N ei primi anni Ottanta Adalberto Giazotto ha poco più di quarant’anni, lavora al CERN di Ginevra e ha collaborato con alcuni dei più brillanti fisici in attività, Edoardo Amaldi, Sergio Fubini, Lorenzo Foà. Eppure è irrequieto, insoddisfatto, si sente “un piccolo ingranaggio di un meccanismo molto più grande e complesso”. Fisicamente è devastato da un “dolore cronico e insopportabile”, forse schisi sacrale. Eppure non si dà per vinto. “Quando le cose volgevano al peggio ho trovato dentro di me la forza per reagire”. Decide di cambiare campo di ricerca, finisce per impugnare un’idea all’epoca ritenuta ancora troppo ambiziosa: rilevare le onde gravitazionali, evanescenti e deboli segnali previsti dalla relatività generale di Einstein e mai osservati. Nasce così l’esperimento Virgo, un possente interferometro costruito nel comune di Cascina, in provincia di Pisa.
Avanti veloce: l’11 febbraio 2016 viene annunciata la prima rilevazione diretta delle onde gravitazionali. È una notizia da Nobel, ma è una vittoria agrodolce per Giazotto; per una sfortunata coincidenza di tempi e di tabelle di marcia, a dare l’annuncio dell’osservazione non è Virgo ma LIGO, l’esperimento americano con cui Virgo collabora e che per primo ha registrato lo storico segnale. Ad agosto, però, arriva anche l’osservazione nei laboratori di Cascina. Si può festeggiare.
Adalberto Giazotto è morto il 16 novembre 2017. È stato uno dei maggiori protagonisti della scienza italiana degli ultimi decenni. Fuori dall’accademia, però, è rimasto nell’ombra per la maggior parte della sua carriera. L’autobiografia La musica nascosta dell’universo – uscita postuma e a cura di Andrea Parlangeli, per i tipi di Einaudi, nella collana Passaggi – colma almeno in parte questa lacuna. Tra diario personale e divulgazione, è un racconto intimo del lato umano del processo scientifico. Siamo felici di poterne pubblicare sul Tascabile le prime pagine. (Matteo De Giuli)
Cascina (Pisa), 11 febbraio 2016
Le note che corrono mentre i giornalisti si siedono in sala sono quelle dell’Adagio che tutti conoscono come «di Albinoni»; ma che in realtà ha composto Remo Giazotto, mio padre, su due spunti tematici e su un basso numerato di Tomaso Albinoni. È stato un pensiero gentile da parte degli organizzatori e lo apprezzo; ma questo non è un giorno felice per me. Quella melodia familiare accompagna l’annuncio di una pietra miliare della scienza, la scoperta delle onde gravitazionali previste da Einstein esattamente un secolo fa. È un momento importante. I giornalisti sono in fibrillazione. Tutti sono pronti alla festa, e l’affetto che mi circonda è enorme. Mi stringono la mano, sorridono. Riconoscono che ci avevo visto giusto trentacinque anni fa, quando ho cominciato a credere in questa follia. Ma questo è il loro trionfo, non il nostro. Loro, degli americani. Perché sono stati i loro strumenti a registrare per primi il passaggio delle flebili onde previste da Einstein.
Cascina (Pisa), 14 agosto 2017
Ce l’abbiamo fatta. Ce l’abbiamo fatta anche noi! Il nostro strumento, Virgo, ha appena registrato un segnale. È il primo che vede. Quasi non speravo più di vivere questo momento. Eppure doveva arrivare. Ora sì, sono davvero commosso. Non ci sono dubbi, l’abbiamo visto insieme. Noi e gli americani. Mi hanno appena telefonato per dirmelo. È uno scontro tra buchi neri, come gli altri che sono stati già osservati nei mesi passati. Solo che ora possiamo dire con più precisione dove è avvenuto, e possiamo per la prima volta caratterizzare l’onda in ogni suo dettaglio. È un grande giorno per la scienza, e ora posso finalmente esultare anch’io.
Cascina (Pisa), 17 agosto 2017
Un altro segnale. E questo è diverso, è uno scontro tra stelle di neutroni, una cosa mai vista prima. Lo avevamo cercato per anni, invano. Ora c’è, e sappiamo da dove arriva. È la conferma di quanto siano potenti i nostri mezzi, di quanto ci permettano di vedere ciò che prima potevamo soltanto immaginare. Da ogni parte del pianeta, i telescopi stanno puntando nella direzione che abbiamo indicato, a caccia di altri dati, di altre prove. In tutto il mondo c’è un nuovo fermento. E io sono felice, non so se credere che tutto questo sia vero, mentre mia moglie mi abbraccia e si commuove nel leggere nei miei occhi una gioia nuova.
