L’ 11 settembre 1797, un manipolo di soldati dell’esercito rivoluzionario francese irrompe nel monastero benedettino sull’isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia. La tela che si trova nel refettorio viene smontata dalla parete e tagliata in sette strisce. Il bottino di guerra verrà riassemblato una volta valicate le Alpi, dove lo si può ammirare tutt’ora: le Nozze di Cana si trova al Louvre, condivide la Salle des États con la più celebre Monna Lisa. Passano più di due secoli quando l’11 settembre 2007, per volontà della Fondazione Cini, il dipinto fa finalmente ritorno nel refettorio palladiano, anche se in forma di copia. Il facsimile riproduce l’opera nella sua interezza, imitando sia le pennellate naturalistiche del Veronese sia le cicatrici lasciate dagli squarci praticati dai commissari napoleonici.
Nello stesso anno, un gruppo di studiosi si trova a discutere del dipinto trafugato e restituito in forma di copia, soffermandosi in particolare sulle sue implicazioni tanto per la storia dell’arte quanto per la storia dell’umanità tout court: in cosa consiste la tradizione, e qual è il suo rapporto con l’innovazione? Soprattutto, quale può essere il ruolo delle nuove tecnologie nel catturare e conservare il presente, e tramandarlo in quanto passato? Non stupisce di trovare, tra le voci che hanno provato a offrire una risposta a queste sollecitazioni, quella di Carlo Ginzburg, il cui saggio scritto per quell’occasione – Testi invisibili, immagini visibili – conclude la nuova edizione della raccolta Miti emblemi spie (Adelphi, 2023).
Carlo Ginzburg ha insegnato storia moderna a Bologna, Harvard, Yale, Princeton e Los Angeles, oltre che alla Normale di Pisa, dove si è formato. Insieme a Edoardo Grendi, Carlo Poni e Giovanni Levi è considerato uno dei fondatori della microstoria, un approccio che è stato in grado di trasformare profondamente la storiografia contemporanea. Sotto il microscopio di Ginzburg, la biografia di un mugnaio processato per eresia per le sue credenze sull’origine del cosmo e le vicende dei contadini che si battevano con gli stregoni per proteggere le messi si sono trasformate in potenti prismi attraverso cui rileggere la storia della prima età moderna, con particolare riguardo per il singolare e il subalterno. Con Giovanni Levi, Ginzburg ha diretto per Einaudi la collana Microstorie, per la quale sono usciti alcuni testi fondativi del nuovo canone storiografico come L’eredità immateriale di Levi (1985) e Il ritorno di Martin Guerre di Natalie Zemon Davis (1984). Miti emblemi spie raduna diversi saggi che setacciano le implicazioni del prefisso “micro-”, sondando il complesso rapporto tra morfologia e storia — ossia tra “connessioni tipologiche o formali e connessioni storiche”, come scriveva lo stesso Ginzburg nella prefazione alla prima edizione del 1986.
Indossata la lente della microstoria, l’indagine di Ginzburg spazia dal rapporto tra cultura inquisitoriale e pietà popolare alla relazione tra inconscio individuale e repertori culturali, posta al centro di un saggio che propone un’interpretazione storica del caso clinico Der Wolfsmann — l’uomo dei lupi reso celebre da Sigmund Freud. Ma Ginzburg sviscera anche il problema della trasmissione di testi e immagini, concentrandosi in particolare sulle conseguenze che la loro concatenazione intertestuale ha per il lavoro dell’ermeneutica storica. L’intento è quello di ricostruire le coordinate di una proposta metodologica in grado di accettare la complessità del reale e misurarsi con la molteplicità di informazioni a nostra disposizione senza per questo rinunciare all’idea che alla base della conoscenza vi sia, anzitutto, un lavoro di interpretazione. Quella di Ginzburg è una proposta che si rivela quindi essere quanto mai attuale per le scienze umane e sociali, costrette a ripensare profondamente domande e metodi alla luce delle tecnologie digitali.
