È il 19 ottobre 2023, nei post e commenti dei social network e tra le pagine virtuali di testate nazionali e internazionali si leggono messaggi di cordoglio per la morte di Esther. A motivare il cordoglio pubblico il fatto che Esther “The Wonder Pig” era una scrofa con una curiosa storia alle spalle: acquistata come maialino nano, ha poi iniziato a crescere a un ritmo vertiginoso fino a quando il veterinario ha rivelato ai due umani che l’avevano accolta in casa, Steve Jenkins e Derek Walter, che quello che avevano davanti era un maiale d’allevamento destinato a raggiungere dimensioni poco adatte alla vita in appartamento. Questa scoperta inaspettata diede a Steve e Derek la spinta per cambiare vita: si trasferirono fuori città e fondarono un rifugio, un luogo in cui potessero vivere animali sottratti agli allevamenti e al macello. Fin qui il racconto sembrerebbe una favola a lieto fine dalla morale animalista, e lo sarebbe anche stato se uno sguardo alle foto grottesche del profilo Instagram di Esther, seguito da oltre 500.000 follower, non avesse rivelato altro.
La scrofa è spesso ritratta mentre indossa parrucche arcobaleno e occhiali da sole, intenta a schiacciare pisolini su un divano di un appartamento o alla ricerca di attenzioni insieme al cane di casa. Un’estetica che insegue la tendenza verso il cute, il “carino”, tanto più appariscente per via del contrasto con l’animale coinvolto negli scatti. Esther è stata definita un’ambasciatrice, messaggera di una nuova concezione degli animali che spesso sono reputati da noi solo fonte di cibo. Questo però porta a chiedersi se trattare in questo modo un suide e diffondere questo tipo di rappresentazione possa davvero essere un modo per cambiare la percezione del pubblico o invece ci allontani ancora di più dalla comprensione dei bisogni degli animali e dall’accettazione del loro essere altro da noi e ugualmente degni di rispetto.
La preferenza dell’essere umano per ciò che è tenero e carino ha radici profonde nella nostra evoluzione. Già nel 1943, l’etologo Konrad Lorenz parlò di kindchenschema, “segnali infantili”, per indicare un insieme di caratteristiche facciali comunemente presenti nei cuccioli umani, come testa grande, viso rotondo, fronte alta e sporgente, occhi ampi e naso e bocca piccoli. Questi attributi stimolerebbero nei mammiferi, per un meccanismo innato, comportamenti di cura e attenzione: un adattamento significativo per animali come noi che si devono occupare della prole, anche per lunghi periodi. Fatto curioso è che la risposta a questi stimoli visivi non è solo rivolta ai piccoli della nostra specie, ma anche agli altri animali non umani. Guardare i cuccioli di altre specie suscita in noi quella risposta emotiva su cui l’estetica cute ha edificato il proprio immaginario, non senza ambiguità.
La preferenza dell’essere umano per ciò che è tenero e carino ha radici profonde nella nostra evoluzione.
Il nostro istinto innato di attenzione verso i cuccioli animali viene da lungo tempo sfruttato nei settori della pubblicità, della comunicazione e dell’intrattenimento. Stephen Jay Gould, biologo, zoologo, paleontologo, storico della scienza e divulgatore, ne parla nel suo saggio Omaggio di un biologo a Topolino (1980), in cui descrive la trasformazione grafica di Mickey Mouse che, dal roditore spigoloso, turbolento e un po’ sadico di Steamboat Willie, debutto cinematografico del personaggio nel 1928, è diventato quel topo dagli occhi, testa e orecchie grandi, sempre più simile a un bambino, che noi tutti conosciamo ed è il simbolo dell’immaginario Disney. L’umanizzazione e infantilizzazione di Topolino, andata di pari passo con il cambiamento del suo temperamento, è servita a farne una figura più amabile e simpatica per il pubblico.