Adagio affettuoso e appassionato
Quando ho visto i dati per la prima volta, sono rimasto di sasso. Erano puliti, eloquenti, non lasciavano spazio a dubbi. Erano stati registrati il 14 settembre 2015, ed erano la prima prova diretta del passaggio di un’onda gravitazionale. Si trattava di un evento storico, la scoperta di un fenomeno nuovo e straordinario, una tenue fluttuazione che si espande nello spazio come un’onda provocata da un sasso in uno stagno. Lo aveva previsto Albert Einstein esattamente un secolo prima; purtroppo si trattava di un fenomeno così tenue che molti dubitavano di poterlo vedere nel corso della loro vita.
Il segnale è stato registrato dai due osservatori LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory), situati uno a Livingston, in Louisiana, e l’altro a Hanford, nello Stato di Washington, entrambi negli Stati Uniti. Questi due grandi strumenti fanno parte di una collaborazione internazionale che comprende un altro osservatorio simile in Italia. Si chiama Virgo e si trova nella campagna di Cascina, in provincia di Pisa. Virgo è nato da una mia idea e funzionava alla perfezione. In quel periodo era momentaneamente spento per un upgrade, in quanto stavamo lavorando a migliorarne le prestazioni. Non ha potuto registrare quell’evento, ma è stato un protagonista della vicenda che mi accingo a raccontare.
Senza parole
Quei dati di fronte a me erano qualcosa di incredibile. Non un semplice tremolio, un lieve sussurro che emerge a malapena dal rumore di fondo. Non erano solo la prova del passaggio di un’onda gravitazionale. Erano qualcosa di più, un vero e proprio messaggio, una storia che giungeva da un altro mondo per raccontare qualcosa di nuovo e meraviglioso. Qualcosa di totalmente inaspettato, proprio perché era esattamente come l’avevo previsto: un’oscillazione che diventa sempre più rapida fino al momento dello scontro. Nel vederla, sono rimasto senza parole. Era la testimonianza diretta dell’urto di gran lunga più violento che avessero mai registrato i nostri strumenti: una collisione tra buchi neri. I due osservatori americani hanno visto tutto. Perché in quegli ultimi istanti della loro vita, nel pieno rispetto delle leggi di Einstein, i due buchi neri si sono fusi insieme emettendo un’enorme quantità di energia sotto forma di onde gravitazionali.
Nella terribile esplosione della bomba «Little Boy» a Hiroshima, quella che dimostrò al mondo la potenza smisurata degli ordigni nucleari, una quantità di materia inferiore a un grammo scomparve dalla faccia della Terra per trasformarsi in pura forza distruttrice in base alla legge E=mc^2. Nello scontro osservato da LIGO, non sarebbe bastato che si disintegrasse l’intero pianeta Terra per generare la stessa energia che i due buchi neri hanno liberato in pochi secondi. Sarebbero state necessarie tre stelle come il Sole. Un’energia così grande non ha eguali nel mondo di cui abbiamo esperienza diretta. Ma la catastrofe era avvenuta molto lontano. Si era verificata a 1,3 miliardi di anni luce da noi, molto al di là dei confini della nostra galassia, ed era ormai così flebile che per ascoltarla è stato necessario costruire enormi apparati lunghi svariati chilometri, azzittire qualsiasi rumore, sospiro, vibrazione che potesse costituire un disturbo e infine rilevare spostamenti infinitesimi, inferiori alle dimensioni atomiche su una distanza pari a quella fra la Terra e il Sole. Una follia. Trent’anni fa me lo dicevano tutti che era una follia. E invece eccoci qua, ce l’abbiamo fatta.
Come grandi orecchie
Per osservare le onde gravitazionali occorre costruire enormi rivelatori capaci di garantire la sensibilità necessaria alle misure. I due LIGO, a Livingston e a Hanford, e Virgo sono i tre strumenti più grandi esistenti al mondo e funzionanti in questo momento. Sono strutture simili, cresciute in parallelo. E si basano sullo stesso principio, l’interferometria, una tecnica che si serve della luce laser ad altissima precisione al fine di misurare le tenui alterazioni della struttura dello spazio generate dal passaggio delle onde previste da Einstein.
Virgo, in particolare, è una grande L che si estende per tre chilometri nelle due direzioni nel mezzo della campagna pisana. L’abbiamo ideato nelle sue linee essenziali negli anni Ottanta del secolo scorso, quando in pochi credevano che una macchina del genere potesse anche solo essere realizzata. I due interferometri LIGO hanno avuto una storia e una forma analoga, ma sono un po’ più grandi: i due bracci della L misurano quattro chilometri invece di tre.
