A oltre quarant’anni dalla prima edizione del 1979, leggere Laboratory Life di Bruno Latour e Steve Woolgar rimane uno shock. Un antropologo sospende il dato per scontato fingendo di non sapere cosa siano la scienza, gli esperimenti e i ricercatori, entra in un laboratorio, e cosa vede? Gente che scrive, scrive tutto il tempo, amanuensi. Il loro argot è fatto di misteriose iscrizioni letterarie: interpolazioni logaritmiche, funzioni di distribuzione e altri simboli esoterici per rendere intellegibile la realtà “là fuori”, codici e tassonomie per estrarre l’ordine dal disordine. Con quelle bizzarre iscrizioni geroglifiche il “popolo del laboratorio” redige dei testi scritti, il più possibile persuasivi e tenuti in notevole considerazione dagli indigeni dei laboratori omologhi, al fine di intaccare il grado di “fattualità” di certe teorie sulla natura. “Un laboratorio esegue costantemente operazioni sugli enunciati”, annotano Latour e Woolgar: “aggiunta di modalità, citazioni, miglioramenti, ridimensionamenti, prese in prestito e suggerimenti per nuove combinazioni”.
È attraverso queste progressive operazioni di manipolazione degli enunciati che una teoria, dapprima gracile e insicura, si tramuta o meno in un fatto inoppugnabile. L’attività di laboratorio, intuisce l’antropologo, può quindi essere compresa nei termini di una continua generazione di documenti – in cima ai quali i paper – che hanno l’effetto di trasformare gli enunciati aumentandone o diminuendone lo status di fatti scientifici. Se quelle teorie accuratamente fabbricate in laboratorio continuano a essere considerate valide allora cominciano a diventare “vere”. L’impresa scientifica ha successo quando i fragili artefatti dei ricercatori riescono a cementarsi in fatti granitici e inattaccabili, chiusi ermeticamente in delle scatole nere che quasi nessuno avrà più l’ardire, o la pazienza, di riaprire. Di qui la necessità per l’etnografo di studiare la scienza “in azione” capitando in laboratorio prima che la scatola nera si chiuda, oppure vigilando minuziosamente sulle controversie in atto per tentare di riaprirla.
Basterebbe già questo riassunto minimo di Laboratory Life, il primo studio etnografico a seguire empiricamente il lento montaggio delle conoscenze scientifiche in laboratorio come fosse il rituale sciamanico di una società tradizionale, per cogliere l’assoluta originalità del pensiero di Latour, intellettuale poliedrico e inclassificabile, morto all’età di settantacinque anni lo scorso 9 ottobre, dopo un lungo periodo di malattia. Nel ricordarlo, lo stesso Woolgar e altri esponenti dei cosiddetti Science and Technology Studies hanno espresso un giudizio pressoché unanime: nessuno ha spinto tanto a fondo la comprensione delle scienze nel loro farsi quanto Latour, erede ultimo e ribelle di una prestigiosa casata di vignaioli della Borgogna che alla strada spianata dell’enologia ha preferito quella più accidentata della laurea in filosofia e del dottorato in esegesi biblica.
L’antropologia arrivò solo più tardi nella sua vita professionale, con le prime esperienze di ricerca sul campo in Costa D’Avorio, e più tardi ancora arrivò la specializzazione nello studio della scienza, con l’ingresso all’École des mines di Parigi, la più antica scuola di ingegneria mineraria di tutta la Francia. Dell’infanzia trascorsa tra botti e vigneti rimarrà traccia nell’indiscussa capacità di connettere i suoi vasti interessi muovendosi con disinvoltura tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, proprio come un abile vignaiolo che sappia coniugare l’acume nella gestione aziendale alla conoscenza profonda della chimica del suolo.
La scienza nel suo farsi
Autore prolifico e provocatorio, faustiano e dall’indole pugnace, Latour ha anzitutto il merito di essere stato il primo a impiegare con profitto l’etnografia, il più rudimentale e flessibile dei metodi di ricerca qualitativa, nello studio di una particolare “tribù” del mondo moderno: gli scienziati. Ebbe l’illuminazione nella seconda metà degli anni Settanta, quando ottenne l’accesso ai laboratori di neuroendocrinologia del Salk Institute for Biological Studies, in California. Allora si credeva che non vi fosse nulla da scoprire su come operano davvero i ricercatori, dacché sono tutti addestrati ad applicare un unico metodo, quello scientifico, fonte di un’autorità egemonica e di una purezza indiscutibile.
