È ben noto che con il susseguirsi dei periodi storici, delle comunità e delle culture umane, certe abilità artigianali e tecnologiche vengono perse. Esistono svariati esempi di materiali, strumenti e dispositivi utilizzati in passato e di cui non si conoscono le formule o le procedure esatte, ma di cui archeologi e studiosi in genere hanno prove certe e concrete. È così per il cemento romano, il fuoco greco, il vetro o pasta faience egizia, o per particolari tecniche come la tempra dell’acciaio (come l’acciaio Damasco o delle famose spade giapponesi Masamune) e molti altri curiosi casi storici, in cui le abilità degli esecutori del passato sorprendono per l’ingegnosità e le capacità artigianali. In natura accade forse la stessa cosa? Cosa rischiamo di perdere quando una specie o un ecosistema si estingue o si impoverisce irreversibilmente? Quali tracce questi cambiamenti lasciano nel nostro presente e quali conseguenze potrebbero causare nel nostro futuro? In fondo, è così grave per la nostra società tecnologicamente moderna la perdita di nicchie ecologiche sperdute o di qualche insignificante insetto o pianticella?
Le risposte a queste domande sono semplici da trarre osservando la storia del nostro pianeta: eventi catastrofici hanno infatti sconvolto più volte la vita sulla Terra, causando estinzioni di massa e alterazioni di clima ed ecosistemi a un livello oggi difficile da immaginare. A livello biologico, i grandi eventi di estinzione della storia passata hanno causato la scomparsa di moltissime specie, rappresentando poi un’incredibile opportunità di espansione per i sopravvissuti. Il caso più famoso di aumento della biodiversità successivo a un grande evento di estinzione è noto come esplosione del Cambriano, che circa 550 milioni di anni fa seguì la scomparsa di gran parte della preesistente fauna di Ediacara. Da allora numerosi eventi catastrofici hanno ripetutamente resettato la vita sulla Terra: noi umani cosa possiamo imparare da questi eventi? Quali parallelismi possiamo tracciare, considerando che il nostro impatto sulla biosfera sta causando la sesta estinzione di massa della storia globale? Studiare la storia della vita, il passato del nostro pianeta, significa provare a prevedere il nostro futuro, cosa accadrà alle nostre società e all’ambiente nei prossimi decenni e, su tutto, come cambierà la nostra tecnologia.
Capire che la biosfera è un serbatoio di brevetti è la chiave: dobbiamo comprendere che ogni specie è il risultato di adattamenti di milioni di anni e porta quindi con sé la saggezza biochimica delle innumerevoli generazioni precedenti, che si sono faticosamente adattate scovando ingegnose soluzioni a problemi di chimica, fisica, catalisi, fisiologia e così via. Interiorizzato questo aspetto meraviglioso di ogni specie, dalla sequoia alla margherita di campo, dall’elefante al pidocchio, dal microbo alla spora di fungo, è facile riconoscere come la sparizione di specie equivalga alla perdita di conoscenze, innovazioni, materiali e farmaci, presenti in quegli esseri oggi esistenti, ma che potrebbero estinguersi con la perdita degli habitat. Per di più, ancora non conosciamo tutti i viventi presenti sul pianeta, e di quelli che conosciamo sappiamo pochissimo. Centinaia di farmaci derivano da alcaloidi estratti da determinate piante, ma i vegetali studiati così approfonditamente sono pochissimi. Basti pensare che il solo gruppo che contiene le felci (Pteridophyta) conta 11.000 specie, ed è uno dei gruppi meno numerosi nel grande mondo vegetale. Oppure tra gli animali il solo gruppo degli imenotteri (un singolo ordine di insetti cui appartengono api e vespe) conta oltre 120.000 specie, ma rappresenta solo la punta dell’iceberg nell’immenso albero della vita.
La sparizione di specie equivale alla perdita di conoscenze, innovazioni, materiali e farmaci presenti negli esseri oggi esistenti, ma che potrebbero estinguersi con la perdita degli habitat.
