I l romanzo The Ministry for the Future (2020) di Kim Stanley Robinson si apre con un’ondata di calore anomalo che si abbatte sulle pianure dell’Uttar Pradesh, in India: per il caldo torrido e l’umidità soffocante muoiono venti milioni di persone, la rete elettrica collassa e il Paese precipita nel caos. La vampata di caldo estremo che innesca le vicende del romanzo non è affatto implausibile, anzi: Robinson si limita ad anticiparne i tempi, esasperarne gli effetti, immaginarne l’impatto sulla vita delle persone. Il libro si è rivelato profetico: benché non abbia causato la morte di milioni di persone, all’inizio di quest’estate una cupola di calore è calata veramente su India e Pakistan, facendo registrare le temperature più alte da 122 anni a questa parte, quando cominciarono le rilevazioni.
Loro malgrado, i 49° C sfiorati a Nuova Delhi e i 51° superati a Jacobabad hanno fatto del Subcontinente indiano un laboratorio a cielo aperto di sopravvivenza e adattamento alla crisi climatica: lì il riscaldamento globale ha reso le ondate di calore 30 volte più probabili rispetto pochi decenni fa, con picchi di temperatura che arrivano già oggi a lambire il limite massimo di temperatura e umidità tollerabile, all’esterno, dagli esseri umani. Questo limite viene calcolato sulla base di una metrica che combina il calore dell’aria col tasso di umidità, la cosiddetta temperatura di “bulbo umido”, chiamata così perché rilevabile con un termometro avvolto da un panno bagnato per simulare con l’evaporazione dell’acqua l’effetto termoregolatore della sudorazione umana. Uno studio molto ripreso, pubblicato qualche anno fa su Science Advances, fissava la temperatura massima sopportabile dall’organismo umano a 35° C di bulbo umido: un livello raggiungibile con 40° C di calore dell’aria e un’umidità del 75%, per intenderci, oppure con 31° di calore e un’umidità al 95%. Quella temperatura, avvertono gli autori dello studio, può avere seri impatti sulla salute di qualunque individuo adulto.
Non a tutto possiamo adattarci, non per sempre, e l’impressione è che la finestra di tempo che ci rimane per escogitare una qualche soluzione stia per chiudersi.
Le stime più recenti hanno abbassato sensibilmente la temperatura massima tollerabile dall’essere umano, fino a soli 31,5° C di bulbo umido. Superata quella soglia, per raffreddarsi, il corpo non può sudare più di quanto già non faccia, si surriscalda, va in piressia e poi in iperpiressia. Enzimi e sintesi proteica a poco a poco si degradano, l’attività celebrale si ottunde, i muscoli si torcono dai crampi per carenza di sali minerali. Seguono vertigini e palpitazioni, ansia e astenia, confusione e svenimenti. I tessuti si disidratano, le mucose si disseccano. Al passare delle ore possono fare la comparsa convulsioni, allucinazioni e deliri. Nei casi peggiori, se la temperatura interna valica i 43-44°C l’organismo rischia il coma, e subentra quello stato di shock termico che con una metafora ormai di uso corrente chiamiamo “colpo di calore”. La pressione arteriosa precipita, il sangue ossigenato non arriva più a irrorare gli organi, le cellule di cuore e reni vanno in necrosi. Poi, è la morte. Che pare possa sopraggiungere in almeno ventisette modi differenti, dall’ischemia all’arresto cardiaco.
Stabilire la soglia massima di tolleranza umana al caldo estremo significa per forza di cose adottare una convenzione rigida e approssimativa, che aiuta però a capire perché – anche a temperature atmosferiche più basse, attorno a quei 30° C “a secco” che d’estate sono ormai la norma in molte regioni del pianeta – l’umidità possa in ogni caso rendere il clima insopportabile. Cosa ben più importante: è come diventare improvvisamente consapevoli che esiste un limite ultimo, fisiologico e inoltrepassabile alla nostra capacità di adattarci a un clima più caldo, e che a quel limite ci stiamo accostando pericolosamente. Non a tutto possiamo adattarci, non per sempre, e l’impressione è che la finestra di tempo che ci rimane per escogitare una qualche soluzione stia per chiudersi. In un articolo apparso di recente sull’Harvard Public Health, Kalpana Jain ha sollevato la domanda-tabù che assilla da tempo gli scienziati del clima: “davvero le cose peggioreranno al punto che gli umani non saranno in grado di adattarsi?”.
