Q uando arrivo al 201 di via Reginaldo Giuliani di Firenze mancano pochi minuti alle undici. È una giornata serena, l’aria è già afosa, la temperatura supererà i 40 gradi. Accanto al portone di destra c’è un’etichetta minuscola: “STABILIMENTO CHIMICO FARMACEUTICO MILITARE”. Per ottenere il permesso di visitare le serre militari, i miei documenti e il mio curriculum hanno viaggiato fino al Ministero della Difesa, a Roma. Più o meno nello stesso momento, a trecento chilometri di distanza, nelle serre dell’istituto fiorentino, si piantavano talee radicate di Cannabis sativa, provenienti dal Centro di ricerca per le colture industriali (CIN) di Rovigo.
Al farmaceutico, come lo chiamano i fiorentini, da marzo 2016 si coltiva la cannabis terapeutica prodotta dallo Stato, quella che i farmacisti vendono come FM2. Lo stabilimento, che fino alla Prima Guerra Mondiale aveva sede a Torino, è nato nel 1853 per soddisfare le richieste di medicinali e di altri materiali sanitari da parte delle forze armate. Oggi è un’unità produttiva dell’Agenzia Industria e Difesa. Oltre a essere autorizzato dal Ministero della Salute e dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) a coltivare cannabis destinata a uso medico, l’ente collabora con diverse università per la produzione di farmaci orfani, cioè farmaci usati nella cura di malattie rare e che, a causa della bassa domanda di mercato, nessuno ha interesse a produrre.
Il maresciallo Camillo Borzacchiello, che supervisiona proprio il progetto “Farmaci e malattie rare” e si occupa dei rapporti con la stampa, mi fa strada verso lo studio di Antonio Medica, il direttore dello stabilimento. Per arrivarci attraversiamo un corridoio molto luminoso, ornato di vetrate ampie da cui si può ammirare il bel cortile interno. Ma le serre dove vengono coltivate le infiorescenze da cui si prepara la FM2 non sono facilmente accessibili, perché in Italia, a oggi, coltivare cannabis è illegale. Come recita l’articolo 17 del Decreto del Presidente della Repubblica 309/90, chiunque intenda coltivare, produrre, ricevere e in generale commerciare sostanze stupefacenti e psicotrope “deve munirsi dell’autorizzazione del Ministero della Sanità”, che, nel concederla, “determina, caso per caso, le condizioni e le garanzie alle quali essa è subordinata”.
Al farmaceutico, come lo chiamano i fiorentini, da marzo 2016 si coltiva la cannabis terapeutica prodotta dallo Stato, quella che i farmacisti vendono come FM2.
“A novembre 2016 abbiamo completato l’iter organizzativo per coltivare cannabis legalmente e trasformarla in un prodotto farmaceutico partendo da un progetto che era sulla carta”, precisa Antonio Medica. Da quando il ministro della difesa Roberta Pinotti e il ministro della salute Beatrice Lorenzin hanno firmato l’accordo che ha dato inizio al progetto pilota per la produzione nazionale di cannabis terapeutica, nel settembre 2014, ci sono voluti quasi due anni e mezzo prima che la FM2 fosse disponibile in farmacia.
THC e CBD
In assenza del collega e vicedirettore Flavio Paoli, il colonnello Antonio Medica, una laurea in chimica e tecnologie farmaceutiche, è l’unico che può firmare il certificato di analisi con il quale garantisce che la FM2 è coltivata, analizzata e confezionata secondo i parametri descritti nell’Active Substance Master File, un dossier tecnico depositato all’AIFA. “In pratica dobbiamo garantire che ogni singolo grammo di prodotto abbia la stessa composizione analitica, cioè abbia sempre la stessa percentuale di principio attivo e non contenga agenti microbiologici, metalli pesanti e altre sostanze inquinanti. Le altre sostanze che vengono commercializzate sono dotate di certificati di analisi, però non seguono questo dossier che vincola ulteriormente le specifiche tecniche necessarie per dire che quel prodotto è di qualità”.
