A dispetto delle apparenze, gli incendi boschivi sono un fenomeno piuttosto complesso, al cui innesco e sviluppo concorrono numerosi fattori naturali e antropici che si manifestano in maniera differente a seconda delle caratteristiche regionali delle aree boschive. Di per sé, non sono necessariamente un evento nocivo: anzi, nelle ordinarie condizioni di equilibrio ecologico contribuiscono ai normali cicli di rinnovamento e arricchimento degli ambienti vegetativi, tanto che la sopravvivenza di alcune specie animali e vegetali dipende proprio dall’azione periodica degli incendi nel loro habitat.
Come i cambiamenti climatici, dunque, gli incendi boschivi possono essere un fenomeno naturale e benefico; il problema, anche in questo caso, risiede nell’impatto delle azioni umane, che incidono sull’equilibrio tra ambiente e incendi, alterando la frequenza e la gravità di questi ultimi e complicando al tempo stesso la possibilità di gestirne le conseguenze. Vuoi per dolo, vuoi per negligenza – falò spenti male, mozziconi di sigarette o cocci di vetro gettati, scintille emesse da apparecchiature elettriche difettose o non sottoposte ad adeguata manutenzione – diverse ricerche stimano che in Europa e negli Stati Uniti le attività umane sono responsabili dell’innesco della schiacciante maggioranza degli incendi boschivi incontrollati, con stime che vanno dall’80 al 90 per cento.
La diffusione degli incendi è anche influenzata dal modo in cui i terreni boschivi e quelli adiacenti sono impiegati dalle comunità umane che vi abitano. La vulnerabilità agli incendi incontrollati aumenta con l’utilizzo di pratiche non sostenibili, tra le quali si può citare banalmente la deforestazione, che rende il suolo più arido e compromette la capacità di recupero della vegetazione rimanente, ma anche il dragaggio per l’estrazione di carbone o l’introduzione di specie vegetali non autoctone. L’abbandono delle aree rurali limitrofe alle aree boschive, un fenomeno in crescita in diverse zone d’Europa, è un altro fattore di rischio, in quanto le popolazioni rurali si occupano tipicamente di limitare l’accumulo di materiale combustibile (per esempio col pascolo, o con gli incendi controllati) e creano zone agricole che fungono da cuscinetto, ostacolando la diffusione degli incendi, oltre naturalmente a effettuare un’azione di vigilanza e allerta che permette una risposta più tempestiva all’insorgere degli incendi.
Il fuoco non si innesca semplicemente all’aumentare della temperatura media, ma di converso non è sufficiente un semplice innesco per far divampare un incendio.
A questi fattori di rischio antropogenico si aggiungono poi i cambiamenti climatici: se pochi decenni fa era difficile quantificarne l’importanza per gli incendi, oggi esistono oltre un centinaio di studi condotti a partire dal 2013 che ne illustrano il crescente impatto in numerose parti del mondo. È vero, il fuoco non si innesca semplicemente all’aumentare della temperatura media, ma di converso non è sufficiente un semplice innesco per far divampare un incendio; ed è qui che entrano in gioco la relazione significativa tra i fenomeni climatici e alcune tra le principali condizioni ambientali e meteorologiche favorevoli alla combustione e alla propagazione del fuoco.
La probabilità che si verifichino incendi boschivi, così come l’entità delle loro conseguenze, sono determinate in larga parte da una combinazione di fattori meteorologici – temperatura, umidità dell’aria, direzione e intensità del vento – nonché dalla disponibilità di materiale combustibile secco. In generale, l’aumento medio delle temperature prolunga la durata dei periodi di siccità e intensifica le ondate di calore. L’incremento combinato di questi due fenomeni – siccità e ondate di calore – porta al disseccamento del materiale combustibile, composto da rami e ramoscelli, foglie, erba, corteccia e così via, e arreca stress fisiologico agli organismi vegetali, causando la moria di piante e facilitando così la diffusione di ulteriore materiale organico secco e facilmente infiammabile.
Sarebbe sbagliato credere che a correre un maggior rischio di incendi siano soltanto i posti tradizionalmente intesi come caldi. Si considerino le regioni alpine: con l’aumento delle temperature medie, da una parte il volume delle nevicate invernali diminuisce, dall’altra i ghiacci e le nevi fondono più precocemente. La combinazione di questi fenomeni riduce la disponibilità d’acqua di fusione in primavera; se, in aggiunta a questo, consideriamo le ondate di calore e i record di temperature estive (come quelle registrate sulle Alpi, dove nell’estate 2023 lo zero termico ha superato i cinquemila metri in più occasioni), tutto questo porta a un aumento potenziale di siccità in estate. Esistono poi altri fenomeni indiretti tramite i quali il cambiamento climatico accentua il rischio di incendi gravi. Per esempio, in regioni sub-artiche come quelle dell’Europa settentrionale, la foresta boreale tende a ritirarsi in risposta all’aumento delle temperature medie, che favorisce invece specie appartenenti al bioma temperato.