Quale può essere il ruolo delle nuove tecnologie nel catturare e conservare il presente, e tramandarlo in quanto passato?
In questo senso, l’attenzione che Ginzburg riserva per le conseguenze della riproducibilità tecnica degli artefatti culturali per la loro produzione, circolazione e ricezione è uno degli aspetti più rilevanti della raccolta. A partire dall’apparizione del duplicato delle Nozze di Cana sull’isola che affaccia San Marco, vengono ricostruite le radici dello statuto differenziale assegnato a testi e immagini: la riproducibilità tecnica avrebbe svincolato i primi dalla dimensione materiale attraverso cui se ne fa esperienza. Per l’interpretazione della Divina Commedia sarebbe quindi irrilevante che il brano sia letto dal manoscritto landiano o da un’antologia ragionata per l’insegnamento:
Testi invisibili e riproducibili hanno potuto superare distanze di tempo e di spazio. Inoltre, l’opacità dei testi sradicati dal loro contesto originario ha prodotto da un lato, il bisogno di adattarli ai nuovi contesti, dall’altro, lo sviluppo di tecniche volte a recuperare il contesto originario.
Questa intuizione era già emersa in Spie. Radici di un paradigma indiziario (1979), uno dei saggi più noti di Ginzburg. In qualche decina di pagine viene tratteggiata la storia di un modello epistemologico e conoscitivo della realtà storico-sociale che si sarebbe affermato a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Nel farlo, Ginzburg evoca in rapida successione tre figure: la prima è Ivan Lermolieff, pseudonimo di Giovanni Morelli, un politico e connoisseur italiano che a fine ‘800 mise a punto un metodo per riconoscere le opere d’arte autografe e distinguerle dalle repliche. Il metodo “morelliano” muove l’attenzione di chi guarda dal punto che riterremmo essere focale in un quadro – il sorriso in un dipinto di Leonardo – ai dettagli marginali, come “i lobi delle orecchie, le unghie, la forma delle dita delle mani e dei piedi”. Anticipando la direzione degli sguardi che saranno rivolti all’opera, gli imitatori diventano esperti nel riprodurre lo stile dell’artista lì dove ci si aspetta di trovarlo. È grazie al movimento involontario e automatico del falsario che disegna una mano a cui nessuno presterà troppa attenzione, dice Morelli, che possiamo distinguere un quadro di Tiziano da uno di Giorgione.
Il metodo di Morelli trasforma radicalmente la figura del critico d’arte in investigatore e psicanalista.
Il metodo di Morelli trasforma radicalmente la figura del critico d’arte, il quale viene chiamato a vestire contemporaneamente i panni di investigatore alla costante ricerca di indizi e di psicanalista allenato a riconoscere i lapsus dei suoi pazienti stesi sul lettino. In effetti, Sherlock Holmes e Sigmund Freud sono le figure che completano la triade del paradigma indiziario. Citando un brano tratto da L’avventura della scatola di cartone di Arthur Conan Doyle (1893), Ginzburg sottolinea l’attenzione che Holmes riserva per l’anatomia delle orecchie di una vittima. Poco dopo, lo stesso Ginzburg mette in scena il Freud lettore di Morelli – una connessione chiaramente riconoscibile nel saggio Il Mosè di Michelangelo (1914) – mostrando come, nel leggere i libri di Morelli, il padre della psicanalisi incontrò “la proposta di un metodo interpretativo imperniato sugli scarti, sui dati marginali, considerati come rivelatori. In tal modo, particolari ritenuti di solito senza importanza, o addirittura triviali, ‘bassi’, fornivano la chiave per accedere ai prodotti più elevati dello spirito umano”. Morelli, Freud, Holmes:
In tutti e tre i casi s’intravede il modello della semeiotica medica: la disciplina che consente di diagnosticare le malattie inaccessibili all’osservazione diretta sulla base di sintomi superficiali, talvolta irrilevanti agli occhi del profano.