Ma l’attrazione per ciò che è tenero e infantile è parte della trama della nostra società — quella occidentale così come quella giapponese, con la subcultura kawaii — che è ormai pervasa dal potere della cuteness, come spiega bene il filosofo Simon May nel suo libro Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili (2021). L’estetica cute, che si muove tra il tenero e l’inquietante, che rende la zona grigia dell’indeterminatezza un luogo rassicurante e che confonde i rapporti di potere, ha fatto irruzione anche nella rappresentazione degli animali e nella nostra relazione con essi. Lo dimostrano i post di Esther “The Wonder Pig”, così come tutte quelle foto e video di cani in pigiama, gatti con copricapi a forma di orecchie di coniglio e pecore con fiocchetti sul capo e guinzaglio al collo che vediamo circolare in rete. La cuteness può essere una forma di antropomorfismo, come spiega May nel suo libro: “nella misura in cui la cuteness impone qualità umane a ciò che non è umano – animali, giocattoli, immagini – chiaramente li antropomorfizza. Non permette loro di essere nella loro Alterità; non permette loro di rivelarsi, ma li costringe ad adattarsi a uno stampo umano e a soddisfare i bisogni umani”. Di primo acchito, continua May, ispirare tenerezza calcando la mano sull’estetica cute sembrerebbe un modo innocente o anche positivo di rappresentare gli animali, perché in grado di smuovere in noi sentimenti di simpatia e di avvicinarci all’altro:
il cute può farlo ampliando la nostra gamma di interessi morali al di là degli esseri umani. In una situazione sana, quando vediamo un’altra persona, un animale o un’immagine carina, ci sentiamo protettivi nei suoi confronti. Gli animali che avremmo potuto ignorare o addirittura sfruttare vengono trascinati nella nostra cerchia di cura e valore. Aprendo un canale di intimità con loro e includendoli nella nostra comunità morale, possiamo vedere e rispondere meglio a ciò che è veramente specifico della loro natura, dei loro bisogni e delle condizioni per il loro fiorire. Il fatto che umanizzare gli altri ci induca a essere compassionevoli nei loro confronti è il motivo per cui ai torturatori e agli assassini viene abitualmente insegnato a vedere le loro vittime come prive di tutte le caratteristiche veramente umane, come ‘subumane’.
La tenerezza, però, può essere anche un ostacolo al riconoscimento dell’alterità animale, soprattutto quando le persone vogliono sfruttare animali teneri per i propri scopi egoistici: “invece di aprire un canale verso gli animali che vedono come carini, chiudono la loro visione di essi e li trasformano in strumenti per la soddisfazione di bisogni narcisistici”, avverte May. Pensiamo ai cani brachicefali: carlini, bulldog, pechinesi e altre razze considerate status symbol, selezionate per essere tenere, con i loro occhi grandi e i musi schiacciati e che, proprio per queste caratteristiche, sono destinate a soffrire di numerose patologie che abbassano notevolmente la qualità della loro vita. O ancora, guardiamo a tutti quei cani costretti in borsette, infiocchettati come bomboniere, che avrebbero bisogno di trascorrere del tempo all’aperto e di attività consone alla propria specie e razza, o a maiali, ovini e galline, per non parlare degli animali selvatici, trattati come pet o fotografati come se lo fossero, diffondendo così pratiche etologicamente scorrette, al limite del maltrattamento.
L’estetica cute sembra allontanarci di più dalla comprensione dei bisogni degli animali e dall’accettazione del loro essere altro da noi
La tenerezza che un animale può suscitare è arrivata persino a influenzare la conservazione delle specie a rischio di estinzione, come ha denunciato un articolo intitolato The new Noah’s Ark: beautiful and useful species only, pubblicato in due parti nella rivista scientifica Biodiversity tra il 2011 e il 2012. Nei testi veniva evidenziato come l’attenzione di scienziati e decisori politici, oltre a quella del grande pubblico, fosse indirizzata verso tutte quelle specie utili o per noi esteticamente belle, affascinanti o cute. Anche il recente progetto Unveiling dell’Università di Firenze ha cercato di mettere in luce il ruolo dell’esperienza estetica nelle scelte di conservazione, in questo caso di farfalle a rischio. I dati diffusi dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) mostrano che il 41 per cento delle specie di anfibi è a rischio di estinzione, contro il 26 per cento di mammiferi. Eppure il simbolo più conosciuto degli animali in pericolo è un mammifero dall’aspetto coccoloso, il panda, che campeggia da decenni nel logo del WWF, il World Wildlife Fund. Probabilmente un rospo non avrebbe esercitato lo stesso appeal.
