Che cos’è la biodiversità e perché dovremmo preoccuparcene
Simone Pollo è professore associato di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Sapienza. Sui temi dell’etica delle relazioni umani/animali ha pubblicato per Carocci i volumi Umani e animali. Questioni di etica (2016) e Manifesto per un animalismo democratico (2021).
Lisa Signorile è biologa e divulgatrice scientifica. Scrive per National Geographic Italia, Le Scienze e altre testate a diffusione nazionale o internazionale. Ha pubblicato vari libri sull’ecologia, la fisiologia e l’evoluzione degli animali, tra cui "L’orologiaio miope" e "Il coccodrillo come fa", per i tipi di Codice.
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uando si parla di cambiamenti climatici, disuguaglianze sociali, crisi sanitaria e distribuzione delle risorse, grandi dibattiti scientifici e sociali di questo secolo, si conclude spesso con: “…e poi c’è anche il problema della biodiversità”, senza specificare esattamente quale sia il problema, e soprattutto cosa sia la biodiversità. Addirittura Greta Thunberg ci ha messo del tempo per arrivare a rendersi conto della rilevanza della biodiversità. Il nuovo ministero dell’ambiente, non per caso denominato “della transizione ecologica”, sembra avere difficoltà a inquadrarla adeguatamente tra sue strategie e priorità. Come siamo arrivati a questo punto?
A scuola impariamo che la biodiversità è il numero delle specie in una data area. La nostra impostazione culturale ci porta a pensare che col termine “specie” si intendono prevalentemente quelle animali, e per animali si intendono i mammiferi di taglia medio–grande, quelli che vediamo negli zoo. Se chiedessimo a un amico di elencare le specie presenti nella savana africana, è estremamente probabile che risponderebbe “zebre, leoni, giraffe”, e non verrebbe neanche sfiorato dall’idea di menzionare gli alberi, l’erba, i licheni, gli insetti o i nematodi parassiti che albergano dentro zebre, leoni e giraffe. Chiusi dentro le nostre case, nelle nostre città, abbiamo una esperienza diretta estremamente limitata della varietà che ci circonda, e molti non riescono neanche a immaginare, per esempio, la moltitudine di coleotteri al mondo, almeno 400.000 specie, che da sole coprirebbero tutte le pareti di un grande museo. Ma ai musei di storia naturale non ci si va più, e l’ordine di grandezza del “diverso” ci sfugge e, probabilmente, ci spaventa. Oggi non saremmo in grado di elencare neanche le 310 specie che, secondo Athanasius Kircher, Noè voleva sistemare sulla sua arca, e che probabilmente rappresentavano le specie note ai pastori nomadi del medio oriente nel primo millennio prima di Cristo, che avevano un orizzonte molto ristretto rispetto a noi.
Per quale ragione andrebbe riconosciuto come un dovere etico e politico quello di preservare la biodiversità? Come può apparire importante qualcosa che sfugge quasi sempre al nostro sguardo nella sua varietà e complessità?
Le definizioni scolastiche, poi, non bastano, e le 2.235.362 specie censite sono solo un aspetto della enorme varietà della vita su questo pianeta. Certamente possiamo definire la diversità biologica a diversi livelli tassonomici. Quanti Phyla, classi, ordini ci sono? E soprattutto per ogni specie quante varietà, sottospecie, popolazioni? Quanta varietà c’è in una popolazione a livello genetico? Quante varianti dello stesso gene? La differenza tra individui è maggiore o minore della differenza tra popolazioni? Su scala macroscopica, che differenze ci sono tra varie regioni, in termini di ecosistemi, osservando sia la parte dei viventi che le caratteristiche geografiche? In una regione della taiga russa ci saranno probabilmente meno ecosistemi, con tutto il loro intreccio di specie, che in Brasile, ma certamente l’effetto di tagliare una foresta per farne trucioli, nella taiga russa come nella foresta amazzonica sarà identico, e sarà quello di portare a zero la diversità ecosistemica e distruggere la lunga serie di relazioni tra gli organismi: salvare la singola specie non basterà a salvare anche la complessità delle comunità biologiche.