Oltre all’FM2, i pazienti italiani possono acquistare altri cinque tipi di infiorescenze, tutti di importazione olandese: Bedrocan, Bedrobinol, Bediol, Bedrolite e Bedica. A eccezione del Bedica, che deriva dalla varietà indica della cannabis, le altre infiorescenze derivano dalla varietà sativa. Si distinguono tra loro, però, per un diverso contenuto di tetraidrocannabinolo (THC) e cannabidiolo (CBD). Dei cento o poco più cannabinoidi noti fino a oggi, THC e CBD sono le due sostanze chimiche più studiate nei trial clinici in cui si dimostrano gli effetti terapeutici della cannabis. Entrambi i cannabinoidi agiscono sul sistema degli endocannabinoidi, un complesso apparato di segnalazione biochimica coinvolto in processi come la memoria, la preparazione e l’organizzazione dei movimenti, il controllo dell’appetito e della risposta immunitaria, la percezione del dolore e la regolazione del senso di nausea.
Il THC esercita un’azione principalmente psicotropa, con effetti che si ripercuotono sulle attività motorie e cognitive, mentre il CBD ha soprattutto proprietà antinfiammatorie e analgesiche.
Anche se nel complesso i due principi attivi influenzano lo stesso sistema di comunicazione cellulare, sono responsabili di effetti terapeutici piuttosto diversi. Il THC esercita un’azione principalmente psicotropa, con effetti che si ripercuotono sulle attività motorie e cognitive, mentre il CBD ha soprattutto proprietà antinfiammatorie e analgesiche. Secondo i ricercatori, una delle ragioni alla base di questa differenza è l’affinità molecolare tra il principio attivo e uno dei recettori cellulari per i cannabinoidi, insieme alla distribuzione di questi ultimi nell’organismo, che circoscrivono il raggio d’azione degli effetti della cannabis. Il THC preferisce il recettore dei cannabinoidi 1, che si trova in larga misura nel sistema nervoso centrale (dove sono collocati i centri di controllo delle funzioni cognitive e del movimento). Il CBD attiva con più facilità il recettore dei cannabinoidi 2, che si concentra nelle zone periferiche del sistema nervoso e sulle cellule del sistema immunitario (in cui hanno luogo la percezione del dolore e i processi infiammatori).
Alla prova
Una delle review più recenti sulle prove scientifiche dell’uso medico della cannabis è stata pubblicata nel 2015 sulla rivista scientifica JAMA ed è firmata da un gruppo internazionale di ricercatori, fra i quali c’è l’italiano Marcello Di Nisio, del Dipartimento di Medicina dell’Università di Chieti. I ricercatori hanno analizzato i risultati di 79 trial clinici (per un totale di quasi settemila partecipanti), in cui si studiavano gli effetti terapeutici dei cannabinoidi su un’ampia varietà di condizioni patologiche, tra cui il senso di nausea dovuto alla chemioterapia, il dolore cronico, la spasticità muscolare che colpisce i pazienti di sclerosi multipla e i pazienti paraplegici, i disturbi del sonno, la sindrome di Tourette e il drastico calo di peso nei pazienti con AIDS. Valutando la qualità delle prove scientifiche fornite da questi studi, i ricercatori hanno concluso che le prove a sostegno dell’impiego di queste sostanze nel trattamento del dolore cronico e della spasticità hanno una qualità limitata, che è ancora più bassa per gli studi che associano la terapia con cannabinoidi a miglioramenti terapeutici nelle altre condizioni cliniche.
Il colonnello fa notare che gli effetti farmacologici che si osservano somministrando gli estratti purificati di THC e CBD sono in genere diversi da quelli ottenuti somministrando estratti completi, in cui THC e CBD sono mescolati ad altri cannabinoidi. Una delle differenze tra i numerosi studi clinici sta proprio qui, cioè nella varietà di preparazioni farmacologiche somministrate ai pazienti, che impedisce di trarre regole generali sulle applicazioni cliniche della cannabis (come la curva dose-risposta, cioè a quale dose corrisponda l’effetto terapeutico desiderato).