È soltanto con queste grandi orecchie, nel silenzio più assoluto che si possa immaginare, che è possibile ascoltare la musica dell’universo: il cinguettio di due buchi neri, il canto regolare di una pulsar, l’acuto di una supernova, il lontano boato del Big Bang.
D’altra parte, più che ai telescopi ottici, i rivelatori di onde gravitazionali oggi in funzione si possono paragonare a sofisticati microfoni, in grado di captare le note più tenui che ci raggiungono da ogni angolo del cosmo, e di cui riusciamo a ricostruire in modo approssimativo la direzione di provenienza grazie a opportune triangolazioni. Gli interferometri sono grandi antenne che ci permettono di ascoltare il suono dell’universo in 3D.
Ho dedicato la vita a questo traguardo, ho coinvolto centinaia di persone, abbiamo condiviso un sogno. E il sogno era il più ambizioso possibile. Non solo ottenere per la prima volta l’evidenza concreta di un’onda ancora sconosciuta, cioè la pura e semplice first detection. No. Per poterle meglio identificare, volevo ascoltare la voce piena di queste onde che permeano in ogni sua parte l’universo. Volevo ascoltarle in tutta la gamma di frequenze potenzialmente raggiungibile. Quasi nessuno ci credeva, allora. Dicevano che era tecnicamente troppo difficile, e che perdevo tempo. I colleghi negli Stati Uniti, inizialmente, si sono accontentati delle alte frequenze, come dire soltanto degli acuti. Io no, volevo pure i bassi. Volevo leggere l’intero spartito, perché solo così sarebbe stato davvero possibile capire. È su questa base che ho concepito Virgo fin dall’inizio.
La mia colonna sonora
Se fosse stato per me, ad accompagnare l’annuncio della scoperta non avrei messo l’Adagio in sol minore detto «di Albinoni», ma Beethoven. Avrei forse scelto il secondo movimento del Quartetto per archi opera 18 n. 1, l’Adagio affettuoso e appassionato, che con un urlo di violenza beethoveniana ben avrebbe accompagnato l’evento osservato. L’idea di usare l’Adagio in sol minore è stata un omaggio nei miei confronti da parte degli organizzatori della conferenza stampa, e l’ho gradito moltissimo.
Per me quella musica rappresenta l’infanzia, anche se mio padre a quel che ricordo non la suonava mai, probabilmente perché si trattava di un pezzo per archi e organo, mentre lui amava soprattutto il pianoforte. Quando ero bambino, suonava soprattutto Beethoven. Ed è allora che probabilmente è nata la passione che ho, un po’ sfrenata, per questo grande compositore. A mio padre piaceva in particolare la Sonata n. 7; la eseguiva spesso ed è il ricordo più vivo che ho dei rapporti tra lui e la musica.
Papà era una persona riservata, parlava poco di sé. I suoi genitori, cioé i miei nonni, si chiamavano Alberto e Ada, da cui deriva il mio nome. Aveva una cultura immensa, ma era molto modesto. È stato musicologo, compositore, giornalista, critico musicale, ed è noto per i suoi studi su Tomaso Albinoni, di cui ha scritto una monografia che ha fatto storia. Con quel lavoro ha riscoperto il compositore, traendolo fuori dall’oscurità in cui si trovava. L’Adagio in sol minore è stato composto sulla base di due spunti tematici e di un basso numerato di Albinoni provenienti dalla biblioteca di Dresda e poi andati perduti subito dopo la guerra per i bombardamenti. Mio padre si divertì a completare l’opera inventando il resto della melodia, visto che la composizione musicale era una delle sue passioni, e non se ne preoccupò ulteriormente. Ma una sera venne a trovarlo un caro amico, il direttore d’orchestra Ennio Gerelli, che notò la partitura e, interessato, la portò con sé per studiarla. Risultato: nel 1949 Gerelli decise di eseguire pubblicamente l’opera senza averlo comunicato a mio padre per fargli una sorpresa, e lo invitò al concerto. Fu così che mio padre venne a scoprire che Gerelli aveva chiamato, nel programma della serata, la sua opera «Adagio in sol minore di Tomaso Albinoni».
Il successo fu immediato, e contribuì a rendere popolare la figura di Albinoni. Ma si creò un equivoco sulla paternità dell’opera, che perdurò fintanto che non intervenne la casa discografica Ricordi, nel 1956, a mettere ordine nella vicenda: da allora, l’Adagio in sol minore è riconosciuto ufficialmente come «di Albinoni-Giazotto».