Una volta realizzato che cos’è la biodiversità e quale sia il suo ruolo negli ecosistemi, ci possiamo chiedere per quale ragione dovremmo considerarla importante e farne oggetto di salvaguardia. Per quale ragione andrebbe riconosciuto come un dovere etico e politico quello di preservare la biodiversità? Come può apparire importante qualcosa che – come si è detto – sfugge quasi sempre al nostro sguardo nella sua varietà e complessità? Quando prendiamo posizione contro l’olio di palma ci mobilitiamo perché vediamo gli oranghi perdere la loro casa e – giustamente – simpatizziamo con le loro sofferenze. Tuttavia, vediamo solo gli oranghi e non vediamo la foresta e tutta la biodiversità che compone gli ecosistemi di cui quegli splendidi primati antropomorfi sono parte. La biodiversità sfugge non solo alla nostra cognizione, ma sembra sfuggire anche alle nostre emozioni e alla nostra riflessione morale. Perché dovremmo preoccuparcene, dunque? E come?
Etica ambientale, antropocentrismo e antiantropocentrismo L’etica ambientale è un particolare ambito di discussione teorico–filosofica che, almeno dagli anni 60 del XX secolo, ragiona sulle responsabilità morali degli esseri umani nei confronti dell’ambiente naturale, degli ecosistemi e di quanto li costituisce e li compone. Fra gli “oggetti” del cui status morale l’etica ambientale si occupa c’è anche la biodiversità, intesa come fatto strutturalmente necessario alla sopravvivenza e al mantenimento di qualsiasi ecosistema e degli elementi – viventi e non – che lo costituiscono. L’etica ambientale cioè si occupa di produrre argomentazioni morali che mostrino che l’ambiente, gli ecosistemi e la biodiversità hanno un qualche tipo di valore, ovvero di status morale, cioè che di essi non possiamo disporre come meglio ci piace senza che ciò faccia alcuna differenza. In altri termini, l’etica ambientale discute le ragioni per le quali ciò che facciamo alla “natura” possa essere considerato moralmente giusto o sbagliato, proprio come può essere moralmente giusto o sbagliato quello che facciamo agli altri esseri umani.
In termini generali l’importanza morale della biodiversità, il suo valore, viene argomentata in due modi da parte dell’etica ambientale. Da un lato abbiamo le cosiddette teorie antropocentriche e dall’altro quelle antiantropocentriche. Si tratta di una classificazione estremamente ampia, ma che rende conto di una distinzione fondamentale nel modo di concepire lo status morale della “natura” e, conseguentemente, le responsabilità umane verso di essa. Le concezioni antropocentriche affermano (per ragioni varie e connesse a “tecnicalità” filosofiche che qui non si possono approfondire) che lo status morale della biodiversità, ovvero il suo essere meritevole di rispetto, dipende in ultima analisi dal fatto che c’è un qualche interesse umano rilevante che è connesso ad essa. La biodiversità (come molti altri “oggetti naturali”) conta moralmente perché gli esseri umani, come individui e come specie, dipendono da essa per la propria sopravvivenza, o perché grazie ad essa fanno esperienze (estetiche, ad esempio) importanti e gratificanti. Nelle versioni più elementari le prospettive antropocentriche affermano che la biodiversità va preservata per non tagliare il ramo sul quale siamo seduti, mentre nelle declinazioni più sofisticate tali prospettive sostengono che non dovremmo preoccuparci solo della tenuta del ramo, ma del fatto che esso sia il più possibile fiorito e piacevole per noi e che, magari, sia anche in grado di sopportare il peso di altri esseri senzienti, come gli animali non umani.
D’altro canto, le concezioni antiantropocentriche affermano che il valore morale della biodiversità, e della natura in genere, è in qualche modo indipendente dal fatto che essa soddisfi gli interessi umani (o di altri esseri senzienti). La biodiversità sarebbe cioè importante di per sé, anche se la sua funzione nella vita dell’Homo sapiens fosse irrilevante. Le concezioni antiantropocentriche più radicali affermano che anche qualora l’essere umano sparisse dalla faccia della Terra la biodiversità continuerebbe ad avere un valore. Essa cioè avrebbe un valore oggettivo e reale, indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno in grado di riconoscerlo ed eventualmente tutelarlo e “apprezzarlo”. L’antiantropocentrismo, in un ampio spettro di declinazioni, svincola l’importanza della “natura”, e quindi anche della biodiversità dall’utilità e dalla funzione che questa può avere per l’essere umano.
Quello della vita, della sua varietà e delle sue interconnessioni è un fenomeno spettacolare che si è prodotto del tutto indipendentemente dalla volontà e dalla decisione umana.
