F ino a non molto tempo fa, l’ecologia era relegata sullo sfondo della recita sociale: sapere irritante ma innocuo, da liquidare tuttalpiù con orti urbani, bidoni per la differenziata, alberi piantumati nei parcheggi dei grandi centri commerciali. Poi le discole si sono messe a scioperare dalla scuola, gli eco-vandali a imbrattare i Monet, i leader terzomondisti a battere i pugni alle COP per chiedere il riconoscimento delle emissioni storiche. Il mondo a soqquadro? No, la crisi ambientale che irrompe nella scena politica è soltanto l’ovvia dimostrazione che l’ecologia non è affatto elemento di contesto, ma condizione stessa della vita in società: la vita semplicemente non si pone senza un rapporto con l’ambiente che sia inquadrato nella logica della sostenibilità, della rigenerazione, del limite, perciò anche dell’equità e della giustizia. Parlare oggi di ecologia senza metterci a fianco quell’aggettivo lì, “politica”, che subito la riporta al centro dell’organizzazione sociale, tradisce una notevole ingenuità.
Luigi Pellizzoni ed Emanuele Leonardi sono tra i maggiori esponenti dell’ecologia politica italiana, e non solo. Il primo ha recentemente curato la collettanea Introduzione all’ecologia politica (Il Mulino, 2023), alla quale il secondo ha contribuito con il saggio “Politica del cambiamento climatico”. Assieme a Viviana Asara i due hanno compilato l’Handbook of Critical Environmental Politics (2022), una raccolta di teorie e dibattiti sulle ecologie decoloniali, l’intersezionalità climatica, i neo-ambientalismi e molto altro. I loro ultimi libri a essere stati pubblicati sono rispettivamente Cavalcare l’ingovernabile e L’era della giustizia climatica, scritto da Leonardi assieme a Paola Imperatore. Entrambi i saggi sono stati inclusi da Orthothes Editrice nella collana “ecologia politica”, diretta dallo stesso Leonardi con Gennaro Avallone e Maura Benegiamo, ed entrambi compiono lo sforzo non comune di combinare teoria e prassi, come nella più sana tradizione critica.
Parlare oggi di ecologia senza metterci a fianco l’aggettivo ‘politica’ tradisce una notevole ingenuità.
Il libro di Pellizzoni ruota attorno al concetto di “nuovo dominio della natura”: nella razionalità corrente, dominare la natura non è più assoggettarla, costringere con uno sforzo prometeico il Mississipi a seguire un corso artificiale per mantenere asciutta la Louisiana meridionale, come raccontato a suo tempo da John McPhee ne Il controllo della natura (1987). Dominare la natura è oggi iniettare nuova turbolenza nei fragili equilibri esistenti nella speranza che il risultato finale si riveli in qualche modo gestibile, in quella pericolosa amalgama di genio e follia che sottende i progetti di ingegneria climatica e genetica descritti da Elizabeth Kolbert in Sotto un cielo bianco (2022). Nutriamo una fiducia sconfinata nel potere riparativo dell’ingegno umano, presuntuosi come siamo nel dimenticare che ricostruire un ecosistema è immensamente più difficile che distruggerlo.
Questa stessa, ostinata razionalità che ci ha disabituati a distinguere i problemi dalle loro soluzioni innerva anche i piani di “transizione ecologica dall’alto”, oggetto della critica di Leonardi e Imperatore. La crisi climatica, osserva Leonardi, è un tipico esempio di fallimento del mercato, che non ha saputo contabilizzare il costo delle proprie esternalità ambientali e ciononostante promette oggi sforzi commoventi per disaccoppiare crescita economica e impatto ambientale. Quel che servirebbe è un deciso intervento correttivo da parte del politico per porre rimedio alla situazione, e invece il politico cosa fa? Delega al mercato il compito di risolvere le proprie contraddizioni, mercificando le emissioni e creando i mercati del carbonio in cui possano essere scambiati i permessi a inquinare. Siamo in groppa a un cavallo che scalcia imbizzarrito, convinti che non ci sia altro da fare che tenere strette le briglie: ho incontrato Pellizzoni e Leonardi per chiedere loro come siamo arrivati a credere che sia impossibile fermare il capitalismo, per provare a scendere dalla sua corsa dissennata.