Nessuno come Latour ha spinto tanto a fondo la comprensione delle scienze nel loro farsi.
Era nel senso comune degli scienziati associare l’antropologia allo studio delle società “primitive” o “pre-scientifiche”, così come la sociologia a questioni sociali e politiche che sono tuttora considerate aspetti “non-scientifici” e screditanti della ricerca. Si pensava che nella scienza risiedesse qualcosa di sacro, intoccabile, talmente speciale da sfuggire alle spiegazioni sociologiche, e che gli etnografi non avessero alcunché di significativo da dire sul lavoro degli scienziati, evidentemente già in possesso di ogni verità su se stessi. Al tempo in cui Latour entrò col suo taccuino nei laboratori del Salk Institute, gli scienziati non erano abituati a finire sotto il microscopio della sociologia e sotto il suo sguardo “oggettivante”, come fossero una colonia di formiche per l’entomologo. I fatti scientifici si rifiutavano categoricamente di essere sociologizzati, e in parte è ancora così.
Anni dopo, in Riassemblare il sociale (2005), lo stesso Latour ricorderà quella al Salk Institute come la prima esperienza sul campo con cui i sociologi studiarono davvero “verso l’alto”, vale a dire un collettivo ben più complesso, potente e blasonato del loro. L’etnografia poteva dunque essere applicata non solo allo studio degli oppressi, degli emarginati o dei popoli isolati, come si era sempre fatto fino ad allora, ma anche delle comunità di laboratorio: i santuari del sapere. Fu con questa “svolta etnografica” nello studio della scienza – una vera rivoluzione rispetto allo strutturalismo del padre fondatore della disciplina, il sociologo Robert Merton – che Latour ruppe con l’immagine idealizzata, normativa e quasi-religiosa della scienza promossa dall’epistemologia, per penetrare la mistica del laboratorio e approdare a una comprensione dell’impresa scientifica più laica, empirica, realistica. Diciamolo pure: più scientifica.
“Ci concentriamo […] sul lavoro svolto da uno scienziato saldamente posizionato al suo banco di laboratorio”, si legge con una certa contagiosa esaltazione in Laboratory Life. Il principio programmatico del nuovo metodo di ricerca proposto da Latour era in sostanza quello di studiare la natura della conoscenza scientifica senza pregiudizi, da una posizione finalmente agnostica ed estranea, descrivendo i pasteuriani così come loro stessi descrivono i propri bacilli. “Dobbiamo essere gli antropologi del nostro stesso mondo”, scriverà Latour in Microbi (1984), il suo saggio storico dedicato alla figura eclettica e sagace di Pasteur.
Mettendo piede per la prima volta nei corridoi del Salk Institute, Latour riprese alcune intuizioni espresse già in Genesi e sviluppo di un fatto scientifico (1935) da Ludwik Fleck e osservò che il laboratorio altro non è che il luogo in cui i fatti scientifici vengono costruiti, composti, prodotti, al prezzo di considerevoli sforzi intellettuali, economici, organizzativi. E si badi bene: i fatti scientifici sono costruiti nel senso letterale del termine – fatto deriva del resto da factum, “fabbricato”. La costruzione che avviene in laboratorio consiste nel reperire, mobilitare e assemblare ogni sorta di risorsa – persone, istituzioni, finanziamenti, strumenti, esperimenti, protocolli, teorie, pubblicazioni, revisori, riviste di settore… – che si riveli utile a trasformare una certa congettura sulla natura là fuori (l’artefatto) in un oggetto reale e dato per scontato (il fatto scientifico).
Per l’etnografo si tratta quindi di monitorare questo graduale e laborioso processo di stabilizzazione degli artefatti in fatti, cogliendo l’improvviso ribaltamento che avviene sul piano della loro descrizione retorica: se nelle prime fasi del processo esplicitare le circostanze della costruzione è necessario e conveniente alla persuasione, oltre un certo punto rendere ispezionabili le procedure di ricerca diviene una minaccia allo status di fatto dell’enunciato. All’inizio della stabilizzazione gli scienziati enfatizzano l’importanza dell’incertezza e della discussione, alla fine sostengono l’assoluta necessità di non discutere più: un’operazione accende il dibattito mentre l’altra lo spegne, una massimizza la perplessità invece l’altra la minimizza. Prima che il fatto venga chiuso in una scatola nera si esige che il confronto scientifico non tralasci alcun aspetto; dopo, che non ne sollevi più alcuno. Gli scienziati, conclude Latour, sono relativisti all’inizio del processo che dall’artefatto conduce al fatto e realisti alla fine: domina così il relativismo sulle parti irrisolte della scienza e il realismo su quelle risolte. Prima di lui mai nessuno aveva osato parlare della scienza in termini tanto spregiudicati.