Le conseguenze di questi mutamenti sono complesse da descrivere in dettaglio, ma in sostanza ciò che succede è che viene alterata proprio la composizione di quegli ecosistemi che si sono evoluti nel corso di tempi molto lunghi, adattandosi in modo naturale a far fronte agli incendi, e ciò li rende più vulnerabili e ne diminuisce la resilienza. Inoltre, l’aumento delle temperature medie globali rende gli eventi meteorologici più intensi e imprevedibili. Per esempio, la principale causa non antropica di innesco degli incendi boschivi sono i fulmini, e in condizioni ordinarie è possibile prevedere con una certa approssimazione la probabilità che colpiscano una certa area. Le conseguenze meteorologiche dei cambiamenti climatici possono provocare però rapide variazioni nella distribuzione dei fulmini, nonché nella direzione e nell’intensità dei venti: ciò complica le previsioni sulle aree di innesco degli incendi e su quelle che ne saranno raggiunte, rendendo meno efficaci le misure di contrasto. Infine, i cambiamenti climatici favoriscono anche la proliferazione di specie invasive di piante e le infestazioni di fitopatogeni, con un ulteriore stress fisiologico che può rendere gli ecosistemi boschivi più sensibili all’attacco del fuoco.
Sarebbe sbagliato credere che a correre un maggior rischio di incendi siano soltanto i posti tradizionalmente intesi come caldi.
Che cosa dicono le osservazioni in proposito? L’idea che il cambiamento climatico abbia un ruolo nel determinare condizioni favorevoli a incendi estesi e frequenti, come quelli che si sono verificati di recente in Europa, Canada, Stati Uniti e Australia, è corroborata da analisi basate su indicatori come la durata annuale della stagione degli incendi, il loro numero, l’estensione dell’area bruciata e l’estensione dell’area vulnerabile al fuoco. Già nel 2015, una ricerca condotta da una collaborazione tra vari centri di ricerca statunitensi e australiani osservava che nel mondo, tra il 1979 e il 2013, la lunghezza media della stagione degli incendi era cresciuta in media del 19 per cento e la superficie dei terreni suscettibili agli incendi era quasi raddoppiata. E questo anche se globalmente, tra il 1998 e il 2015, la superficie totale bruciata da incendi è diminuita di circa il 25 per cento, un fenomeno riconducibile soprattutto a fattori demografici ed economici, come la conversione all’agricoltura dei terreni delle savane africane e sudamericane e delle praterie della steppa asiatica. Nei singoli Paesi le cose possono essere molto diverse: per esempio, negli Stati Uniti l’area colpita dagli incendi è aumentata nel corso del tempo, e ciascuno degli anni tra il 2020 e il 2022 ha superato la media annuale di circa 480 mila ettari di terreno andati letteralmente in fumo. Lo stesso si può dire dell’Unione europea, dove nel 2022 il sistema di monitoraggio satellitare Copernicus ha mostrato come la superficie interessata dagli incendi sia rimasta tutto l’anno ben al di sopra della media dei quindici anni precedenti.
In Australia, l’analisi delle osservazioni combinate da terra e da satellite ha messo in evidenza una crescita decennale nella superficie forestale colpita da incendi, che si manifesta in maniera particolarmente accentuata in autunno e inverno; è inoltre diminuito l’intervallo di tempo tra incendi successivi ed è aumentata la frequenza dei cosiddetti mega-incendi, ovvero quelli in cui la superficie bruciata supera i diecimila ettari. Ciò che è più importante, tutte le osservazioni descritte in questa analisi mostrano una forte associazione con i trend climatici nelle aree colpite. Relativamente agli incendi, il Canada ha avuto nel 2023 un annus horribilis, nel corso del quale sono andati in fiamme quasi sette milioni e mezzo di ettari di terreno; si tratta di un’estensione pari al North Dakota, e superiore a quella consumata dal fuoco negli anni 2016, 2019, 2020 e 2022 sommati insieme. Secondo gli scienziati del World Weather Attribution, un’iniziativa che quantifica il contributo dei cambiamenti climatici antropogenici agli eventi meteorologici estremi, l’attuale trend climatico ha raddoppiato la probabilità di condizioni favorevoli ai mega-incendi divampati sul territorio canadese tra il maggio e il giugno del 2023.
Un legame tra l’evoluzione del clima e un rischio crescente di incendi è stato riscontrato anche in Sudafrica: un’analisi effettuata dall’American Meteorological Society confrontando i dati storici ha concluso che l’aumento delle temperature medie globali ha reso del 90 per cento più probabile il contesto idro-meteorologico estremo dell’aprile del 2021, data in cui si è verificato un importante incendio sulla montagna della Tavola, nei pressi di Città del Capo, con incursioni nelle aree urbane e un danno stimato di circa 60 milioni di dollari. Condizioni inedite ed estreme di siccità e vento sono state osservate in relazione agli incendi di Knysna, nel giugno del 2017; in particolare, l’intensità e la forte variabilità del vento hanno permesso al fuoco di aggirare per la prima volta diverse barriere naturali e artificiali, pregiudicando l’efficacia delle misure di contenimento e causando danni ad abitazioni e infrastrutture per un valore stimato di oltre 250 milioni di dollari. Gli incendi di Knysna, che hanno distrutto sedicimila ettari di piantagioni e ucciso sette persone, ci ricordano ancora una volta come gli interventi di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, tra cui si annoverano anche quelli di monitoraggio e prevenzione degli incendi, abbiano una particolare rilevanza per le comunità che vivono nelle zone di interfaccia con le aree boschive: la Joint Research Commission della Commissione europea ha calcolato che un ulteriore aumento di 3 gradi nella temperatura media globale esporrà a grave pericolo di incendi quindici milioni di persone in più rispetto a oggi.
Un estratto da A fuoco. Crisi climatica e disinformazione (Mimesis, 2024), a cura di Simone Fontana.