L’estratto completo della cannabis contiene numerose altre sostanze che sono assenti quando si somministrano i cannabinoidi purificati. Lo conferma anche Gianpaolo Grassi, primo ricercatore al CIN di Rovigo, dove seleziona le varietà genetiche di cannabis che arrivano allo stabilimento fiorentino. Grassi cita i risultati preliminari di una ricerca svolta al Technion, l’Istituto israeliano di tecnologia, in cui il gruppo di lavoro coordinato da David Meiri ha trattato> linee cellulari tumorali di topo con estratti che hanno una diversa composizione chimica. “Se a parità di THC estratti diversi mostrano azioni antitumorali diverse, vuol dire che l’effetto osservato non è dovuto esclusivamente al THC, ma che entrano in gioco anche altre sostanze, come terpeni e flavonoidi”, spiega il ricercatore italiano. “Questa combinazione di sostanze è il vero strumento terapeutico della cannabis”. In gergo si parla di “fitocomplesso”.
Data la cronicità delle malattie per cui oggi si impiega la cannabis, il consumo individuale minimo di cannabis terapeutica si aggira in un anno intorno ai 30-40 grammi.
Terpeni e flavonoidi sono una classe di sostanze chimiche prodotte dal metabolismo di alcune piante, tra cui la cannabis. È a causa dell’azione combinata di un miscuglio di terpeni se il caratteristico odore della cannabis ci sorprende già a parecchi metri di distanza dalle serre, quando con Camillo Borzacchiello entriamo nella zona ad accesso controllato. Insieme alle decine di cannabinoidi noti, questi metaboliti fanno parte delle oltre 750 sostanze a cui molti attribuiscono, finora in assenza di prove scientifiche adeguate, il cosiddetto “effetto entourage”, in base al quale fumare il prodotto ottenuto dalla pianta determinerebbe un effetto terapeutico migliore che assumere per via orale i cannabinoidi purificati.
Per dimostrare la validità scientifica di queste ipotesi sono necessarie ricerche molto complesse dal punto di vista metodologico, e non solo. “La difficoltà più grande nello studio dei possibili effetti terapeutici del fitocomplesso è la mancanza di risorse economiche”, sottolinea Gianpaolo Grassi. Le norme italiane che regolano l’uso delle sostanze stupefacenti non incoraggiano le aziende farmaceutiche che vogliano investire in questo tipo di ricerche. “Un corpus legislativo complesso e rischioso come quello italiano si scontra con l’elasticità e la velocità che distinguono la ricerca scientifica”, aggiunge il ricercatore. Liberalizzare la cannabis, ma anche soltanto snellire le procedure burocratiche, favorirebbe gli investimenti delle aziende nella ricerca sulle varietà genetiche della cannabis terapeutica, sulla delucidazione del principio attivo più efficace e sulla via di somministrazione più adatta.
Il rovescio della medaglia
Le conoscenze della comunità scientifica sono scarse anche sul fronte degli effetti avversi determinati dall’assunzione continua di cannabis. Il paziente che fa uso di cannabis ha un fabbisogno giornaliero che varia da qualche decina a qualche centinaia di milligrammi, con casi particolari in cui si può arrivare fino a qualche grammo al giorno. Data la cronicità delle malattie per cui oggi si impiega la cannabis, il consumo individuale minimo di cannabis terapeutica si aggira in un anno intorno ai 30-40 grammi.
Al di là del problema dei costi (oggi solo in sette regioni i pazienti possono avere la cannabis gratuitamente), c’è un problema di sicurezza. Bertha Madras, professoressa di psicobiologia all’Università di Harvard, su richiesta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2015 un documento in cui fa il punto della situazione sulle conoscenze scientifiche a proposito della cannabis e delle sue applicazioni cliniche. Nel paragrafo dedicato alla sicurezza di questo trattamento medico sostiene che, sulla base delle conoscenze attuali e in virtù degli effetti negativi derivanti dall’uso cronico, non si può essere certi che la cannabis usata sotto la supervisione di un medico per lunghi periodi di tempo sia priva di rischi. Uno dei motivi è che le conoscenze attuali sugli effetti avversi a lungo termine derivano da studi condotti su persone che ne fanno uso a scopo ricreativo, e non medico, sulle quali sono stati rilevati dipendenza, compromissione delle funzioni cognitive e alterazione del controllo esecutivo (delle capacità, cioè, di mantenere a lungo l’attenzione, di pianificare e attuare strategie di risposta adeguate e di bloccare strategie inadeguate).
Le conoscenze attuali sugli effetti avversi a lungo termine derivano da studi condotti su persone che ne fanno uso a scopo ricreativo, e non medico.