Nutriamo una fiducia sconfinata nel potere riparativo dell’ingegno umano, ma ricostruire un ecosistema è immensamente più difficile che distruggerlo.
Luigi Pellizzoni: Sì, ho iniziato a leggere la letteratura sui nuovi materialismi parecchi anni fa, e da subito mi aveva lasciato un po’ perplesso questo suo sguardo rivolto all’indietro, quindi verso modi di approcciarsi alla materialità che effettivamente avevano prodotto strutture di dominio, sia rispetto alla natura sia rispetto al lavoro riproduttivo. Nel libro ho cercato di capire come potesse funzionare questa strana miopia applicando il concetto di “problematizzazione” di Foucault, vale a dire questa sorta di spirito del tempo che porta alla convergenza di certe forme e discorsi di verità – nel caso dei nuovi materialismi parliamo del riconoscimento del carattere sempre più costruito dell’ambiente che ci circonda, della scomparsa della natura originaria, e dei tentativi ricorrenti di invocarla per esercitare ulteriore controllo. Il punto essenziale però è per me che questa nuova forma di dominio che si determina attraverso la negazione dei dualismi non è tanto quell’idea di “controllo del controllo della natura” di cui parla Kolbert, ma una sorta di controllo molto strano che deriva dal riuscire a gestire delle dinamiche date per ingovernabili e al tempo stesso profondamente liberatorie degli spiriti anche “animali” del capitalismo, se possiamo ricordare l’espressione. Chiamiamolo “controllo del non controllo”, o “cavalcare l’ingovernabile”. La mia idea è che bisognerebbe arrivare a un approccio alla natura e alla materialità che ammetta ovviamente l’intreccio, la non distinguibilità ontologica tra natura e cultura, ma riconosca allo stesso tempo l’irriducibilità della natura alla cultura, ossia quello che Adorno chiamava il “pensiero dell’identità”. Oggi è del tutto collassata quella dimensione di alterità che nel pensiero cartesiano distingueva ancora la cosa e il pensiero. Credo che Adorno sarebbe estremamente preoccupato dalla piega che ha preso la faccenda rispetto ai suoi tempi.
Emanuele Leonardi: Se posso aggiungere un commento, un libro particolarmente importante nel mio percorso di formazione è stato Descartes politico o della ragionevole ideologia (1970), nel quale Toni Negri definisce il dualismo cartesiano appunto una “ragionevole ideologia”. È ragionevole perché riesce effettivamente a portare a sistema un punto di vista unitario, una dinamica che definisce in buona parte la modernità rispetto a ciò che la precede, insomma quel meccanismo che si dà, che è reale, che è un dato empirico. E tuttavia il dualismo cartesiano è anche ideologico, perché maschera quella condizione conflittuale e antagonista che finirà sotto la lente critica di Spinoza prima e delle flat ontologies poi. È evidente che oggi un punto di vista complessivo non si pone più sulla base di quel tipo di dualismo lì, e i nuovi materialismi fanno bene a criticare la sopravvenuta irragionevolezza della ragionevole ideologia, ma al tempo stesso non sembrano riuscire a proporre un’alternativa politica concreta, chiamiamola una “ragionevolezza non ideologica”. Come dice Luigi sarebbe un errore appiattire tutto nel monadismo, perché tra l’ontologico e il politico c’è comunque una cesura: il politico non funziona senza tagli, differenze, distinzioni. In Disinventare la modernità (Elèuthera, 2023) c’è questa conversazione tra Bruno Latour e François Ewald in cui Latour riprende le sue tesi neomaterialiste sul parlamento delle cose, l’Actor Network Theory e così via, finché Ewald gli dice che da una prospettiva ontologica è difficile non essere d’accordo con lui, ma sul piano politico è tutta un’altra storia: nel politico si taglia, si decide, si demarca, qualcosa si fa e qualcosa no, e quindi il dualismo diventa uno strumento necessario. Bisognerebbe arrivare a sintetizzare un orizzonte critico all’altezza della problematica contemporanea, ma nessuno ci è ancora riuscito. Anche la proposta di teorici marxisti come John Bellamy Foster e Andreas Malm, i quali sostengono che serve ancora più dualismo, più distinzione tra natura e cultura, senza però storicizzare i dualismi e riconoscere che la società attorno è completamente cambiata, è per me un’operazione insoddisfacente.