La scienza come assemblaggio
Il quadro che emerge da un modo così innovativo, coerente e riflessivo di guardare a come la scienza si produce materialmente nelle pratiche, quindi non solo astrattamente o nella sua immagine “pronta all’uso”, è quello di una retorica debole che diventa via via più robusta, come scriverà lo stesso Latour in La scienza in azione (1987). “Cosa connettere a un’asserzione perché diventi più forte? Come smontare le asserzioni che la contraddicono?”. Gli antichi distinguevano tassativamente l’episteme, la conoscenza che sta in piedi da sola, dalla pistis, la persuasione attraverso la retorica, ma per Latour si tratta di una distinzione del tutto impraticabile: il sapere non può prescindere dalla retorica, dal momento che il sapere basato sulla retorica è il solo davvero possibile, l’unico in grado di generare una comprensione comune del mondo e di risolvere i problemi della polis.
Nella scienza non c’è scampo, lo stato di forze che definisce il sapere scientifico può essere contestato solo attraverso un’associazione di forze ancora maggiore: hic Rhodus, hic salta. O come la mette Latour: ‘datemi un laboratorio e vi solleverò il mondo’.
“Ebbene sì”, ammonisce Latour, “Galileo commise un grave errore opponendo retorica e scienza, collocando da una parte la moltitudine e dall’altra un uomo qualunque imbattutosi nella verità”. I fatti scientifici non godono di motu proprio, non si fanno strada da soli attraverso una misteriosa forza di inerzia: bisogna che qualcuno se ne appropri, il loro destino è nelle mani di chi si adopererà o meno per confermarli o affossarli, applicarli o dimenticarli. La scienza è dunque una poderosa macchina di persuasione che ha bisogno della volontà altrui affinché un certo enunciato si trasformi stabilmente in un fatto. “È sempre necessario convincere prima gli altri, uno per uno”, rincara Latour in Pandora’s Hope (1999). “Sono sempre lì, scettici, indisciplinati, distratti, disinteressati; formano il gruppo sociale senza del quale [lo scienziato] non può nulla”.
Per diventare esatta, quindi, una scienza deve persuadere e reclutare una vasta schiera di alleati, dei quali talvolta si sente imbarazzata, traducendo i loro interessi di parte in un obiettivo composito e comune. Si prenda di nuovo Pasteur, che attraverso l’articolazione di un complesso network di attori eterogenei ha dimostrato l’esistenza dei microbi e trasformato la medicina da arte a scienza. La mossa vincente di Pasteur, sostiene Latour, è stata quella di riuscire machiavellicamente a collegare saperi e persone, posizionando le forze del suo laboratorio, ancora deboli e immature, in risposta ad alcuni dei maggiori problemi del suo tempo, come quelli dell’igiene pubblica e della medicina veterinaria.
Di più, Pasteur riuscì a convincere anche i medici militari, i chirurghi e gli amministratori coloniali che le sue astruse teorie sull’origine microbica delle malattie infettive potevano essere di grande aiuto nel loro lavoro. Quelle teorie non vennero credute perché convincenti, ma poterono diventare convincenti perché gli igienisti vi credettero e le misero in pratica. Il genio di Pasteur, insomma, può essere spiegato sociologicamente, tracciando la rete di relazioni che gli permise di attivare un’intera legione di alleati interessati a estendere le sue idee al di fuori del suo modesto laboratorio. Secondo l’Actor-network Theory – un approccio codificato dello stesso Latour assieme agli altri studiosi che frequentarono quell’”universo di abbondanza” che fu il Centre de Sociologie de l’Innovation tra gli anni Ottanta e Novanta – serve mettere in connessione questa articolata rete di elementi diversi all’interno di un unico ecosistema affinché gli scienziati possano arrivare a costruire dei fatti oggettivi. “Spiegare non è una misteriosa impresa cognitiva”, ribadisce Latour in Riassemblare il sociale, “ma un’impresa molto pratica di costruzione di mondi che consiste nel connettere entità con altre entità, cioè nel tracciare una rete”.
