A denunciare la crisi climatica al governo americano ci hanno pensato in molti negli ultimi settant’anni. Fra i tanti esempi che si potrebbero citare, una delle voci più critiche è sicuramente quella di James Hansen, climatologo di fama mondiale ed ex direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. “Il pianeta Terra, la creazione, il mondo in cui si è sviluppata la civiltà, il mondo con le norme climatiche che conosciamo e con spiagge oceaniche stabili, è in pericolo imminente”, scriveva Hansen in un libro del 2009, tornato in stampa con il titolo Tempeste (Edizioni Ambiente, 2023). E continuava, con senso di urgenza e preoccupazione: “la conclusione sorprendente è che il continuo sfruttamento di tutti i combustibili fossili della Terra minaccia non solo i milioni di specie sul pianeta, ma anche la sopravvivenza dell’umanità stessa – e i tempi sono più brevi di quanto pensassimo”.
Sono passati quindici anni da quel grido di allarme e questo oscuro 2024 ha visto alcune delle manifestazioni finora più dure della crisi climatica, fra alluvioni, uragani e ondate di calore. Poche settimane fa il servizio di osservazione climatico europeo Copernicus ha annunciato che sarà non solo l’anno più caldo mai registrato ma anche il primo interamente oltre la soglia dei +1,5°C. Questo stesso oscuro 2024 ha visto anche un susseguirsi di elezioni espressamente “contro il clima”: l’ultima, quella di Donald Trump negli Stati Uniti, si promette già come un grande passo indietro nel contrasto al riscaldamento globale. E intanto sono calate le forze dei movimenti, mentre si sono irrigidite le misure di repressione.
È proprio in questo momento così buio che escono una dopo l’altra edizioni e riedizioni di manuali di ecosocialismo, le quali rivendicano con altrettanta urgenza la necessità di uscire dal sistema economico capitalista, considerato la vera grande causa della minaccia per la civiltà umana annunciata da Hansen. Tra questi testi, spiccano in particolare Ecosocialismo del sociologo francese Michael Lowy (Ombrecorte, 2024), Manifesto ecosocialista del politologo e Presidente del partito socialista belga Paul Magnette (Treccani, 2024), così come L’ecosocialismo di Karl Marx (Castelvecchi, 2023) e Il capitale nell’Antropocene (Einaudi, 2024) del filosofo giapponese Kohei Saito. Ma cos’è dunque l’ecosocialismo? Lowy risponde definendolo come “una corrente di pensiero e di azione ecologica che fa proprie le conquiste fondamentali del marxismo mentre lo libera dalle sue scorie produttiviste”.
Tutt’altro che di nuovo conio, l’ecosocialismo viene da lontano: sul piano teorico si è sviluppato in particolare a partire dagli anni Settanta, mentre il termine si cominciò a usare soprattutto dagli anni Ottanta, quando una corrente interna al partito dei Verdi tedesco si definì in questo modo, mentre negli Stati Uniti l’economista James O’Connor fondava la rivista Capitalism, Nature, Socialism. È interessante notare come il discorso sull’ecosocialismo abbia iniziato a diffondersi proprio negli anni Ottanta: sono quelli di Regan negli Stati Uniti e della Tatcher in Inghilterra, delle privatizzazioni, del culto dell’individuo che scalzava le lotte e l’impegno politico dei due precedenti decenni. È il momento in cui almeno in questa parte di mondo si tagliarono i lacci con tutto ciò che di socialista ancora permaneva nell’Europa capitalista.
Furono fatte scelte politiche ed economiche e soprattutto furono affermati valori politici ed economici da cui ormai sembra impossibile liberarsi. Valori che a un certo punto la sinistra ha fatto suoi, rinunciando al welfare in nome del profitto, abdicando a se stessa e perdendo così di consenso tra i lavoratori e le classi sociali vulnerabili. Poco dopo, nel 1992, fu firmata la Convenzione quadro della Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: da allora le emissioni sono quasi raddoppiate. Insomma si rivendicava l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo vinceva la propria battaglia. L’urgenza con cui oggi almeno in piccole bolle si torna a leggere Marx e ad affermare la necessità di mettere fine al capitalismo, proprio mentre politica ed economia vanno in tutt’altra direzione, ha forse qualcosa di simile.
Oggi come negli anni Ottanta si torna a rivendicare l’ecosocialismo proprio mentre il capitalismo sembra vincere la propria battaglia.