Gli animali a sangue caldo si sono evoluti sviluppando molteplici adattamenti fisiologici e comportamentali per raffreddare la propria temperatura interna. I cani ansimano sbuffando vapore dalla bocca, alcuni grandi mammiferi adorano immergersi in acqua o rotolare nel fango, mentre noi umani disperdiamo calore irradiandolo dalla pelle e attraverso uno dei sistemi di sudorazione più efficienti di tutto il regno animale. Se la temperatura dell’aria e l’umidità ambientale sono però troppo alti, a ridosso del limite massimo sopportabile di bulbo umido, il sudore non evapora più e il corpo comincia letteralmente a cuocersi, madido e spossato, come se fosse rimasto chiuso all’interno di un’automobile col sole a picco. È solo grazie alla tecnologia se abbiamo potuto adattarci a vivere in ogni ambiente terrestre, dai deserti di sabbia a quelli di ghiaccio, coprendoci di vestiti, riparandoci all’ombra oppure regolando a piacimento la temperatura dei nostri nidi. E tuttavia il nostro corpo è stato plasmato dalla selezione naturale per vivere in una nicchia ecologica sorprendentemente limitata, con temperature medie annuali comprese tra 11° e 15° C.
Il riscaldamento globale sta spazzando via le condizioni climatiche ottimali per la sopravvivenza umana, e si prevede che nei prossimi cinquanta anni da 1 a 3 miliardi di persone potrebbero trovarsi a vivere ambienti non più ospitali.
Com’è facile immaginare, il riscaldamento globale sta spazzando via le condizioni climatiche ottimali per la sopravvivenza umana, e si prevede che nei prossimi cinquanta anni da 1 a 3 miliardi di persone potrebbero trovarsi a vivere ambienti non più ospitali. Rispetto a quarant’anni fa, si è dimostrato che la frequenza dei picchi di temperatura vicini al limite massimo sopportabile di bulbo umido è globalmente raddoppiata, e c’è chi stima che già oggi il 30% della popolazione mondiale sia esposto a combinazioni mortali di calore e umidità per almeno venti giorni l’anno: sarà il 50%, o forse addirittura il 75%, entro il 2100. Manifestandosi in ondate di calore sempre più frequenti, intense e protratte, dunque più letali, il riscaldamento globale renderà presto inabitabili vaste aree densamente popolate del pianeta. Quel che più allarma gli scienziati è però che temperature roventi cominciano a registrarsi in maniera anomala un po’ ovunque nel mondo, dall’Artico alle profondità oceaniche, senza soluzione di continuità tra l’Equatore e i Poli.
L’estate scorsa hanno fatto notizia i 49.6° C registrati a Lytton, in Canada, e i 48.8° C raggiunti a Floridia, in Sicilia: la temperatura più alta mai misurata, rispettivamente, sopra il 50° parallelo e in Europa. Ma sono primati che nascono fragili, provvisori e già battuti, con la crisi climatica che promette di sbriciolarli sin dall’anno successivo. Quella che sta per concludersi è stata infatti una nuova estate di temperature record in svariati Paesi d’Europa, d’America e dell’Asia. A Nanchino, in Cina, le autorità hanno addirittura aperto alla cittadinanza dei rifugi aerei sotterranei per sfuggire alle ondate di calore nelle ore diurne, mentre a Philadelphia, negli Stati Uniti, scuole che un tempo rimanevano chiuse per la neve oggi lasciano a casa gli studenti per il troppo caldo. Paradossalmente, l’estate che ci lasciamo alle spalle potrebbe essere la più calda di sempre e al tempo stesso la più sopportabile tra quelle che ci rimangono da vivere.
Secondo l’organizzazione no-profit Union of Concerned Scientists è giunto il tempo che la narrativa dominante che accompagna l’estate venga ribaltata da stagione glamour di vacanze in bikini, emancipazione e turismo di massa, a danger season in cui anche le più normali attività come camminare o lavorare all’aperto potrebbero risultare fatali. Ormai radicato nell’immaginario, il pregiudizio positivo e incrollabile con cui aspettiamo l’arrivo dell’estate ci impedisce di cogliere appieno i rischi della stagione calda, che sarà sempre più spesso funestata da ondate di calore, incendi e altri fenomeni metereologici estremi. Peggio: il mito dell’estate come stagione prediletta e desiderabile potrebbe far credere a molti che un clima che si scalda non sia in fondo poi così male – non fosse altro che, per via dell’eccesso di calore, si calcola muoiano globalmente già oltre 350 mila persone ogni anno.