La semeiotica è il sostrato su cui si fonda il paradigma indiziario, consolidatosi alla fine del diciannovesimo secolo — un paradigma che ha offerto le basi per il programma microstorico, in cui le tracce lasciate involontariamente a proposito di individui considerati senza storia né cultura sono state trasfigurate nel punto focale della ricerca storica. E però, avverte Ginzburg, le radici della capacità di “risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a una realtà complessa non sperimentabile direttamente” con dati organizzati attraverso “una sequenza narrativa” sarebbero da rintracciare nella storia dell’umanità stessa:
Il cacciatore sarebbe stato il primo a ‘raccontare una storia’ perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili) lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi.
Orientata a diagnosticare il passato, l’arte venatoria condivide il copione con la divinazione, che invece utilizza segni rinvenibili nel presente per tentare di pronosticare un futuro altrettanto inconoscibile direttamente. La nozione di sintomo (semeion) rimane fondante per un insieme di discipline “eminentemente qualitative, che hanno per oggetto casi, situazioni e documenti individuali, in quanto individuali, e proprio per questo raggiungono risultati che hanno un margine ineliminabile di aleatorietà”. Il profilo di questo movimento conoscitivo si staglia in antitesi a un modello di scienza che richiede di poter quantificare e replicare i fenomeni studiati — un modello che, in definitiva, non è applicabile alla storia. Se la storia è quindi una scienza sociale “intrinsecamente individualizzante”, lo storico “è paragonabile al medico che utilizza i quadri nosografici per analizzare il morbo specifico del malato singolo”, spiega Ginzburg. “E come quella del medico, la conoscenza storica è indiretta, indiziaria, congetturale”.
Le tracce lasciate involontariamente da individui considerati senza storia né cultura diventano il punto focale della ricerca storica.
Nella sua postura particolarizzante, il paradigma indiziario configura uno stile di ricerca adeguato a spiegare fenomeni complessi, non immediatamente osservabili o riproducibili in un ambiente di laboratorio (che renderebbe possibile isolare le variabili che ipotizziamo possano avere un effetto causale). L’unica possibilità rimasta è inferire le cause a partire dagli effetti – o, se vogliamo, le tracce – lasciati da questi ultimi:
L’esistenza di una connessione profonda che spiega i fenomeni superficiali viene ribadita nel momento stesso in cui si afferma che una conoscenza diretta di tale connessione non è possibile. Se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate — spie, indizi — che consentono di decifrarla.
È a questo punto che si rende proficua la distinzione tra testi invisibili e immagini visibili, che Ginzburg interpreta come un effetto di lunga durata prodotto da una disciplina indiziaria: la filologia. L’invenzione della scrittura avrebbe reso residuale l’aspetto performativo della fruizione di un testo, il cui significato sarebbe stato gradualmente svincolato dalla prosodia e dalla gestualità di chi lo recitava a memoria. La stampa, dal canto suo, avrebbe definitivamente slegato un testo dalle proprietà del suo supporto materiale:
Il risultato di questa duplice operazione è stato la progressiva smaterializzazione del testo, via via depurato da ogni riferimento sensibile: anche se un rapporto sensibile è necessario perché il testo sopravviva, il testo non s’indentifica con il suo supporto.
La filologia ha selezionato come tratto pertinente della sua operazione conoscitiva solamente gli aspetti riproducibili di un testo, inteso come “un’entità profonda, invisibile, da ricostruire al di là dei dati sensibili”. Lo statuto di invisibilità del testo è il risultato di un processo storico e culturale, frutto dell’interazione tra lo sviluppo tecnologico e il consolidamento delle nostre pratiche conoscitive umane di cui questo era solo uno tra gli esiti possibili. In effetti, alle immagini non è toccato avere lo stesso destino: un dipinto rimane “per definizione un unicum, irripetibile”, tradizionalmente inscindibile rispetto alla materialità – una tela, ad esempio – che ci consente di percepirlo.
