavia non è un corpo”. In particolare, Aristotele sosteneva che l’intelletto poteva corrispondere a una sostanza separata, mentre le altre facoltà non potevano essere separate dal singolo animale.
Descartes non ruppe del tutto con queste tesi, ma respinse i concetti di atto e potenza che erano alla base della fisica aristotelica e formulò nuove concezioni dell’anima e della materia alla luce della sua nuova fisica meccanicistica. In generale, non si può recuperare la vecchia concezione storiografica di un improvviso tramonto delle idee neoplatoniche e aristotelico-scolastiche a partire dal xvii secolo; ma è stato necessario riformulare significativamente queste idee per rispondere all’ascesa della filosofia meccanica come modello alternativo per comprendere il corpo e la mente. Nel libro ho preso in considerazione numerosi casi che documentano la presenza persistente di tali tradizioni all’interno della filosofia naturale moderna. Lo stesso Descartes offre una buona prospettiva sul complesso intreccio di tradizioni che hanno contribuito a una filosofia che si presentava come radicalmente nuova.
Descartes è anche un perfetto esempio del problema della cattiva rappresentazione dei predecessori. Filosofi della mente e neuroscienziati citano regolarmente la filosofia cartesiana per le sue formulazioni innovative e influenti di problemi ancora attuali, ma questa immagine è molto controversa. L’obiettivo di superare l’erroneo “dualismo della sostanza” di Descartes è un luogo comune. Paul Churchland ha scritto che, “per come la vedeva Descartes, il vero te non è il tuo corpo materiale, ma piuttosto una sostanza pensante non spaziale, un’unità individuale di sostanza mentale [mind-stuff ] ben distinta dal tuo corpo materiale”. Antonio Damasio, com’è noto, nel 1995 ha descritto “l’errore di Descartes”, cioè «l’abissale separazione tra corpo e mente», come l’ostacolo fondamentale a una teoria neuroscientifica del sé e delle emozioni.
La tesi metafisica di Descartes secondo cui l’essere umano è composto da due sostanze distinte e tuttavia unite, caratterizzate rispettivamente dal pensiero e dall’estensione, rappresentò un nuovo inizio. Il suo programma interdisciplinare ha lasciato un segno riconoscibile nelle scienze cognitive odierne.
D’altra parte, Descartes è stato riconosciuto anche tra coloro che più contribuirono all’ascesa della scienza meccanicistica. La sua spiegazione del movimento e della conoscenza fu celebrata quale modello esemplare da importanti neurofisiologi, come Emil du Bois-Reymond e Charles Sherrington, e da importanti sostenitori della neuropsicologia meccanicistica, come Thomas Huxley e Ivan Pavlov. Questa è ancora una visione comune nelle neuroscienze, per cui il dualismo metafisico cartesiano può apparire come una stranezza, ed è stato ipotizzato che esso sarebbe potuto dipendere da modelli scientifici antiquati. Patricia Churchland ha sostenuto che Descartes, “anche se era un convinto meccanicista […] semplicemente non poteva immaginare come un dispositivo meccanico potesse essere progettato in modo da seguire le regole del ragionamento e usare il linguaggio in modo creativo” e perciò avrebbe concluso che «il ragionamento implica una sostanza non fisica”. La sua immaginazione scientifica si basava sul modello delle “macchine degli orologi e delle fontane” e perse la sua plausibilità di fronte alle “moderne macchine manipolatrici di simboli” (cioè i computer). In questa prospettiva, il suo caso andrebbe visto come un monito ai critici contemporanei del fisicalismo, le cui argomentazioni possono suonare “nuove e intelligenti”, ma le cui “intuizioni determinanti sono chiaramente cartesiane”.
Dennett ha formulato anche un’obiezione epistemologica al dualismo cartesiano: l’interazione della mente e del corpo nella ghiandola pineale non forniva alcuna spiegazione dei processi mentali e inoltre violava il principio della conservazione dell’energia, aggiungendo così nient’altro che incoerenza al nostro sapere. Descartes è perciò un modello degli inconvenienti tipici del dualismo: “Questo atteggiamento profondamente antiscientifico del dualismo è, a mio avviso, la sua caratteristica più squalificante […]. Non che io pensi di riuscire a dare una di quelle dimostrazioni che stendono al tappeto la tesi avversaria, che proclami il dualismo, in tutte le sue forme, falso e incoerente. Ma, visto il modo in cui il dualismo sguazza nel mistero, accettare il dualismo significa rinunciare a capire”.