Una posizione radicalmente antiantropocentrica appare certo insostenibile e troppo vulnerabile a obiezioni logiche e metafisiche. L’etica – e quindi anche il nostro interesse morale per l’ambiente – è un fatto umano ed è assai implausibile pensare che l’ambiente naturale mantenga un valore morale anche senza esseri umani capaci di apprezzarlo (e tutelarlo). D’altra parte, possiamo anche riconoscere che è un fatto comune della moralità umana il non dare valore alle cose solo nella misura in cui queste possono essere strumentali e funzionali ai nostri scopi. Gli esseri umani, cioè, hanno sviluppato la capacità di dare valore alle cose di per se stesse (pensiamo alle opere d’arte).
È vero, quindi, che la biodiversità ha importanza perché ci sono esseri senzienti e pensanti come gli umani che sanno riconoscerla. Ma è altrettanto vero che fra le cose che possono comprendere quegli stessi esseri umani c’è il fatto che quello della vita, della sua varietà e delle sue interconnessioni è un fenomeno spettacolare che si è prodotto del tutto indipendentemente dalla volontà e dalla decisione umana. La sua origine e i suoi caratteri sono il frutto di processi che prescindono dall’intervento umano (ma che questo stesso intervento può oggi distruggere). Questo carattere indipendente dei fenomeni naturali e della biodiversità è ciò che può dare vita a un rispetto di tipo antiantropocentrico. Vero, il rispetto morale per la biodiversità è un fatto che non può prescindere dalla presenza di esseri umani che lo esprimano, ma tale rispetto trova giustificazione nella complessità, nella autorevolezza e nella magnificenza dei processi che la hanno generata e nei quali l’essere umano non è in alcun modo coinvolto, se non come spettatore.
Noi, le leggi e “il creato” Il problema essenziale del nostro approccio alla natura e dunque alla biodiversità è che siamo ancora perlopiù legati a un’ottica biblica secondo cui “il creato” è lì, fisso e immutabile, per soddisfare le nostre esigenze di specie eletta e superiore. Facciamo davvero difficoltà a pensare che gli alberi che cadono nelle foreste facciano rumore a prescindere dalla nostra presenza. Abbiamo persino creato il concetto di “servizi ecosistemici”, per definire quello che le altre specie fanno per noi e per gli ecosistemi. Praticamente tutte le politiche di protezione della biodiversità, come quelle implementate dalle Nazioni Unite con il Millennium Ecosystem Assessment o con IPBES (Intergovernmental Science–Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), si basano sulla “stima delle conseguenze che i cambiamenti degli ecosistemi hanno sul benessere umano” e i risultati si riferiscono “alle condizioni e ai trend degli ecosistemi mondiali e ai servizi che forniscono”, arrivando anche a classificare questi servizi in relazione ai benefici apportati a noi. Manca solo un listino prezzi.
Abbiamo una tale difficoltà a pensare che gli ecosistemi possano procedere liberamente senza di noi, come hanno sempre fatto negli ultimi quattro miliardi di anni circa, che abbiamo inventato il concetto di “gestione degli ecosistemi” per giustificare interventi che, nell’ottica antropocentrica, riteniamo necessari. A volte sembra quasi che le foreste o i fiumi, senza la nostra “gestione”, siano destinati irrimediabilmente a soccombere.
Purtroppo quello che viene costantemente ignorato sono i nostri “disservizi ecosistemici”, il nostro ruolo predatorio su quasi qualunque ambiente sul pianeta. Il tasso di estinzione attuale è superiore di oltre mille volte rispetto alle attese, e ogni specie che scompare semplifica la rete, togliendole un nodo, e ogni nodo che scompare rende più fragile il sistema, sino al collasso. Anche quando vogliamo invertire questa tendenza, lo facciamo esclusivamente in un’ottica antropocentrica, e mai, ad esempio, per il dovere morale di lasciare questo pianeta come lo abbiamo trovato, o per un senso di rispetto verso entità e processi così complessi e stratificati. Ci riteniamo una specie superiore, per via del nostro grande cervello, ma quando si tratta di applicare al mondo non umano quelle capacità di riflessione morale di cui l’evoluzione ci ha dotato facciamo spesso cilecca e ci comportiamo da predatori, incapaci di andare oltre il nostro interesse.