Come quella del medico, la conoscenza storica è indiretta, indiziaria, congetturale.
Questa è una dicotomia che Ginzburg ci dice essere tacita, data per scontata e poco esplorata anche dagli studiosi: alcuni, come Walter Benjamin de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), non avrebbero considerato a sufficienza l’asimmetria tra immagini visibili e testi invisibili; altri, come l’Umberto Eco lettore di Peirce, avrebbero affrontato il problema da una prospettiva astorica. Testi invisibili, immagini visibili si propone invece di presentare una ricostruzione diacronica del processo di invisibilizzazione del testo e della sua trasformazione in testualità, “un’entità invisibile che poteva essere riprodotta e trapiantata in contesti completamente diversi da quello originario”. Questo fenomeno avrebbe favorito tanto l’astrazione dei contenuti – meno specifici e quindi svincolati da un singolo contesto interpretativo – quanto lo sviluppo di discipline orientate alla decifrazione del testo in relazione agli spazi sociali in cui questo è stato creato e circolato. Alle immagini, dice Ginzburg, questo non sarebbe ancora capitato, anche se episodi come la vendita di un non-fungible token del Tondo Doni di Michelangelo potrebbero suggerire che il carattere di originalità conferito ad un’immagine si starebbe ormai sganciando dal suo supporto materiale.
Questo è un tema complesso, su cui si dibatte dagli albori della rivoluzione digitale — se non da prima. La relazione tra il reale e le sue rappresentazioni, che sarebbero state capaci di farsi più reali della realtà stessa, è stato uno dei nodi centrali della filosofia postmoderna, che ha dominato la scena intellettuale fino agli sgoccioli dello scorso millennio. E tra le tendenze delle scienze sociali degli ultimi decenni va sicuramente ricordato il material turn, che enfatizza la dimensione materiale della vita sociale. In questo senso il contributo di Ginzburg è importante, perché invita a considerare in prospettiva storica i processi di produzione degli oggetti culturali, incoraggiando a ricostruire con meticoloso rigore i reticoli che legano autori, i loro artefatti e i contesti di interpretazione e circolazione in cui questi sono inseriti.
Una separazione così netta tra testo e immagine, tra materialità e immaterialità, tra visibilità e invisibilità, rischia di ricalcare la nota distinzione tra forma e contenuto.
Tuttavia, una separazione così netta tra testo e immagine, tra materialità e immaterialità, tra visibilità e invisibilità, rischia di ricalcare l’annosa distinzione tra forma e contenuto. Non è però scontato che leggere un brano della Commedia indossando un paio di guanti per sfogliare un manoscritto sotto lo sguardo diligente di un vigile archivista produca la stessa esperienza dell’evidenziare lo stesso testo in giallo fluo sulla pagina patinata di un’antologia, o del godere di un’iconica versione a fumetti. L’illuminante ricostruzione del processo storico di invisibilizzazione dei testi e delle conseguenze di questo per la loro interpretazione pone in secondo piano una dimensione ugualmente cruciale — quella pratica.
Per chi osserva le pratiche sociali, o prova a ricostruirne retrospettivamente il loro significato, lo statuto di visibilità o invisibilità di un oggetto culturale non offre solide risposte, ma configura piuttosto una potente domanda. In effetti, l’operazione di duplicare le Nozze di Cana per riportarle sull’isola da cui furono trafugate solleva il quesito: come poteva presentarsi il refettorio palladiano agli occhi dei monaci che commissionarono il dipinto al Veronese? Più che costituire una concreta minaccia ai concetti di unico e autentico – essi stessi una costruzione storica e culturale – la riproducibilità tecnica sembrerebbe in grado di aprire la strada a nuove opportunità di conoscenza, discussione, esperienza.