Una minoranza di studiosi ha difeso una diversa immagine di Descartes come criptomaterialista: un’idea che circolava già nel libertinismo clandestino e radicale dal xvii secolo. Il neuroscienziato Jean-Pierre Changeux ha sostenuto che il programma meccanicistico cartesiano tendeva intrinsecamente al materialismo, e in effetti era «un primo modello connessionista dell’architettura funzionale del sistema nervoso». Changeux vedeva il meccanicismo cartesiano come uno sviluppo moderno dell’atomismo materialista di Democrito e sosteneva che il filosofo, preoccupato dal pericolo della censura e della persecuzione della Chiesa cattolica, in cui erano incorsi Giulio Cesare Vanini e Galileo Galilei, potrebbe non aver espresso le sue vere convinzioni (Changeux, Ricoeur, 1999, pp. 33-40). Una connessione indiretta di Descartes con il materialismo è riemersa anche negli scritti dei filosofi contemporanei che hanno voluto collegare il cartesianismo con gli eccessi del fisicalismo neuroscientifico. Hilary Putnam (2012, p. 281), in particolare, ha denunciato il “materialismo cartesiano” della filosofia della mente contemporanea: mentre Descartes aveva ridotto la mente umana a un’anima separata dal corpo, i neurofilosofi moderni hanno riformulato questo errore nei loro termini, cercando di identificare la mente e la personalità con il cervello, da cui la conclusione riduttiva “tu sei il tuo cervello”.
Oltre a essere biasimato come arcidualista o, al contrario, criptomaterialista, il pensiero cartesiano è stato anche rivalutato per la sua scoperta lungimirante secondo cui la mente cosciente costituirebbe un’eccezione nel programma meccanicistico della scienza moderna e le proprietà soggettive non andrebbero ridotte a descrizioni oggettive. Certamente questa rivalutazione del dualismo è stata per lo più concepita in una prospettiva naturalista, in termini di un dualismo delle proprietà piuttosto che delle sostanze. In ogni caso, essa ha stimolato un ritorno al problema di come collegare la coscienza ai meccanismi neurali (per esempio nelle ricerche di Gerald Edelman e di Giulio Tononi).
Nel complesso c’è stato un disaccordo sostanziale sul significato da attribuire alla filosofia cartesiana nella prospettiva delle questioni contemporanee. Il fatto più sorprendente, però, è che filosofi e scienziati non hanno pertanto ritenuto opportuno riconsiderare la posizione originale di Descartes alla luce della ricerca storica.
Nel complesso, come dimostrano questi esempi, c’è stato un disaccordo sostanziale sul significato da attribuire alla filosofia cartesiana nella prospettiva delle questioni contemporanee. Il fatto più sorprendente, però, è che filosofi e scienziati non hanno pertanto ritenuto opportuno riconsiderare la posizione originale di Descartes alla luce della ricerca storica. Il cosiddetto “dualismo” o “interazionismo” cartesiano è stato interpretato alla luce di teorie successive (si pensi ai riferimenti di Dennett alla legge della conservazione dell’energia violata dal dualismo, ai paragoni di Churchland con i modelli dell’intelligenza elaborati con le reti neurali, e, ancora, alla definizione di “coscienza fenomenica” impiegata da David Chalmers per discutere i limiti del materialismo). La ricostruzione delle argomentazioni cartesiane non è stata ricavata da un’analisi diretta dell’Uomo, delle Meditazioni o delle Passioni dell’anima; raramente sono state prese in considerazione le analisi sia contestuali che testuali elaborate dagli studiosi contemporanei. Di conseguenza, Descartes appare come un personaggio dai tratti offuscati, se non un uomo di paglia, e la ricerca contemporanea tende a distorcere, dimenticare o riformulare inconsapevolmente importanti intuizioni che egli elaborò per affrontare i problemi che ancora danno da pensare, tra cui – a dispetto dell’insistenza sul “dualismo” – quello dell’unità di mente e corpo.
Estratto da La natura della mente di Paolo Pecere (Carocci, 2023).