Si è soliti dividere in due periodi la riflessione teorica di Latour: una prima fase da sociologo costruttivista interessato all’osservazione empirica delle pratiche scientifiche, e una seconda da intellettuale pubblico, più filosofo che scienziato sociale, coinvolto nei dibattiti su riscaldamento globale e Antropocene.
Più l’assemblaggio scientifico è saldo, intricato ed esteso, più è difficile scomporlo: si pensi ai vani sforzi di uno scettico qualsiasi che volesse dimostrare l’infondatezza delle teorie di Pasteur sui microbi dopo che sono entrate fermamente nelle routine di allevatori, veterinari e chirurghi. Il costo di sfidare un enunciato così accettato sollevando teorie alternative è incredibilmente alto, ed è proprio il set di enunciati considerati troppo costosi da modificare a costituire ciò che viene normalmente chiamato “realtà”. La scienza sviluppa una potenza sempre maggiore per il semplice fatto che ogni nuova scatola nera ne contiene molte altre di precedenti, come una matrioska: sigilla un lungo lavoro di allineamento, reificazione del sapere in strumenti scientifici, costruzione di evidenze e risoluzione delle controversie. I fatti scientifici più solidi sono rinserrati in una serie troppo cospicua di scatole nere perché lo scettico possa davvero pensare di aprirle tutte.
Qualcuno intende forse dimostrare l’inesistenza del bosone di Higgs? Benissimo, cominci col dotarsi di un lungo apprendistato in fisica delle particelle, di contro-laboratori più grandi ed equipaggiati del CERN, di un ammontare imprecisato di finanziamenti, di un numero ingente di scienziati brillanti e motivati, infine di una serie sterminata di protocolli di mediazione che consenta di organizzare i loro sforzi. Non potendo discutere l’esistenza del bosone di Higgs su basi retoriche, ovvero scientifiche, lo scettico non può che credervi. In questo senso la teoria del potere di Latour è opposta a quella di Bacone e Hobbes: se per i filosofi inglesi scientia est potentia (chi sa, può), per il sociologo francese potentia est scientia (chi può, sa). La solidità di un fatto dipende nulla di più, e nulla di meno, che dal lavoro necessario a disfare la rete di associazioni che l’ha costruito. Nella scienza non c’è scampo, lo stato di forze che definisce il sapere scientifico può essere contestato solo attraverso un’associazione di forze ancora maggiore: hic Rhodus, hic salta. O come la mette lo stesso Latour: “datemi un laboratorio e vi solleverò il mondo”.
Guerre scientifiche e realismo radicale
Come è facile immaginare, sulle prime molti scienziati non compresero il radicalismo metodologico adottato da Latour nello studio delle loro pratiche di laboratorio, né tantomeno apprezzarono la temerarietà e l’eterodossia del suo pensiero. Come può un fatto essere solido e reale se è anche costruito in laboratorio? Fabbricare non è forse “falsificare”? Perché mai una teoria scientifica sarebbe tanto più vera quanto più viene connessa alle altre forze della società? Se la scienza è “impura”, dacché per esistere deve sporcarsi con il mondo, come facciamo a considerarla valida? Come può il sapere dipendere dal potere, e non il contrario? Chi ha detto che per capire davvero la scienza e la tecnologia si debbano studiare simmetricamente i casi di insuccesso almeno quanto quelli di successo, come fece lo stesso Latour in Aramis, or The Love of Technology (1992)?
Ripetutamente accusato di essere un relativista, un debunker al contrario e uno scettico della scienza, Latour fu preso di mira nel corso degli anni Novanta tanto dalle critiche degli epistemologi quanto da quelle, ben più mordaci, di alcuni scienziati positivisti, in un periodo che viene ricordato oggi con il termine di “science wars”. In Imposture Intellettuali (1996) fu additato dai fisici Alan Sokal e Jean Bricmont di essere un filosofo postmodernista: etichetta sempre rifiutata da Latour, che in Non siamo mai stati moderni (1991) aveva a sua volta messo in discussione le nozioni stesse di modernità e post-modernità. Quando il suo nome fu preso in considerazione per una posizione presso l’Institute for Advanced Study dell’Università di Princeton, diversi eminenti scienziati minacciarono di dimettersi.