AG: Venendo al libro di Emanuele, la tesi de L’era della giustizia climatica è invece quella dell’inseparabilità delle lotte, in primis delle lotte operaie e ambientali: non a caso, fu proprio la mobilitazione operaia degli anni Sessanta e Settanta a far emergere la questione ecologica e il nesso ambiente-mercato a partire dalla nocività, l’estrattivismo, l’inquinamento e l’ingiustizia del lavoro in fabbrica. È un tema centrale del tuo lavoro, Emanuele, ma in questo nuovo libro tu e Paola Imperatore alzate notevolmente la posta in gioco: scrivete infatti che non c’è giustizia climatica senza lotta al colonialismo, al patriarcato (“Non una di meno, non un grado di più!”) e alle diseguaglianze di classe (“Fine del mondo, fine del mese: stessa lotta!”), che sono espressioni diverse ma interconnesse della modernità capitalistica. La teoria della convergenza di lotte apparentemente non legate all’ecologia esprime un ideale politico quanto mai ambizioso, che voi giustamente riportate a terra raccontando l’esperienza concreta del Collettivo di Fabbrica GKN, a Firenze. Avete cercato di dimostrare che la transizione ecologica attraverso la reindustrializzazione dal basso è possibile, ma come si replica altrove l’esperienza di fabbrica pubblica e sostenibile di GKN? Come la si fa crescere di scala? Soprattutto, può competere con il mercato? E se sì, quanto a lungo?
EL: Come dici tu, un primo obiettivo di questo libro è stato popolarizzare questa storia di lotte operaie contro la nocività industriale come il primo mezzo attraverso cui diventano politicamente visibili i temi ambientali, perlomeno in Europa – parlo di temi ambientali relativi alla crisi ecologica, non a dimensioni estetiche e conservazioniste che hanno invece una storia ben diversa. Poi sì, nel libro proviamo a spostare in alto la posta in gioco mettendo in connessione i discorsi sulla crescita, sul lavoro e sull’ambiente, ma lo facciamo per un motivo semplice. Nel periodo fordista del capitalismo industriale, il legame che si poneva era tra crescita e lavoro: la tesi del moltiplicatore keynesiano è che, fintantoché crescita e lavoro avanzano di pari passo, sempre più bisogni sociali vengono soddisfatti e le disuguaglianze vengono ridotte. C’è un problema, però, che oggi chiameremmo di cost-shifting: gli effetti negativi di crescita e lavoro li subisce la sfera della riproduzione sociale, che è fatta di soggetti umani come le donne, che perlopiù si fanno carico del lavoro domestico, e di persone sfruttate, che invece svolgono lavoro servile in contesti coloniali o simil-coloniali. Ma la sfera della riproduzione sociale è fatta anche di soggetti non-umani, come la biosfera, che sta pagando il prezzo più alto dello sviluppo. La scommessa dell’odierna green economy è che la crescita possa essere agganciata alla tutela dell’ambiente, a discapito però del lavoro: non a caso negli ultimi decenni abbiamo assistito a una forte crisi dei corpi intermedi come i sindacati, che hanno pesantemente subito la retorica della contrapposizione tra tutela del lavoro e transizione ecologica. L’impressione mia e di Paola è che la grande scommessa della green economy stia evidentemente fallendo, poiché dà molto più peso alla valorizzazione del mercato finanziario che alla riduzione delle disuguaglianze. Se