Il governo del nostro paese, in principio, parte bene. Con la legge 157/92 infatti dichiara: “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato”. In pratica, sembrerebbe riconoscere che la fauna (se non tutto il resto) sia da tutelare a priori solo perché esiste. Peccato che poi aggiunga: “È tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”. Quindi non a priori, ma nell’interesse della comunità umana. Andiamo avanti. L’articolo 2 della stessa legge dichiara: “L’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica e non arrechi danno effettivo alle produzioni agricole”. Quindi, salvo danni alle proprietà agricole o salvo specie a rischio, tutto il resto lo si può ammazzare per sport, il che sembra contraddittorio con quella prima dichiarazione “la fauna è un bene indisponibile dello stato”. È indisponibile solo in casi particolari, sembrerebbe. Il legislatore in pratica, sotto quella prima frase, rivela il reale punto di vista di quello che è poi un fatto accertato: non esiste valore morale intrinseco, per la legge italiana, degli ecosistemi, che si possono sfruttare salvo non si arrechino danni agli umani.
Se non altro, vengono tutelate le specie protette, alle quali si attribuisce un valore morale intrinseco perché parte integrante della biodiversità. Ma solo se questa biodiversità riguarda noi. È vero per esempio che l’Italia recepisce la Convenzione di Rio De Janeiro, ma per esempio legge 194/2015 nel recepirla, “stabilisce i principi per l’istituzione di un sistema nazionale di tutela e di valorizzazione della biodiversità di interesse agricolo e alimentare”. Per tutelare gli ecosistemi si è reso necessario un decreto del Presidente della repubblica (all’epoca Oscar Luigi Scalfaro), il n. 357/1997, perché le leggi del parlamento relative alla biodiversità sembrano orientate solo verso l’ottica antropocentrica della regolamentazione di questo o quell’interesse.
L’attuale governo sembra essere andato ben oltre il recepimento delle convenzioni internazionali. Con l’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica, l’ecologia, e con essa la tutela della biodiversità, sembra essere del tutto scomparsa dall’agenda politica di chi ci governa. La Lipu per esempio rileva che dei fondi del recovery plan (231 miliardi), l’Italia investirà appena lo 0.51% per la biodiversità, corrispondenti a 1.19 miliardi, così suddivisi:digitalizzazione e altre azioni sui parchi: 100 milioni; rinaturalizzazione del fiume Po: 360 milioni; interventi sui sistemi marini e costieri: 400 milioni; tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano: 330 milioni. La Spagna d’altro canto investe il 5.37% dei fondi ricevuti nella valorizzazione della sua biodiversità. “Su 69 miliardi di euro complessivi” dice Danilo Selvaggi, direttore generale della Lipu, su Facebook, “la Spagna investe in Natura 3,733 miliardi, per opere di conservazione e restauro di ecosistemi e biodiversità (1,642 miliardi) e interventi per la tutela delle coste e delle risorse idriche (2,091 miliardi). Proporzionalmente, la Spagna investe una cifra oltre 10 volte superiore a quella italiana e peraltro ben mirata su azioni fortemente strategiche”.
Con punti di vista troppo frammentati e diversi sul tema, spesso non si riesce a far capire a chi ci governa quanto possano essere miopi politiche di disinteresse totale nei confronti della biodiversità.
Sfortunatamente le associazioni che lottano per la biodiversità in italia sono frammentate e in competizione tra loro. Se da un lato la Lipu cerca di mandare segnali forti al governo per ribadire che la biodiversità è un bene intrinseco, in una ottica antiantropocentrica, altre associazioni non riescono in alcun modo a liberarsi della visione antropocentrica e, occasionalmente, predatoria che ha condizionato da sempre il nostro rapporto con gli ecosistemi, causandone in fin dei conti il declino. Ne nascono dichiarazioni di intenti come il cosiddetto “Manifesto di Napoli” che, pur intenzionato a far pressione sul governo per la sua scarsa o nulla attenzione alla biodiversità, lo fa da un punto di vista che pensavamo di aver superato da almeno un secolo, una ripartizione in cui gli orticelli e gli interessi degli estensori sembrano avere la priorità sull’intrinseco e “indisponibile” valore della biodiversità.
Non stupisce quindi che, con punti di vista così frammentati e diversi, e con la logica degli orticelli di cui non ci si riesce a disfare, non si riesca a far capire a chi ci governa quanto possano essere miopi politiche di disinteresse totale nei confronti della biodiversità. Il risultato potrebbe essere distruttivo per tutti, perché siamo davanti a un paradosso: se vogliamo non farci cogliere impreparati dal collasso ambientale derivante dalla sesta estinzione di massa, al cui confronto la crisi sanitaria attuale sarebbe una passeggiata, è fondamentale riuscire a capire il valore assoluto, che prescinde da noi, di quello che ci circonda.