Latour venne tacciato di iconoclastia della scienza per il semplice fatto di aver descritto gli scienziati a lavoro e aver ricostruito la rete degli elementi che servono alla scienza per funzionare come istituzione sociale. Sarebbero infatti gli iconoclasti a domandarsi se un oggetto sia prodotto o reale, un fatto o un artefatto. Dal loro punto di vista, la costruzione umana è del tutto incompatibile con l’accesso alla verità: la mano al lavoro degli scienziati deve scomparire per non infrangere la santità e la trascendenza dell’oggettività. Dipinto come un iconoclasta della scienza, in Iconoclash (2002) Latour si definisce al contrario un “iconofilo”: è proprio perché sono meticolosamente costruiti in laboratorio che i fatti scientifici appaiono così reali, autonomi, e da ultimo indipendenti dagli scienziati che li hanno prodotti. La fabbricazione è causa della realtà dei fatti, non la sua negazione: “non vogliamo dire semplicemente che il lievito è reale”, esemplifica Latour in Pandora’s Hope, “ma che è più reale dopo che è stato fabbricato”.
Non solo, caratteristica dei fatti scientifici è quella di essere tanto più oggettivi quanto più sono artificiali le circostanze della loro produzione. Si torni all’esempio del bosone di Higgs: possiamo credere alla sua esistenza non sebbene sia stata dimostrata nelle condizioni artificiali dei laboratori del CERN, ma esattamente perché un esercito di fisici e ingegneri ha lavorato per decine di anni alla costruzione del più grande acceleratore di particelle di sempre, che una volta azionato ha sbriciolato il nucleo dell’atomo in frammenti impercettibili, la cui presenza è stata rilevata da alcuni degli strumenti di diagnostica più sofisticati al mondo e confermata solo dopo uno scrupoloso ed estenuante vaglio collettivo. Così lo stesso Latour in Riassemblare il sociale: “i fatti erano fatti – nel senso di esatti – perché erano fabbricati, ovvero emersi da situazioni artificiali. Ogni scienziato che abbiamo incontrato era fiero di questa connessione tra la qualità della sua costruzione e la qualità dei suoi dati”.
Latour venne tacciato di iconoclastia della scienza per il semplice fatto di aver descritto gli scienziati a lavoro e aver ricostruito la rete degli elementi che servono alla scienza per funzionare come istituzione sociale.
Come in un edificio gli impianti elettrici e idraulici spariscono dietro a muri portanti e pannelli di cartongesso, così i fatti scientifici vengono preparati al loro utilizzo epurandoli dalle circostanze materiali e collettive della loro produzione, di modo che non sembrino affatto artificiali: è questo il passaggio terminale, il coup de maître nella loro costruzione. I lettori dei paper sono pienamente convinti solo quando le fonti di persuasione sembrano essere del tutto scomparse: “il risultato della costruzione di un fatto è che non appare costruito da nessuno; il risultato della persuasione retorica nel campo agnostico è che i partecipanti sono convinti di non essere stati convinti”.
Latour chiamerà “realismo costruttivista” questo processo di produzione di verità scientifiche che risultano indipendenti dalle azioni che le hanno prodotte, risolvendo con estrema eleganza la storica diatriba filosofica tra realismo e costruttivismo. Al contempo, la sociologia della scienza improntata al realismo costruttivista non intende fare costruttivismo “sociale”, usare cioè le vecchie categorie di sempre – prestigio, autorità, controllo, capitale e quant’altro – per spiegare la scienza in maniera riduzionistica ed esternalista. Non intende nemmeno dimostrare che la scienza è fabbricata per svelarne i giochi di potere e dare l’idea che sia inaffidabile o inventata di sana pianta: “il ruolo dell’intellettuale non è quello di afferrare un martello e distruggere le credenze in fatti, o di afferrare una falce e tagliare i fatti con le credenze”, chiarisce Latour in Pandora’s Hope, prendendo le distanze tanto dalla critica marxista quanto da quella decostruzionista.