La varietà dei viventi è in un numero esorbitante sul pianeta, e per studiarne proprietà e abilità servirebbe un esercito impensabile di botanici, zoologi, biochimici. Questi esperti dovrebbero collaborare per anni per arrivare alla conoscenza completa delle abilità che l’evoluzione ha generato in ogni singola specie. Quel che sappiamo con certezza è che quando questi studi vengono condotti l’essere umano ne trae scoperte incredibili, come dimostrano molti casi in farmacologia. L’aspirina deve il suo nome alla pianta (Spirea ulmaria) da cui è stato estratto il principio farmacologico, la morfina dal papavero da oppio (Papaver somniferum), i digitalici o “glicosidi cardioattivi” dai fiori della digitale (Digitalis purpurea), l’artemisinina è un farmaco antimalarico estratto dall’artemisia annuale (Artemisia annua), mentre dal tasso (Taxus baccata) si estrae un composto antitumorale, il taxolo.
Gli esempi sono infiniti, e se dalle piante abbiamo carpito molti principi farmacologici, certo gli animali non sono da meno. Batteri e molluschi producono colle biocompatibili studiate per possibili applicazioni in chirurgia, dalle meduse è stata estratta la prima proteina fluorescente (GFP) oggi largamente utilizzata in test diagnostici e di sensoristica, uccelli e protozoi sono capaci di produrre nanoparticelle metalliche utili in catalisi industriale e imaging, certi lieviti producono reazioni chimiche utilissime nell’industria agroalimentare, mentre alghe e cianobatteri sono abilissimi nel convertire l’energia solare. Ogni specie ha selezionato abilità sorprendenti, molto oltre le capacità attuali dei migliori centri di ricerca in ambito chimico, settore chiave per sviluppare una società futura sostenibile ed ecocompatibile.
La perdita di biodiversità, le estinzioni moderne e la scomparsa di ecosistemi e habitat corrisponde alla perdita di interi centri di ricerca, intere sezioni di biblioteche, brevetti e formule oggi nascosti tra mari, laghi, vallate e montagne. I detentori di questi brevetti sono batteri nel fango e muschi nei fossi, brulicanti insetti e molluschi elusivi, grandi foreste pluviali e strati viscidi su scogli artici: tutti, ogni singolo essere, è erede di adattamenti e strategie di sopravvivenza da cui imparare, copiare, trarre ispirazione. Per questo andrebbe salvaguardato l’intero insieme di ecosistemi e specie, per il nostro stesso interesse, almeno nell’attesa di averne carpito le abilità e i segreti biochimici, i materiali innovativi, dai farmaci ai nanomateriali, dalle colle biomimetiche agli enzimi e molto altro.
La perdita di biodiversità, le estinzioni moderne e la scomparsa di ecosistemi e habitat corrisponde alla perdita di interi centri di ricerca.
La rivoluzione agricola dell’ultimo secolo e mezzo, ad esempio, che ha permesso di produrre immense quantità di concimi e dunque di sfamare una popolazione crescente, è stata possibile grazie ad una singola invenzione: il processo della sintesi dell’ammoniaca, noto come processo Haber-Bosch. La sintesi avviene attraverso la combinazione di azoto e idrogeno in condizioni specifiche di temperatura (400-500 °C) e pressione (150-300 Atmosfere). Perché il tutto funzioni deve inoltre essere presente un catalizzatore, ossia una sostanza capace di aumentare la velocità di una reazione chimica. Originariamente il processo Haber-Bosch sfruttava come catalizzatori osmio e uranio, ma attualmente è utilizzato il ferro (spesso una miscela di ferro, ossido di potassio e ossido di alluminio).
Eppure, certe piante come le leguminose sono capaci di stabilire spontaneamente una simbiosi con determinati batteri abilissimi nel produrre le stesse sostanze concimanti a temperatura e pressione ambientale, senza l’uso di impianti chimici e con catalizzatori estremamente efficienti e sofisticati che ricavano dal suolo. Lo fanno da milioni di anni e senza nessuna difficoltà: noi umani conosciamo i dettagli di questi prodigi biochimici, ma attualmente non siamo assolutamente in grado di replicarli. Allo stesso modo, ma in campi molto diversi, i nostri pannelli fotovoltaici per la conversione dell’energia solare sono infinitamente inferiori alle prestazioni di conversione dell’energia luminosa effettuata quotidianamente dalle piante, che pure non utilizzano semiconduttori o impianti elettrici. O ancora il futuro delle nanotecnologie si basa sulla capacità (oggi molto scarsa) di produrre nanoparticelle, nanocavi, nanospugne di metalli, ossidi metallici e semiconduttori, eppure numerosi batteri, piante e funghi sono abilissimi nel manipolare decine di metalli, e loro derivati, costruendo proprio questo tipo di nanostrutture. Sono viventi che producono questi materiali senza laboratori o industrie, senza solventi o reagenti ultrapuri, senza generare reflui tossici o sottoprodotti inquinanti.