partiamo dalla constatazione di questo fallimento, beh allora dal nostro punto di vista l’unica possibilità che resta è un ripensamento generale del rapporto tra ambiente e lavoro, nel senso che dobbiamo porci degli obiettivi molto ambiziosi e poi al limite giocarcela negli esiti pratici. È ovvio però che in assenza di una visione complessiva che renda praticabili iniziative di transizione ecologica dal basso, diventa tutto più difficile. Questo per dire che il Collettivo di fabbrica GKN non è ancora un caso di successo definitivo: in un primo momento, il piano di riconversione industriale dal basso puntava a ottenere un forte investimento pubblico, con lo Stato nel ruolo di garante dello sbocco commerciale per una filiera accorciata che finiva con l’autobus elettrico prodotto in Italia. Nell’indifferenza delle istituzioni a questa proposta, gli operai di GKN si sono trovati a dover scegliere se smobilitare o fondare una cooperativa, che però dovrà risolvere da sé il problema della sostenibilità commerciale. Chiaramente, se il modello dominante da combattere è quello della competizione di mercato ed è la finanza speculativa a dettare le regole, rimane improbabile che una cooperativa funzioni senza sostegno pubblico. Non va dimenticato che la dismissione di GKN non è avvenuta per mancanza di competitività nell’economia reale, dacché le commesse c’erano eccome, ma per decisione dei grandi fondi finanziari che d’un tratto hanno deciso di spostare i propri flussi di capitale. Insomma, per rendere possibile la transizione ecologica dal basso ci vogliono l’intervento pubblico, nuove forme di mobilitazione, il protagonismo operaio, l’alleanza tra lavoratrici ed ecologisti. Serve che tutte queste diverse forze si ricompongano, come scrive Rodrigo Nunes in Neither Vertical nor Horizontal (2021, di prossima pubblicazione per i tipi di Alegre), all’interno di una nuova teoria dell’organizzazione politica.
LP: Aggiungo che, in questa operazione di lanciare la palla molto in alto connettendo dimensioni apparentemente distanti dall’ecologia politica, Emanuele e Paola sono in buona compagnia, perché da più parti ci si sta rendendo conto che il capitalismo va affrontato, come dice Nancy Fraser, in quanto “ordine sociale istituzionalizzato”, e quindi come un qualcosa che include tutta l’organizzazione della società e il rapporto con la materialità. L’emersione di queste nuove alleanze ecologiste è la manifestazione concreta del fatto che produzione, riproduzione sociale e riproduzione naturale sono parte della stessa questione, e non possono più essere trattate separatamente. Ora, questo non è affatto banale, perché per molto tempo, soprattutto da parte marxista, si è temuto che “annacquare” la dimensione della questione operaia con altre preoccupazioni sociali portasse all’indebolimento della lotta, e fosse perciò un problema. La mia impressione è che, assieme ad altri contributi, il lavoro di Emanuele e Paola stia invece puntando l’attenzione proprio sul fatto che queste tre dimensioni si intrecciano una con l’altra. Ciò ovviamente apre la discussione su cosa sia e cosa debba diventare oggi il lavoro: l’esperienza di GKN, nel suo piccolo e con tutte le difficoltà pratiche del caso, può essere letta anche come uno dei primi tentativi in questo senso.