Il critico non è l’iconoclasta, ma colui che assembla: non mira a dare scandalo ridicolizzando le credenze nella realtà, bensì ad aggiungere realtà ai fatti rilevando empiricamente che quanti più sono gli attaccamenti di una scienza al resto del collettivo tanto più quella scienza sarà accurata, verificabile e solida – in una parola, migliore. Il costruttivismo della sociologia della scienza non è relativismo ma più realismo, al punto che Latour arriverà a parlare di realismo radicale: “chi crede di più nell’oggettività della scienza di coloro che sostengono di averla trasformata in oggetto di studio?”. È vero, in laboratorio si sperimenta la conturbante sensazione che tutto sia malfermo, vulnerabile e sul punto di fallire, ma è solo mostrando come vengono costruiti i fatti scientifici che secondo Latour questi possono risultare pienamente credibili. Altrimenti la credenza nella scienza non può che basarsi sulla magia.
L’illusione dei moderni
Gli scienziati non sono stati gli unici ad aver frainteso le audaci teorie di Latour, anche i negazionisti climatici l’hanno fatto. Il riscaldamento globale antropogenico è un fatto reale o una teoria costruita in laboratorio dagli scienziati? Per Latour, l’abbiamo capito, non c’è distinzione tra il fatto e la sua costruzione, anzi. È proprio perché il chimico Charles David Keeling è salito fin sulla cima del vulcano Mauna Loa per misurare la concentrazione atmosferica di anidride carbonica in condizioni di minima interferenza che la sua famosa curva dentellata ci è apparsa così convincente. Ed è precisamente perché Michael E. Mann e colleghi climatologi hanno combinato i dati di decine di indicatori che il loro storico grafico “a mazza da hockey” ci ha persuasi definitivamente che il clima della Terra si stesse riscaldando. Eppure, in uno dei suoi scritti più citati, Latour ammette apertamente il pericolo reale che scettici e negazionisti travisino o distorcano le sue teorie. “Perché mai mi brucia la lingua”, domanda loro Latour, “a dire che il riscaldamento globale è un fatto, che vi piaccia o meno?”.
È vero, in laboratorio si sperimenta la conturbante sensazione che tutto sia malfermo, vulnerabile e sul punto di fallire, ma è solo mostrando come vengono costruiti i fatti scientifici che questi possono risultare pienamente credibili.
Il negazionismo climatico altro non è che una controversia scientifica mantenuta strumentalmente aperta, sostenendo la mancanza di certezza lì dove il consenso è ormai completo. Per sgominare una simile minaccia, afferma Latour, serve riabilitare con urgenza un atteggiamento convintamente empirista nella comprensione della scienza e delle sue procedure: se il realismo illuminista ha fatto debunking di superstizioni o credenze infondate e la critica decostruzionista ha fatto debunking del primo empirismo e dell’episteme realista, il secondo empirismo dovrà fare debunking dei complottismi e del “criticismo credulone” dei negazionisti. L’obiettivo della critica non è mai quello di allontanarsi dai fatti, bensì di avvicinarsi ad essi con un atteggiamento ostinatamente realista: “un po’ di relativismo ti allontana dal realismo”, ha scritto Latour, “molto ti riporta indietro”. Ciò che la scienza costruisce e assembla è quantomai fragile, ma è il meglio che abbiamo, e merita perciò di essere difeso da quello che, in Cogitamus (2010), Latour definisce un nuovo “umanesimo scientifico”.
Si è soliti dividere in due periodi la riflessione teorica di Latour: una prima fase da sociologo costruttivista interessato all’osservazione empirica delle pratiche scientifiche, e una seconda da intellettuale pubblico, più filosofo che scienziato sociale, coinvolto nei dibattiti sulla modernità, il riscaldamento globale e l’Antropocene. Tra i critici c’è chi, non del tutto a torto, ha colto un evidente paradosso tra il materialismo radicale della prima fase e l’idealismo astratto, utopico e dalle tinte spesso profetiche della seconda. A detta di Latour si tratta soltanto un’illusione ottica: tra i due periodi esistono più elementi di continuità che di rottura, si pensi alla visione ibrida degli assemblaggi e al pluralismo delle ontologie multiple che torneranno per un ventennio nella sua opera, fino a culminare in An Inquiry into Modes of Existence (2012).
I moderni, sostiene Latour, hanno fatalmente creduto che la natura esistesse indipendentemente dagli umani, e che la società degli umani potesse decidere del suo destino indipendentemente dalla natura. Ebbri di questa doppia credenza, hanno tentato di depurare le loro scienze da ogni sorta di ibridazione con la società, separando i “fatti” della realtà esterna dai “feticci” delle credenze del soggetto. Questa immane opera di purificazione li ha resi per lungo tempo invincibili, almeno fino a che la loro illusione di controllo non ha cominciato a sgretolarsi. Più i moderni hanno cercato di staccare natura e cultura, più le hanno mescolate. Più purificavano le scienze dagli ibridi, più gli ibridi proliferavano. A detta di Latour non sono bizzarri i “selvaggi” perché mescolano “cose” e “persone”, sono strani i moderni che pensano davvero di poterle mantenere separate.