La natura è maestra di riciclo e riuso, ogni scarto diventa alimento per un altro vivente, ogni sostanza viene riusata di generazione in generazione fino alla scala molecolare: è un sistema produttivo altamente specializzato e completamente circolare. La rivoluzione industriale ha pochi secoli, abbiamo appena iniziato a modificare i nostri sistemi produttivi per renderli più efficienti e meno inquinanti, e possiamo trarre ispirazione proprio dai sistemi naturali, che da milioni di anni hanno risolto questi stessi problemi. Per farlo i viventi sono divenuti maestri di chimica e fisica, esperti di reazioni, innovatori di materiali e sostanze. Sono tutti aspetti utili in campo industriale e tecnologico, per efficientare processi e rendere ecosostenibili le linee produttive.
La natura è maestra di riciclo e riuso, ogni scarto diventa alimento per un altro vivente.
Non sempre però è in corso un processo di miglioramento continuo, poiché con le estinzioni di massa certe abilità vanno perse per sempre e la natura spesso deve ripartire dall’inizio. È sbagliato immaginare in natura un “meccanismo intelligente” o che sia presente uno “spirito razionale” dietro le grandi abilità riscontrabili nei viventi. La verità è che l’evoluzione ha avuto decine di milioni di anni per sperimentare, modificare, migliorare ogni singolo aspetto costitutivo degli esseri viventi per come li osserviamo oggi. Per questo nel grande albero dell’evoluzione certe idee (molecole, materiali, adattamenti) si ripetono quasi identiche, ma ci sono voluti milioni di anni per riscoprirle e renderle disponibili alle diverse specie. L’occhio è un buon esempio, essendo un mirabile strumento biochimico per la conversione della luce in impulsi elettrici: è stato scoperto e riscoperto in natura decine di volte, in tempi e modi diversi, in gruppi di animali tra loro molto distanti, e non è un caso se specie differenti mostrano oggi organi visivi strutturalmente molto diversificati.
L’occhio di ogni specie presenta punti di forza e debolezza, dall’occhio composto degli insetti all’occhio-camera dei vertebrati fino all’incredibile struttura dell’occhio dei molluschi. Diverse specie del gruppo degli echinodermi (che comprende ad esempio oloturie, ricci e stelle marine) e dei cnidari (che comprende meduse, coralli e attinie) presentano occhi rudimentali, semplici organi recettori della luce, che non sono in grado di creare immagini dettagliate dell’ambiente, ma possono discriminare luce e buio, analizzare la direzione e l’intensità della luce. Questi semplici sistemi visivi presentano lenti cristalline costituite da carbonato di calcio, e negli echinodermi e nelle meduse attuali la forma di queste lenti è otticamente piuttosto grezza. Eppure la natura aveva già affinato questo stesso sistema visivo, portandolo al parossismo, più di 250 milioni di anni fa. Infatti, nell’era paleozoica esistevano esseri oggi estinti, i trilobiti, che presentavano lenti di carbonato di calcio sui loro occhi complessi. Nei fossili di trilobiti è possibile studiare forma e composizione delle lenti ed è impressionante notare come presentino la migliore struttura possibile per evitare distorsione ottica e cromatica.