AG: A questo punto devo confessarvi che ai vostri saggi sono arrivato dopo avere letto L’apocalisse può attendere di Michael Shellenberger (2020): un libro scioccante e incredibilmente influente nei circoli tech statunitensi, in cui i capisaldi dell’ecologia politica vengono messi sottosopra, uno per uno. In sintesi, la tesi di Shellenberger e degli ecomodernisti come lui è del tutto opposta alla vostra: progresso ambientale, energetico ed economico fanno parte di un unico, inarrestabile processo verso un ipotetico meglio. Per approdare alla sostenibilità servono più crescita, più tecnologia, più mercato, più efficienza produttiva e più densità energetica. Non serve invece che l’organizzazione sociale cambi, né che lo sviluppo si fermi o si rinunci ad alcunché – nessuno al mondo sarebbe disposto a rinunciare a quel che ha o consuma, tutti vogliono sempre di più, e solo i processi altamente intensivi possono soddisfare in maniera sostenibile questo “di più” che ognuno vuole. L’incompatibilità tra tutela dell’ambiente e crescita economica sarebbe una favola che si sono inventati gli ecologisti romantici e catastrofisti, per realizzare i propri progetti di trasformazione politica della società. Davvero per risolvere la crisi climatica è irrinunciabile che cambi anche l’attuale struttura sociale? Oppure basterà installare la sostenibilità nel sistema esistente, come credono Shellenberger e i fautori del capitalismo verde?
LP: Sicuramente la proposta ecomodernista è la punta di diamante di una serie di visioni che su varia scala definiscono qual è il parametro fisso e la variabile: il parametro fisso è il modello sociale esistente, che dal punto di vista di chi lo propone è indubbiamente il migliore dei mondi possibili, mentre la variabile è come facciamo ad affrontare problemi ecologici se non attraverso un’intensificazione di quanto già esiste. E tuttavia si tratta di un’ideologia nel senso proprio della parola, dal momento che è infalsificabile: siccome l’ipotesi di partenza è che i disastri ambientali derivino non dalle cose che sono state fatte sinora ma dal fatto che non sono state fatte abbastanza, e quindi bisogna farle ancora di più, è evidente che non può esserci falsificazione. Il punto più interessante però è per me come questo tipo di discorso evochi l’apocalisse, perché l’apocalitticismo è qualcosa che sta prendendo piede in forme varie e sta creando delle strane congiunzioni anche nella prospettiva di chi critica la situazione. Stanno uscendo una serie di studi interessanti sul cosiddetto post-apocalitticismo a livello dei movimenti sociali, dove appunto l’assunto è che l’apocalisse sia già in atto e quindi tutto quello che si può fare è cercare di cavarsela. La tesi ecomodernista sembra apparentemente contrastare questo post-apocalitticismo, ma non è così poiché gli ecomodernisti sono anche i fautori del lungotermismo, che come sappiamo è l’idea secondo cui il disastro sarebbe già in atto e si debba perciò guardare molto più in là a una ricostituzione dell’umanità su basi diverse, dove solo alcuni individui saranno destinati a sopravvivere o comunque a gestire le cose – naturalmente loro! – e gli altri dovranno cavarsela in qualche maniera. Insomma, dobbiamo prestare particolare attenzione a questo nuovo millenarismo, se così posso dire, poiché allaccia assieme discorsi apparentemente contrastanti, ma che in realtà nascondono una segreta affinità. Anche perché il post-apocalitticismo sembra avere delle chiare tendenze alla depoliticizzazione, dal momento che dà per scontato il disastro e invoca un discorso della speranza su basi ipertecnologiche, mentre sul piano dell’organizzazione sociale non intende proporre alcuna valida alternativa.