Si citi il rapporto tra morale e tecnologia, che nell’ontologia dei moderni apparentemente nulla avrebbero a che spartire. Secondo la teoria razionalista e di senso comune ancora oggi dominante la tecnologia è in sé neutra, dipende dal nostro comando: le armi non uccidono né difendono, sono le persone che le usano per fare l’uno o l’altro. Le armi sono un medium della volontà umana: accelerano l’azione, ma non influenzano la morale. Per Heidegger, al contrario, è la tecnologia che controlla noi, dominando i nostri istinti: le armi hanno una propria agency che assoggetta chi le possiede. Latour si spinge ancora più in là sostenendo che gli umani sono ciò che hanno: “le nostre qualità in quanto soggetti, le nostre competenze e personalità, dipendono da ciò che abbiamo nelle nostre mani”. L’attore in gioco non è mai solo il soggetto o solo l’oggetto, ma sempre la composizione ibrida di umano e non-umano, che Latour chiama “attante”: l’individuo armato, oppure l’arma-in-mano-all’individuo.
Dai non-umani che fanno parte del nostro assemblaggio dipendiamo a tal punto da delegare loro interi programmi d’azione e quote crescenti di comportamento morale che altrimenti non riusciremmo a soddisfare: si veda il dosso nei pressi di una scuola che ci impone di rallentare compensando così la nostra mancanza di etica e volontà. Per Latour non c’è alcuna discontinuità tra la resistenza meccanica degli ammortizzatori non-umani e l’obbedienza umana alla legge morale. Di qui la necessità di riconoscere appieno chi e che cosa partecipa all’azione, includendo anche le “masse mancanti” di entità non-umane: “il progetto dell’ANT consiste semplicemente nell’aumentare l’elenco dei partecipanti, modificarne la morfologia e la fisionomia e progettare un modo per farli agire come un tutto”. Un tutto cui alcuni scienziati visionari hanno dato il nome di Gaia.
Nella zona critica di Gaia
Morale, conoscenza scientifica, sopravvivenza umana: ogni cosa sembra dipendere dall’assemblaggio con i non-umani, che ci avvolge come un involucro e rende possibile la vita in società – un’immagine, questa, che Latour riprende dalla teoria delle sfere del filosofo tedesco Peter Sloterdijk. I non-umani rappresentano al contempo la nostra natura e la nostra cultura: esseri che sono l’ambiente di altri esseri, creature che modificano l’ambiente cui si sono adattate, viventi che tutti assieme creano il clima che li fa vivere. Se queste sono le premesse, per Latour fu del tutto normale avvicinarsi all’ipotesi Gaia di James Lovelock, teoria negletta e misconosciuta, mai del tutto accettata dalla comunità scientifica, meritevole però di aver sollevato una domanda cruciale e inderogabile per le sorti planetarie: quali forze mantengono in equilibrio il disequilibrio della biosfera terrestre?
Per Latour fu del tutto normale avvicinarsi all’ipotesi Gaia di James Lovelock, teoria negletta e misconosciuta, mai del tutto accettata dalla comunità scientifica, meritevole però di aver sollevato domande cruciali e inderogabili per le sorti planetarie.
Negli anni Sessanta la NASA chiese a Lovelock di escogitare un sistema per rilevare la presenza di vita nello spazio, un incarico che lo portò a riflettere sulle proprietà uniche dell’atmosfera del nostro pianeta, il solo noto a ospitare la vita. La miscela di gas atmosferici della Terra è causa e conseguenza della vita stessa, che modificandola con la sua presenza produce l’effetto collaterale di mantenere stabili e durature le condizioni planetarie di abitabilità. “La Terra”, si interroga Latour in La sfida di Gaia (2015), “dovrebbe essere come Marte, un astro morto. Ma non lo è. Quale forza è dunque capace di ritardare la sua scomparsa?”.