L’estate che ci lasciamo alle spalle potrebbe essere la più calda di sempre e al tempo stesso la più sopportabile tra quelle che ci rimangono da vivere.
Anche quando non uccide, il caldo estremo può avere effetti irreparabili sulla salute umana. L’aumento medio delle temperature si associa a un tasso maggiore di bambini nati morti, prematuri o sottopeso, a disturbi dell’attenzione e al decadimento delle performance cognitive. Il caldo interferisce con l’efficacia dei farmaci, rendendoli addirittura nocivi per l’organismo, compromette la termoregolazione notturna del corpo e peggiora così la qualità del sonno, con ricadute deleterie nell’insorgenza di malattie corniche e neurodegenerative. L’eccesso di calore influenza negativamente l’equilibrio mentale e accentua la tendenza a depressione, ansia, disturbi bipolari e pulsioni suicidarie. Il clima che si scalda si correla persino a un aumento del comportamento aggressivo e degli episodi di criminalità violenti. Col riscaldamento globale che avanza, ne va della vita sapersi adattare.
L’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) distingue due generi di limite all’adattamento climatico. Parla di limiti “soft” se esistono delle misure per fronteggiare il riscaldamento globale, ma non sono (ancora) disponibili per via dei loro costi o di ritardi nello sviluppo tecnologico – si pensi, ad esempio, alla sintesi di nuove varietà di cereali resistenti ai climi siccitosi. Poi ci sono i limiti “hard”, quando i cambiamenti in corso sono così drastici che non c’è alcun modo di ridurre il rischio, come nel caso dell’innalzamento del livello dei mari. La massima temperatura di bulbo umido sopportabile dagli esseri umani è inquadrabile oggi tra i limiti soft, perché nel mondo non tutti hanno accesso a sistemi di raffreddamento che consentano mettersi al riparo dalle ondate di calore. Per quella fetta di umanità che non può permettersi un condizionatore domestico, migrare verso climi più sopportabili sarà la sola strategia di adattamento possibile. Per questo, ha osservato Elizabeth Royte su National Geographic, affrontare il caldo estremo è più difficile di quanto sembri: si tratta di un problema stratificato, inseparabile da questioni sociali più ampie come l’accesso alle risorse o il diritto alla mobilità.
In After Cooling: On Freon, Global Warming, and the Terrible Cost of Comfort (2021), Eric Dean Wilson scrive che siamo passati dalla guerra fredda ai tempi della deterrenza nucleare (cold war), all’attuale guerra per il raffreddamento degli ambienti di vita con l’installazione di massa dei sistemi di climatizzazione dell’aria (cooling war). Al momento si contano circa 2 miliardi di condizionatori installati in tutto il mondo, che secondo le stime delle Nazioni Unite e del World Economic Forum saranno 5 miliardi e mezzo entro il 2050, con la folle cifra di dieci condizionatori venduti ogni secondo per i prossimi trent’anni. Secondo Steven Johnson, autore di How We Got to Now: Six Innovations That Made the Modern World (2014), le tecnologie per il raffreddamento dell’aria hanno davvero rivoluzionato il mondo, rendendo vivibili città torride e altrimenti inabitabili come Phoenix e Dubai. Ma è ormai evidente che i sistemi di climatizzazione non possono essere di alcun rimedio alla crisi climatica, dacché raffreddano gli ambienti interni riversando calore in quelli esterni, si alimentano ora come ora con elettricità ricavata principalmente da fonti fossili, e soprattutto liberano nell’atmosfera gas refrigeranti altamente climalteranti.
Per quella fetta di umanità che non può permettersi un condizionatore domestico, migrare verso climi più sopportabili sarà la sola strategia di adattamento possibile.