La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili, che in una società di disuguaglianze non possono essere diritti di tutti. Ha accettato l’eredità degli anni Ottanta e ha creduto di doverla difendere. Non potendo più parlare di welfare e di lavoro, si è concentrata appunto sui diritti civili, spogliandoli però di ogni traccia di conflitto. Ha cancellato la parola “classe” dal proprio vocabolario e ha smesso di contestare il capitalismo, con il produttivismo, l’estrattivismo e il colonialismo che esso si porta appresso, ed è diventato quasi impossibile distinguerla dalla destra. Allo stesso modo, l’ambientalismo più recente ha faticato molto a introiettare questi concetti. L’accusa di Lowy in questo senso è lapidaria:
Gli ecologisti si sbagliano se pensano di poter ignorare la critica marxiana del capitalismo: un’ecologia che non si rende conto del rapporto tra “produttivismo” e logica del profitto è votata al fallimento – o peggio, al recupero da parte del sistema. Non mancano gli esempi. La mancanza di una coerente posizione anticapitalista ha portato la maggior parte dei partiti verdi europei – della Francia, della Germania, dell’Italia e del Belgio – a diventare dei semplici partner “ecoriformisti” della gestione social-liberale del capitalismo da parte dei governi di centrosinistra. Considerando i lavoratori come irrimediabilmente condannati al produttivismo, alcuni ambientalisti tendono a ignorare il movimento operaio e hanno scritto sulla loro bandiera: “Né di sinistra né di destra”. Ex marxisti convertiti all’ecologia dichiarano frettolosamente “addio alla classe operaia” (André Gorz), mentre altri (Alain Lipietz) insistono sul fatto che dobbiamo lasciare il “rosso” – cioè il marxismo o il socialismo – per aderire al “verde”, un nuovo paradigma che fornirebbe una risposta a tutti i problemi economici e sociali.
Per Lowy, in sostanza, se “il socialismo non ecologico è un vicolo cieco”, allora “l’ecologia non socialista è incapace di affrontare le sfide attuali”. Leggere queste righe dopo la disfatta di Kamala Harris e l’ondata di green backlash che ha invaso l’Europa nella prima metà del 2024 (per sfociare anche qui in elezioni vinte da ecoscettici), è particolarmente significativo. Forse per questo proprio ora si avvicendano tutte queste pubblicazioni sull’ecosocialismo e la sua riattualizzazione: la situazione attorno è spaventosa, e allora c’è chi sente la necessità di ripartire dalle radici e tornare a occuparsi di economia. E partire dalle radici, come spesso succede, è ripartire da Marx.
Il lavoro di Saito è soprattutto questo, confrontarsi con il pensiero marxiano per riappropriarsene oggi, mostrando come l’insostenibilità ambientale fosse divenuta, a un certo punto, addirittura centrale nel suo pensiero. Lowy non condivide del tutto questa lettura: in Marx a suo avviso mancava una visione ecologica d’insieme, perché non era possibile averla agli albori della civiltà capitalistico-industriale. E tuttavia c’era in Marx, innegabilmente, una profonda consapevolezza: dal discorso della rottura metabolica all’accento sulla contraddizione fra tempi del capitalismo e dell’agricoltura, fino a una lettura del consumo di suolo in termini molto vicini al concetto di estrattivismo (l’“arte di rapinare la terra” è messa in relazione all’“arte di rapinare l’operaio”). Certe questioni non venivano poste direttamente, ma in nuce c’erano già molti dei fondamenti dell’ecologismo e molto del pensiero di cui abbiamo bisogno oggi per costruirne uno nuovo.
Dal canto suo, Paul Magnette si concentra soprattutto sul presente, mostrando come l’ecologismo sia la nuova lotta di classe. È la nuova lotta di classe perché sono le classi più ricche a emettere di più e le classi più svantaggiate a essere più esposte alla crisi climatica, ma anche perché lottare contro la crisi climatica significa necessariamente intervenire sulle disuguaglianze. Lowy prova invece a disegnare una traccia di quello che può essere un sistema economico ecosocialista in una democrazia oggi: affrontare la crisi climatica non può ridursi a una scelta fra il capitalismo verde, con una crescita garantita dal progresso tecnico, o al contrario una decrescita che metta in discussione l’uso di qualsiasi tecnologia, della medicina, della possibilità di spostarsi, e la democrazia stessa. Si tratta piuttosto di operare una trasformazione non quantitativa ma qualitativa dello sviluppo, in cui si metta fine prima di tutto alla produzione di beni inutili o dannosi come le armi, riconvertendo la produzione verso prodotti utili e sostenibili in quantità che non superino il fabbisogno reale. Non tanto e non solo ridurre il tenore di vita delle popolazioni del nord globale, ma sbarazzarsi di ciò che non serve, dal più piccolo ammennicolo di plastica fino al jet privato e lo yacht. E in mezzo il trasporto su gomma delle merci per tratte molto lunghe, l’agribusiness e la pubblicità (che “non potrebbe sopravvivere un solo istante in una società post-capitalista”).