EL: A mio giudizio l’ecomodernismo ha anche un altro aspetto problematico: non solo si basa sull’assunto dell’insufficiente applicazione dei modelli esistenti, ma anche su quello della presunta positività della direzione intrapresa dallo sviluppo. Capita spesso di confrontarsi in accademia con colleghi che legittimamente fanno riferimento alle posizioni ecomoderniste, e sostengono per esempio che il Protocollo di Kyoto non sia stato fino ad ora un fallimento, ma al contrario vada accelerato per farlo funzionare meglio. Spesso si dice che le politiche neoliberali di finanziarizzazione della natura sì, magari impattano sugli strati inferiori della società, ma almeno producono dei benefici ambientali a vantaggio di tutti, e invece a me e Paola pare che questi presunti eco-benefici non superino l’onere della prova. Non a caso, da Kyoto in poi, le emissioni assolute sono sempre aumentate: che senso ha, allora, accelerare un processo che sta andando chiaramente nella direzione sbagliata? Il modello di Kyoto sembra funzionare a livello locale, ma si tratta ancora una volta di dinamiche di cost-shifting: in Europa le emissioni sono calate solo perché la produzione industriale più inquinante è stata delocalizzata in Asia. Su scala globale, che è l’unica che conta per vedere se le politiche climatiche stanno rispondendo come previsto oppure no, l’unica azione che ha davvero funzionato è il Protocollo di Montreal, il quale però non prevedeva l’intensificazione di meccanismi di mercato, ma la totale messa al bando di sostanze altamente inquinanti. Nessun modello di transizione energetica può funzionare se non viene posto un freno alla crescita dei fabbisogni: la ragionevolezza di cui parlavamo ci inviterebbe prima a mettere un tetto alla domanda di energia, poi a differenziare le fonti. Agli ecomodernisti bisogna controbattere che non c’è nulla da accelerare, se il modello di sviluppo che abbiamo punta nella direzione sbagliata. Quello che dobbiamo fare è cambiare rotta.
AG: Abbiamo detto che per arginare la crisi ecologica occorre trasformare l’attuale struttura sociale, ma quanto è verosimile che un sistema anticapitalistico, improntato alla giustizia climatica e alla riduzione delle disuguaglianze, emerga dall’ordine esistente? Posto che, come scrivono Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro The Big Myth (Bloomsbury, 2023), quelle tra capitalismo e socialismo, libero mercato ed economia pianificata, anarchia e tirannide, sono in realtà false dicotomie, poiché esistono innumerevoli alternative intermedie tra queste polarità estreme, tutte di per sé praticabili – non necessariamente ciò che deve opporsi al contemporaneo è il suo negativo assoluto, potrebbe benissimo essere qualcosa di ibrido, come un capitalismo regolato dallo Stato. Credo però che fosse possibile instaurare un ordine alternativo prima che il capitalismo conquistasse il mondo, e forse sarà possibile dopo, se e quando il capitalismo dovesse collassare su se stesso, ma per ora mi pare che l’evoluzione del capitalismo stia avanzando in tutt’altra direzione. Per esempio, mi convince molto l’analisi di Yanis Varoufakis in Tecnofeudalesimo (La Nave di Teseo, 2023): come a fine Ottocento si ebbe la grande trasformazione del feudalesimo in capitalismo – il potere e la ricchezza non furono più legati alla rendita della terra, ma al profitto ricavato dal possesso dei mezzi di produzione e dal capitale da investire – allo stesso modo staremmo oggi transitando verso una forma molto avanzata di nuovo feudalesimo, in cui ricchezza e potere dipendono dal controllo di enormi territori vergini da sfruttare, ossia i cloud e le piattaforme digitali. Il potere starebbe scivolando dai capitalisti tradizionali verso una sparuta enclave di feudatari super-ricchi che Varoufakis chiama “cloudalisti”: non producono nulla, vedono il loro stock di capitale alimentato dal lavoro non-retribuito degli utenti online, riscuotono rendite dai capitalisti che non possono più fare a meno delle loro piattaforme per vendere e pubblicizzare i prodotti. Sono i rentier del regno digitale, coi capitalisti tradizionali retrocessi a loro vassalli e tutti noi al rango di servi volontari. I cloudalisti non hanno soltanto monopolizzato i mercati, li hanno sostituiti, e la ricchezza che la privatizzazione di internet ha permesso loro di accumulare è tale che oggi sono loro a decidere le soluzioni alla crisi climatica da perseguire, e a controllare coi propri investimenti le tecnologie messianiche del futuro: fusione nucleare, cattura e stoccaggio del carbonio, geoingegneria, solo per dirne alcune. Qual è il punto? Abbiamo sempre creduto che, presto o tardi, il capitalismo sarebbe stato rovesciato dalla sinistra organizzata, e invece pare si stia trasformando da solo in questa nuova forma di tecnofeudalesimo in cui un manipolo di ultraricchi tiene in mano le sorti del pianeta.