L’uso dei condizionatori scalda da solo l’ambiente urbano fino a 2° C in più, e sempre da solo produce emissioni che entro la fine del secolo scalderanno la temperatura media terrestre di mezzo grado. Come raffreddare le persone e gli ambienti in cui vivono senza aumentare ulteriormente la febbre pianeta? Siamo così sorpresi dalla velocità dei cambiamenti climatici in atto che confondiamo la causa del problema con la sua soluzione. “Una delle grandi ironie del cambiamento climatico”, ha fatto notare al riguardo Emily Underwood su Scientific American, “è che via via che il pianeta si scalda, la tecnologia che serve alle persone per rimanere al fresco può rendere il clima solo più caldo”. Rimanere lucidi non è facile e sarà dura venirne a capo: per risolvere una difficoltà immediata, rischiamo di aggravare i problemi futuri.
Per stimolare l’efficientamento tecnologico dei sistemi di climatizzazione, in anni recenti è stato lanciato il Global Cooling Prize: una competizione internazionale che sfida gli ingegneri a progettare un condizionatore domestico che abbia un quinto dell’impatto ambientale rispetto ai modelli attuali, usi un quarto dell’energia e costi non più del doppio. A detta di Wilson, però, l’uso privato dell’aria condizionata in ambiente domestico rimarrà in ogni caso inefficiente: consuma molta energia e funziona soltanto per chi può permetterselo – tanto per tornare all’India, ad esempio, il mercato dei condizionatori è in grande fermento, ma al momento solo il 10% delle famiglie ne possiede uno in casa. L’efficientamento energetico dei sistemi di climatizzazione potrebbe presto raggiungere il limite, e così anche la ricerca di sostanze chimiche che possano rimpiazzare i gas refrigeranti senza aumentare i consumi di elettricità. I progettisti scendono già oggi a compromessi: ridurre il consumo energetico degli apparecchi o puntare tutto sul refrigerante meno impattante?
Per non dover scegliere il male minore servono disperatamente nuove idee, e i soli miglioramenti tecnologici non basteranno. Aspettarsi una moderazione spontanea e non regolata dei consumi è altrettanto illusorio – col clima che si scalda, cos’altro potrebbero volere le persone se non un condizionatore pronto da accendere in ogni momento? – ma un cambiamento culturale verso un nuovo modo di utilizzare i sistemi di climatizzazione, magari in spazi pubblici e su scala comunitaria, appare più che mai necessario. Anche spostare l’attenzione dal raffreddamento all’interno delle abitazioni agli ambienti urbani esterni potrebbe fare la differenza. Dopotutto entro la metà del secolo il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città, che di fronte al riscaldamento globale rimangono un paradosso: la densità abitativa degli spazi urbani è considerata essenziale per contenere l’impatto ambientale, ma combinata a ondate di calore sempre più frequenti e all’effetto isola di calore potrebbe rendere molte città invivibili. Per raffreddarle, si sperimenta oggi ogni genere di soluzione: superfici ombreggianti e riflettenti, forestazione urbana, tetti e corridoi verdi, fontane pubbliche, asfalti che non assorbono calore. Siamo così in ritardo che tutto può aiutare.
La riduzione delle emissioni è senza dubbio la strategia di adattamento climatico più urgente, necessaria e risolutiva in cui si possa sperare.
Il fatto è che mitigazione e adattamento al riscaldamento globale vengono spesso presentati come processi paralleli, persino antagonisti, quando invece la riduzione delle emissioni è senza dubbio la strategia di adattamento climatico più urgente, necessaria e risolutiva in cui si possa sperare. A dispetto dello sforzo immenso che dovremmo fare per abbattere le emissioni, il ripiego apparentemente semplice e immediato verso i sistemi di climatizzazione risulta tanto più fuorviante quanto più concentra la nostra attenzione sui sintomi della crisi climatica, anziché sulle sue cause. Se non mitighiamo, il riscaldamento globale renderà vana e impraticabile ogni altra misura di adattamento, facendoci prigionieri di un circolo vizioso che sarebbe per noi la più terribile delle condanne.
Non esistono scorciatoie alla crisi climatica: che ci piaccia o no, la via di fuga dal marasma che attraversiamo si colloca nel punto di intersezione tra innovazione tecnologica, cambiamento culturale e regolazione politica. Ce lo insegna questa estate così feroce, ormai diretta a concludersi, ma che l’anno prossimo sarà di nuovo qui con noi, più rovente che mai.