Quando Esther The Wonder Pig è morta, alcune associazioni animaliste l’hanno celebrata innalzandola ad esempio di animale felice e amato: a questo punto, però, è necessario chiedersi se si possa promuovere il rispetto verso gli animali calpestandone la diversità, trasformandoli in qualcosa di piacevole secondo il gusto e il punto di vista di noi esseri umani del XXI secolo, ignorandone bisogni e motivazioni. Simone Pollo, professore associato di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza, che si occupa delle relazioni fra scienza e società, etica animale ed etica ambientale, offre un punto di vista critico sull’impatto dell’immaginario cute nelle pratiche di conservazione: “il fatto che anche chi si dovrebbe interessare in modo più consapevole, più critico, più avanzato culturalmente, della tutela degli animali tenda a ricorrere a questo tipo di meccanismi, solleva un grosso problema: laddove siamo di fronte ad associazioni animaliste, a istituzioni che intendono tutelare gli animali, questo tipo di richiamo, di utilizzo dell’immagine del carino come meccanismo di aggancio dell’attenzione, rischia di essere controproducente perché nel medio-lungo periodo ha degli effetti potenzialmente diseducativi. Se è vero che la connessione automatica, simpatetica, empatica è un aggancio in qualche modo istintivo, immediato, d’altra parte la coltivazione di una prospettiva più consapevole, più matura, di attenzione per il mondo non umano dovrebbe portare all’apprezzamento delle differenze e non solo delle somiglianze. In qualche modo, se noi pensiamo che gli animali non umani meritino qualche forma di rispetto e di inclusione nella nostra sfera di considerazioni morale, dobbiamo fare un passaggio successivo: capire che il mondo animale è fatto di diversità, di varietà, di forme di vita anche profondamente diverse da quella umana o da quella degli animali che ci sono più vicini”.
Pollo cita il documentario My Octopus Teacher, vincitore del Premio Oscar nel 2021, che basava la propria narrazione sull’interazione del protagonista umano con un polpo, cercando di sottolineare in qualche modo le somiglianze tra le nostre due specie, in realtà molto diverse. Come scriveva Peter Godfrey-Smith nel suo saggio Altre menti (2018), “è probabile che questo sia quanto di più vicino all’incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare”. Eppure, ricorda Pollo, c’è sempre il rischio che il riconoscimento dell’alterità animale sconfini in un antropomorfismo fine a se stesso: “non ho una soluzione o tantomeno pretendo di avere una qualche parola definitiva su questo tema, però ci troviamo su una linea molto sottile e scivolosa. La nostra attenzione per gli animali inevitabilmente passa per delle forme di continuità, di riconoscimento e di somiglianza. Però, d’altro canto, non può che ambire all’ampliamento e al riconoscimento del valore, dell’importanza, della necessità di rispettare anche quelle forme di vita che sono del tutto differenti da noi”.
L’estetica cute, in sostanza, potrebbe portare al riconoscimento di un alterità animale edulcorata e falsata, proprio come quella di Esther “The Wonder Pig”. Io stessa ricordo la prima volta che ho visto una scrofa di persona: era primavera e lei grufolava libera in campagna, seguita dai suoi piccoli con la tipica coda arricciata. Se anche quei maialetti avevano scaturito in me un senso di profonda tenerezza, di quell’immagine è rimasta impressa nella mia mente l’imponenza del suide, il suo aspetto in parte minaccioso, così lontano da quello di altri animali che avevo incontrato in precedenza. Era una gigante rosa pallido e i suoi movimenti erano lenti. Mi scrutava, forse preoccupata per la sua prole. E se mi attaccasse? L’ho contemplata a lungo. La sua possibile pericolosità ha lasciato il passo a un pensiero di maternità, di dolcezza, un terreno condiviso essendo entrambe mammiferi. Paura, ammirazione, stupore, esitazione: emozioni che riecheggiano ancora ripensando a quel giorno. Forse possiamo compiere un passo in avanti e imparare ad ammirare e relazionarci con le infinite forme bellissime del regno animale, cogliendo le somiglianze e accogliendo le differenze, senza lasciarci abbagliare dalla cuteness.