I trilobiti sono stati probabilmente i primi animali capaci di vedere dettagliatamente il mondo, grazie a occhi dotati di lenti minerali otticamente perfette. Tutta questa abilità ottica è però andata persa con l’estinzione dei trilobiti: in un certo senso, nella storia recente della vita, ricci, stelle marine e meduse stanno cercando di sviluppare nuovamente queste stesse abilità, muovendo i primi passi nella conoscenza delle lenti ottiche di carbonato di calcio. Allo stesso modo l’essere umano, grazie a lenti ottiche artificiali, ha sviluppato nel Diciassettesimo secolo strumenti come il telescopio e il microscopio che gettarono le basi del metodo scientifico, e grazie ad attente osservazioni condotte con questi mezzi è cambiata la nostra percezione del micro e del macrocosmo. Col tempo la qualità delle lenti negli strumenti scientifici è stata affinata e migliorata ed oggi possediamo telescopi capaci di indagare gli spazi profondi del cosmo e microscopi che permettono di visualizzare porzioni infinitesime di tessuti e cellule. Abbiamo inconsapevolmente ripercorso gli studi ottici che la natura aveva perfezionato nel paleozoico su esseri estinti, ma di cui troviamo facili conferme nei fossili degli strati geologici. Le lenti che usiamo oggi hanno la stessa forma di quelle dei trilobiti, con un profilo particolare per evitare distorsioni ottiche e cromatiche.
Abbiamo inconsapevolmente ripercorso gli studi ottici che la natura aveva perfezionato nel paleozoico su esseri estinti.
La natura quindi inventa e reinventa, scopre e distrugge, giunge al massimo livello di prestazioni, ma poi spesso riparte modificando i propri brevetti, lungo un percorso di ere geologiche e cataclismi. Tutto ciò dura milioni di anni, noi umani invece operiamo in tempi diversi: dobbiamo migliorare i nostri sistemi produttivi, fornire innovazioni e scoperte con cadenza settimanale o mensile, e ragionare in termini di generazioni ci pare assurdo. Per questo oggi l’unica soluzione è ispirarsi alla natura, studiarla per scovarne i segreti già presenti. Sfruttare le sue scoperte accumulate in milioni di anni di lavoro della selezione naturale.
Ad oggi meno dell’1% delle specie di batteri noti è coltivabile in laboratorio, eppure queste semplici e antiche forme di vita sono capaci di virtuosismi chimici incredibili, colonizzano reflui minerari tossici, utilizzano metalli pesanti e convertono in energia un gran numero di composti: non sapendo come coltivare questi batteri, la nostra conoscenza al riguardo è limitatissima. Alghe, piante, funghi, insetti, rettili, ogni essere bello o brutto, semplice o complesso conserva abilità che potrebbero rivoluzionare il futuro della nostra tecnologia: colle biomimetiche, sonde fluorescenti, catalizzatori industriali, farmaci e molto altro. Distruggendo habitat e ecosistemi, causando estinzioni, o riducendo pericolosamente il numero degli individui di una specie, rischiamo di perdere ciò che ancora non sappiamo. In questo caso finiremo col comportarci come oloturie e meduse, faticando ridicolmente per riscoprire ciò che era stato già prodotto dalla natura e che è pronto, a portata di mano nella biosfera.
La sfida tecnologica e sociale dei prossimi decenni è migliorare i sistemi produttivi attuali e, contestualmente, sviluppare linee produttive sostenibili ed ecocompatibili: per entrambi gli aspetti non c’è migliore fonte di ispirazione della natura, nelle sue infinite e variegate forme viventi, creature maestre del riciclo e abilissime nella conversione di sostanze e materiali a impatto zero. La frontiera dell’innovazione tecnologica è quindi nello studio della natura, nella comunicazione tra discipline scientifiche oggi spesso molto distanti, nelle possibili interconnessioni tra botanici e chimici, zoologi e fisici, ecologi e geologi e molti altri rami del sapere da cui il futuro della nostra società dipende.
Per questo dovremmo vivere la sesta estinzione di massa, l’attuale perdita di fauna e biodiversità che è responsabilità degli esseri umani, come gli antichi vissero la distruzione della grande biblioteca di Alessandria: è la perdita della conoscenza globale, del sapere raggiunto, conservato e disponibile. Se vogliamo assicurarci che milioni di anni di sperimentazioni già condotte dalla natura, di adattamenti e di sapere tecnologico che ogni specie ha selezionato e conserva, dobbiamo impegnarci oggi per la salvaguardia della biodiversità affinché non scompaiano.