La sinistra (verde e non) ha smesso di vincere perché si è dimenticata che l’economia è al centro di tutto, viene prima e anzi interseca i diritti civili.
Ma nell’entropia di decisioni a breve termine prese da innumerevoli rappresentanti politici e dirigenti di azienda, fare scelte con una coerenza e una ricaduta positiva sul piano climatico e sociale è difficilissimo. Per questo Richard Smith, economista citato Lowy, osserva che “se è impossibile applicare delle riforme al capitalismo al fine di mettere i benefici al servizio della sopravvivenza umana, quale alternativa c’è se non optare per una sorta di economia pianificata a livello nazionale e internazionale? Problemi come il cambiamento climatico richiedono la ‘mano visibile’ della pianificazione diretta”. Pianificazione è la parola chiave: una pianificazione democratica che implicherebbe innanzitutto di sopprimere tutti i settori produttivi dannosi, a partire da una rivoluzione nel sistema energetico. E quindi, necessariamente se l’obiettivo torna a essere il bene comune, avremmo un controllo pubblico dei mezzi di produzione, in modo che le decisioni di politica pubblica relative a transizione tecnologica e grossi investimenti non siano in mano a banche e imprese.
Lowy immagina un’organizzazione razionale e dal basso, che abbia come timone il bene comune e non il profitto di pochi e risponda non al valore di scambio ma al reale valore d’uso: “in questo senso, l’intera società sarà libera di scegliere democraticamente le linee produttive da privilegiare e il livello delle risorse che dovranno essere investite nell’istruzione, nella sanità o nella cultura. Gli stessi prezzi dei beni non risponderebbero più alla legge della domanda e dell’offerta, ma sarebbero determinati il più possibile secondo criteri sociali, politici ed ecologici”. Una pianificazione non dispotica ma democratica proprio perché libera “da ‘leggi economiche’ e ‘gabbie d’acciaio’ alienanti che sono le strutture capitalistiche e burocratiche”. Per fare un esempio concreto, sarebbe pubblica una scelta come la conversione della produzione di un’azienda da auto private a mobilità pubblica o cargobike, ma l’organizzazione interna invece spetterebbe agli stessi lavoratori: è quello che sta cercando di fare il collettivo di fabbrica ex-GKN, dove la scelta di transizione è arrivata dagli operai stessi proprio perché nell’attuale sistema economico scelte così coraggiose non riescono a venire dallo stato. Per Lowy, Saito e Magnette i movimenti operai sono fondamentali, anzi primari, per una transizione verso una società giusta e sostenibile.
Certo l’ecosocialismo costa, o almeno costa arrivarci, ma di proposte in merito non ne mancano. I fondi pubblici che ora vanno in armi e sussidi per auto a combustione, per esempio, potrebbero invece essere destinati a investimenti sulle rinnovabili e formazione dei lavoratori. Paul Magnette calca la mano soprattutto sul sistema fiscale. Un sistema fiscale redistributivo ha funzionato persino negli Stati Unti e in Inghilterra fino agli anni Ottanta, per poi essere progressivamente smantellato, facendo aumentare la quota di ricchezza dei super ricchi, mentre i nove decimi della popolazione hanno visto diminuire la propria. Farne a meno è stato un errore, ma se è già esistito si può fare di nuovo. Non solo: tassare i “super ricchi” vuol dire tagliare le emissioni, proprio perché sono coloro che emettono di più. Se poi oltre ai salari minimi si stabilissero dei redditi massimi, in modo che non possano superare più quattro volte quello necessario per avere una vita dignitosa, solo il 2% della popolazione vedrebbe diminuire il suo reddito ma si eviterebbero grosse forbici di disuguaglianza e ingiustificabili concentrazioni di ricchezza.
Utopie? Piuttosto, direzioni. Il capitalismo ha creato la crisi climatica e gli inutili tentativi di finanziarizzazione della natura hanno dimostrato che non sarà il capitalismo a risolvere il problema, anzi. Magnette, in parte Saito, ma soprattutto Lowy provano a immaginare concretamente una società alternativa ed è esattamente quello di cui abbiamo bisogno. Un’immaginazione fervida e concreta per dipingere una società realistica e completamente diversa da quella in cui siamo immersi. Solo se una larga schiera di politici si riconciliasse con concetti come questi – lavoro, pianificazione, proprietà pubblica dei mezzi di produzione, welfare – smettendo di cercare voti imitando la destra e mostrificando un avversario a cui somigliano sempre di più, torneranno forse a vincere le elezioni e a poter fare la differenza, che non fanno quasi mai.