Certo non il fatto che Gaia possa essere intesa come un unico superorganismo dotato di un’anima e di uno scopo: un’idea introdotta dai detrattori di Lovelock per squalificare la sua teoria. Piuttosto, l’abitabilità del pianeta è legata a doppio filo a quella sottile biopellicola di esseri viventi che popola la cosiddetta critical zone tra il sottosuolo e l’atmosfera terrestre. “È precisamente perché non vi è alcun timone e quindi alcun timoniere, né maestro, né capitano, né ingegnere, né Dio”, fa notare Latour, “che Gaia è un’invenzione che tutte le sottigliezze della scienza devono puntare a spiegare”.
In Dove sono? (2022), pubblicato pochi mesi prima della morte, Latour si riallaccia al dibattito sui metodi di contenimento della pandemia di COVID-19 per affermare che la condizione umana è quella del confinamento perpetuo nella zona critica della Terra. “Facciamo tesoro di quello che ci ha rivelato il confinamento”, scrive Latour: “dato che non dobbiamo più trasportarci in un ultra-mondo, possiamo ricominciare a cercare dove abitare quaggiù”. Se Galileo rivoluzionò la scienza svelando col suo telescopio che la Terra è solo un minuscolo elemento di un universo sterminato e potenzialmente colonizzabile, Lovelock impiegò il suo rivelatore a cattura di elettroni per dirci che la presenza della vita rende la Terra del tutto diversa da ogni altro pianeta. A sentire Latour quella di Gaia sarebbe la più sconvolgente scoperta scientifica della nostra epoca: Lovelock l’ha intuita nel macrocosmo dello spazio, Lynn Margulis nel microcosmo dei batteri, mentre Richard Powers – suo compagno di esperimenti mentali e scrittore prediletto – l’ha esplorata più di ogni altro dal versante della letteratura.
In ‘Dove sono?’ Latour si riallaccia al dibattito sui metodi di contenimento della pandemia di COVID-19 per affermare che la condizione umana è quella del confinamento perpetuo nella zona critica della Terra.
Se la nostra sopravvivenza dipende così intimamente dalla rete di connessioni che permettono alla Terra di resistere alla crescente radiazione solare, osserva Latour in Politiche della natura (1999), allora serve urgentemente una filosofia politica compatibile con il fatto che non esistono altro che assemblaggi di umani e non-umani. Il nuovo regime climatico che siamo chiamati a instaurare ha questo di sorprendente: “impone una solidarietà terribile e totalmente inaspettata fra vittime e carnefice”. Gaia ci costringe a diventare materialisti, ma fino in fondo: farci sensibili anche nei confronti del più minuscolo e insignificante degli esseri inseriti nel collettivo. Per attualizzare il nuovo regime climatico, dichiara Latour, dobbiamo cambiare la costituzione dei moderni, insediare un “parlamento delle cose”, estendere democrazia e diritti di rappresentanza anche agli ibridi. Bisogna poi disinventare lo stato, limitare i poteri nazionali in favore di Gaia, convocare COP per il clima cui prendano parte i delegati dell’Atmosfera e degli Oceani.
Idealistico? Probabilmente sì, ma come ribadito anche in Tracciare la rotta (2017) l’ecologia offre l’opportunità epocale di ridefinire la politica da sopra a sotto, portando al centro dell’azione collettiva la “cura delle cose”. Offre anche l’occasione irripetibile di rifondare l’universalismo attorno al Popolo di Gaia, che Latour chiama Earthbound, i “Terranei”: coloro che, toccando terra, intendono stringere un nuovo contratto naturale con gli esseri da cui dipendono l’abitabilità e la riproduzione di Gaia. “Il luogo dell’azione è quaggiù e ora”, avverte Latour: “non sognate più, mortali. Non scapperete nello spazio. Non avete altra dimora che quaggiù, in questo ristretto pianeta”.
Vivere nel tempo della fine non significa altro che riconoscere il “monogeismo” cui siamo condannati: non esiste alcun pianeta di riserva in condizione di ospitarci, siamo confinati per sempre qui, nella zona critica di Gaia. Che liberazione, chiosa Latour nel suo ultimo libro, sapere che non è possibile fuggire, ma che possiamo abitare “in modo diverso lo stesso luogo”. Smaltito il panico iniziale, prendere coscienza della nostra condizione terranea può dare un certo conforto. Quel confinamento sempiterno che consideravamo una condanna è in realtà la nostra più grande benedizione.
Immagini tratte da Natura. Un vocabulari per al futur, di Bruno Latour e Gerard Ortín Castellví.