In ogni caso, il duplicato delle Nozze di Cana rappresenta solo un caso limite, almeno per ora. E, come suggerisce Ginzburg nella nuova postfazione, “i casi (compresi i casi anomali) implicano la norma,” ponendo, “attraverso la comparazione, le premesse per una generalizzazione delle domande, e delle risposte, che lo studio di un caso specifico ha fatto emergere”. Rinviando al rapporto tra morfologia e storia, si tratterebbe quindi di problematizzare lo stile della microstoria, che spinge a individuare l’unico (per renderlo visibile) e all’approccio comparativo, che richiede invece un movimento di astrazione dal singolare (per renderlo, almeno in parte, invisibile). Il rapporto tra particolare e generale rimane al centro degli sforzi intellettuali di Ginzburg, come testimonia il lavoro compiuto assieme allo storico Bruce Lincoln sul caso del Vecchio Thiess: un contadino che, a ridosso del 1700, si dichiarò lupo mannaro di fronte ad un tribunale distrettuale in Livonia.
La riproducibilità tecnica sembrerebbe in grado di aprire la strada a nuove opportunità di conoscenza, discussione, esperienza.
Leggere Miti emblemi spie invita a riflettere su come il mestiere dello storico imponga di interrogarsi continuamente sulla rappresentatività dei casi eccezionali — e sulla natura stessa della categoria di eccezionalità come dispositivo euristico e strumento di scoperta. Si potrebbe dire che l’“eccezionale normale” – per recuperare un ossimoro coniato da un altro dei fondatori della microstoria – abbia a che fare più con il metodo che adottiamo per interfacciarci con il passato che con il passato stesso. I testi di questa raccolta costituiscono innanzitutto un esempio di come si possa fare ricerca rigorosa a partire da pochi frammenti indiziari, e di come di questa ricerca si possa scrivere accompagnando chi legge in percorsi accidentati, a tratti tortuosi, su cui però vale sempre la pena incamminarsi, talvolta arrivando a mete diverse da quelle che ci si era prefigurati. Quelli di Ginzburg sono a tutti gli effetti saggi nel senso etimologico del termine, che deriva dal francese essayer: provare, sperimentare, rischiare. Nonostante la straordinaria eterogeneità degli oggetti di ricerca – Dante, il nazismo di Dumézil, i codici della figurazione erotica nel Cinquecento… – Miti emblemi spie ci consente di curiosare nella bottega di uno storico al lavoro per sbrogliare un nucleo di problemi teorici riconoscibili e importanti.
Letti tra le righe, però, questi saggi suggeriscono anche qualcosa di più. Tra caso e norma, tra singolare e generale, tra insignificante e significativo, tra visibile e invisibile, scopriamo esistere una tensione pulsante e irrisolta, capace di offrire domande generali più che di restituire risposte particolari. Queste domande ci interrogano sullo statuto di originalità di un oggetto culturale e sulle condizioni della sua produzione sociale e storica, proponendo un copione per tentare di ricostruire lo sguardo di chi l’aveva in mente allo scopo di moltiplicare – e non ridurre – il numero di prospettive interpretative. Ci spingono anche a riconsiderare il rapporto tra umano e non-umano, tra materiale e immateriale, tra effetti visibili e cause invisibili, in un momento storico in cui la complessità dei fenomeni sembra incoraggiare la ricerca di spiegazioni totalizzanti e univoche. Più di tutto, in un’epoca in cui lo sviluppo dell’intelligenza artificiale sembra avere le potenzialità per mettere in crisi la nostra idea di umanità andando a incidere sulla pratica attraverso cui abbiamo imparato a riconoscerci in quanto umani, questi saggi ci ricordano che Der liebe Gott steckt im Detail — Dio è nel particolare. Che si tratti di un diario rinvenuto nella biblioteca di un intellettuale, un frammento di un codice custodito in un archivio polveroso, o una mano riprodotta (male) da una coppia di reti neurali.