LP: In un modo o nell’altro, sia le posizioni marxiste tradizionali sia quelle più di stampo riformista hanno sicuramente immaginato la trasformabilità del capitalismo, fino all’idea classica del suo completo attraversamento per la realizzazione del socialismo, o comunque di qualcosa di diverso. Ora, anche questo discorso sulla medievalizzazione del capitalismo sembra immaginarne la fine, anche se come dici tu non nella direzione auspicata dai marxisti. Per certi aspetti il discorso sulla feudalizzazione del capitalismo appare innegabile, perché effettivamente stiamo assistendo a una trasformazione di molti presupposti economici e politici ma anche valoriali e cognitivi del capitalismo, se appunto lo intendiamo come ordine sociale istituzionalizzato. Ad esempio, la fine della globalizzazione in direzione del multipolarismo sembra suffragare la tesi del tecnofeudalesimo, così come la rottura della razionalità strumentale moderna in favore di una gestione puramente sperimentale delle problematiche emergenti, essendo venuta meno la convinzione di poter connettere le cause delle crisi ai loro effetti. Altre tendenze sembrano invece confutare la trasformazione del capitalismo in neofeudalesimo: per esempio, la ricchezza e il potere dei nuovi feudatari si alimentano della cultura dell’iperconsumismo, che non ha nulla a che vedere con l’economia di scarsità e sussistenza del mondo feudale – anche se allora già esisteva una classe agiata con consumi spropositati, un po’ come i lussi della moderna classe super-agiata. Un’altra importante differenza è che il feudalesimo tradizionale non si fondava su un ordine di tipo autoritario, ma securitario: i feudatari di un tempo esercitavano un controllo militare dei rapporti di classe, e a meno che i nuovi feudatari non decidano di allestire un proprio esercito – un’eventualità da non escludere! – il tipo di dominio che possono esercitare sulla società rimane intrinsecamente diverso. Quindi siamo di fronte a una trasformazione del capitalismo molto complessa e difficile da interpretare, perché alcuni presupposti del nuovo feudalesimo sono contraddetti dal feudalesimo stesso.
EL: Per quel che riguarda la tesi di Oreskes e Conway per la quale l’alternativa al liberismo spinto non necessariamente debba essere un’economia completamente centralizzata, bensì un sistema di mercato ben regolato dallo Stato, devo dire che dal punto di vista empirico è sempre stato così. All’ultima conferenza internazionale della decrescita di Zagabria si è discusso ad esempio del modello di autogestione della Jugoslavia socialista nel secondo dopoguerra, che appunto mediava tra elementi di pianificazione presi dal socialismo “non allineato” e alcuni caratteri propri dell’economia di mercato. Ma questi meccanismi ibridi sono in realtà sempre stati presenti in entrambi i blocchi: per dire, io stesso ho vissuto diversi anni in Canada, dove il sistema sanitario è a forte trazione pubblica, ed è uno dei più efficienti al mondo. Anche negli Stati Uniti, all’acme della pandemia di Covid-19, una misura come il reddito di base è diventata una realtà de facto. Purtroppo, dal mio punto di vista la contrapposizione che osserviamo sempre più non è tra capitalismo e una qualche forma di socialismo che eserciti sul primo un potere correttivo, ma tra un ultraliberismo estremo e un revanchismo nazionalista di ritorno che fa più male che bene. In La guerra capitalista (2022), Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli mostrano come questi due paradigmi dominanti spingano per una centralizzazione dei capitali sempre più estrema, e quando il capitale si concentra in pochissime mani si danno tutta una serie di effetti molto negativi che necessariamente bloccano una transizione ecologica efficace, motivo per cui questa tendenza deve essere in qualche modo osteggiata e manomessa. Poi che la si chiami concentrazione dei capitali all’altezza dell’epoca finanziaria o tecnofeudalesimo per me, personalmente, fa poca differenza.