Anche se nessun farmaco è privo di effetti collaterali, più o meno gravi e più o meno rari, la cannabis è tuttavia un farmaco off label, ricorda Paolo Poli, presidente della Società italiana per la ricerca sulla cannabis: “Al di là del fatto che il paziente non deve rispondere ad altre terapie, ma indipendentemente da questo, il medico la prescrive sotto la sua responsabilità”. Dato che le infiorescenze vendute in farmacia non sono accompagnate da un foglietto illustrativo che ne indichi dose e modalità di somministrazione specifiche per la malattia da trattare, ed eventuali effetti avversi, il medico che prescrive la cannabis ai suoi pazienti deve avere una conoscenza tale da individuare la concentrazione ottimale di principio attivo che fornisca il rapporto migliore tra rischi e benefici, e deve sempre essere a conoscenza degli ultimi sviluppi della ricerca scientifica e clinica. Proprio per fornire ai medici italiani un bagaglio scientifico e culturale adeguato, al Dipartimento di neuroscienze dell’Università di Padova partirà quest’anno il primo corso di perfezionamento nella cannabis a uso medico.
Produzione propria
Prima di accedere alle serre dove si trovano le piantine, ci fermiamo per indossare copriscarpe, camice, mascherina e cuffia monouso. Colgo l’occasione per chiedere al maresciallo se in futuro potrò assistere anche alle fasi di taglio e lavorazione delle infiorescenze, che si verificano soltanto alla fine del raccolto.
Non dà una risposta precisa: si tratta di operazioni molto delicate e circoscritte al solo personale dello stabilimento. Intanto superiamo anche l’ultima porta di sicurezza. Entrambe le serre sono sprovviste di finestre, e sarebbero immerse nell’oscurità se non fosse per le tre file di lampade che penzolano dal soffitto e che illuminano a giorno l’intera zona. Le piante sono disposte in perfetto ordine una dietro l’altra, in posizione sopraelevata rispetto al pavimento, e ogni vaso è attraversato da sottili tubi neri che gemmano da un tubo nero più grande posto a lato dei vasi. In effetti è un po’ bizzarro chiamare serre queste stanze piene di luce artificiale e dove tutto è rigidamente controllato.
Ogni singolo lotto di FM2 che esce dall’istituto fiorentino ha una quantità e una composizione di principio attivo uguale a tutti gli altri: una delle migliori garanzie che un paziente che fa uso di cannabis possa avere.
Si tratta di un metodo di coltivazione che ha costi non indifferenti, ma che tuttavia è necessario per varie ragioni. “La FM2 deve essere esente da sostanze inquinanti, perciò non può essere coltivata in campo aperto, perché assorbirebbe soprattutto i metalli pesanti dal terreno, ma su un substrato inerte”, chiarisce il maresciallo Borzacchiello. “Inoltre deve essere alimentata con concimi speciali, che non contengono a loro volta sostanze inquinanti, e deve essere trattata con un sistema di illuminazione e purezza dell’aria e in assenza di pollini”, aggiunge. Insieme alle mascherine e ai filtri che impediscono l’entrata del polline, i sistemi di illuminazione, irrigazione e fertilizzazione garantiscono anche la standardizzazione del raccolto.
Ogni singolo lotto di FM2 che esce dall’istituto fiorentino ha una quantità e una composizione di principio attivo uguale a tutti gli altri. Questa è una delle migliori garanzie che un paziente che fa uso di cannabis possa avere. Sia perché, prima di iniziare la terapia, il medico fa la cosiddetta titolazione, cioè somministra una dose che ritiene possa avere l’effetto sperato, quindi ne verifica l’effetto, e in base a questo tara la dose quotidiana; sia perché avere un prodotto farmaceutico standardizzato è la condizione imprescindibile per studi clinici validi e accurati.
Da quasi centocinquant’anni l’uso farmaceutico della cannabis, incoraggiato dalle recenti scoperte sul sistema degli endocannabinoidi e dall’efficacia limitata delle terapie attuali, continua a essere oggetto di dibattito fra gli esperti di tutto il mondo. Prima che la cannabis diventi un farmaco il più possibile sicuro ed efficace, è ancora necessario arrivare a un’analisi rigorosa del rapporto tra rischi e benefici che porti a valutare correttamente la portata di eventuali effetti dannosi accanto al potenziale terapeutico.