I l segreto del nostro successo evolutivo è la cultura, che ha permesso di auto-addomesticarci e renderci più intelligenti. Lo sostiene, tra gli altri, Joseph Henrich, professore di antropologia evoluzionistica a Harvard, nel suo ultimo libro The Secret of our success. “L’evoluzione culturale ha innescato un processo di auto-domesticazione”, scrive Henrich, “che ha trainato la nostra evoluzione genetica e ci ha resi più socievoli, più docili, capaci di attenerci a un sistema di regole e di inserirci in un mondo governato da norme sociali fatte rispettare dalla comunità”.
Ma cosa significa che ci siamo addomesticati da soli? Sappiamo che la domesticazione di piante e animali selvatici ha permesso lo sviluppo, circa 10.000 anni fa, dell’agricoltura e dell’allevamento. L’uomo si è sostituito alla natura, la selezione artificiale a quella naturale, e abbiamo scelto le varietà vegetali e animali a noi più congeniali, le abbiamo fatte riprodurre selezionando a ogni generazione le caratteristiche più utili ai nostri scopi. Il processo di auto-domesticazione è stato qualcosa di simile, con la differenza che non è stato un processo volontario, bensì spontaneo. Non c’è stato nessun addomesticatore. O, se vogliamo, noi siamo stati gli addomesticatori inconsapevoli di noi stessi.
Il processo di auto-domesticazione umana non è stato spontaneo: siamo stati gli addomesticatori inconsapevoli di noi stessi.
Per cultura, invece, gli evoluzionisti intendono tutti quei prodotti, materiali e comportamentali, che hanno caratteristiche che non dipendono esclusivamente dai geni ma – soprattutto – dall’apprendimento. Il genere Homo nel corso dei suoi circa 2,5 milioni di anni di vita ha progressivamente reso più complessi e diversificati i prodotti del suo ingegno, dai primi strumenti e utensili litici – come i chopper olduvaiani e le amigdale acheuleane rinvenuti negli strati geologici del Pleistocene africano – fino ad arrivare a costruire grattacieli e stazioni spaziali. E l’ambiente complesso che l’essere umano ha costruito attorno a sé ha favorito le sue facoltà intellettive altrettanto complesse in un processo co-evolutivo tra cognizione e cultura. La componente sociale è stata fondamentale: a partire da piccoli gruppi famigliari, siamo cresciuti a formare bande di qualche decina di individui, fino ad arrivare a comporre oggi conglomerati urbani di milioni di abitanti. Naturalmente anche questo ha richiesto una serie di riassestamenti cognitivi e comportamentali, perché una maggiore densità del gruppo sociale comporta maggiori contatti e necessità di una più elevata capacità di tolleranza nei confronti dei vicini, di chi ci è prossimo.
Così, l’ipotesi evolutiva dell’auto-domesticazione sostiene che per diventare più cooperativi abbiamo dovuto rinunciare a un po’ della nostra originaria e istintiva aggressività – adattativa e utile per individui isolati ma non per chi vive in gruppo. L’aumento delle dimensioni del gruppo sociale dei nostri antenati sarebbe dunque stata accompagnata dalla comparsa di tratti comportamentali più docili. E secondo l’ipotesi dell’auto-domesticazione questa progressiva evoluzione in individui più socievoli avrebbe lasciato tracce riconoscibili non solo nel nostro comportamento, ma anche nelle nostre ossa e nei nostri geni. Si tratta di indizi visibili solo all’occhio esperto di uno scienziato, custoditi da un gruppo di geni, che noi tutti possediamo, responsabili della formazione del cranio e della faccia.
L’ipotesi evolutiva dell’auto-domesticazione sostiene che per diventare più cooperativi abbiamo dovuto rinunciare a un po’ della nostra originaria e istintiva aggressività.
Siamo solo agli inizi del lungo percorso di conferma di un’ipotesi scientifica, ma laddove questa venisse supportata da ulteriori evidenze, si aprirebbero moltissime direzioni di ricerca che ci aiuterebbero a capire l’unicità della nostra storia evolutiva e che cosa ci ha reso umani.
La “sindrome da domesticazione” negli animali
L’Origine delle specie di Charles Darwin si apre con una lunga trattazione delle diverse varietà animali – Darwin mostra una spiccata passione per i piccioni – che gli allevatori riescono a ottenere nel corso delle generazioni, selezionando artificialmente le caratteristiche di maggior pregio ornamentale, come il piumaggio. Nove anni dopo, nel 1868, Darwin dedicò un intero volume alla variazione delle piante e degli animali in stato di domesticazione.
Prima di lui però, agli inizi del 1800, fu un medico e naturalista tedesco, Johann Friedrich Blumenbach, a notare che gli esseri umani condividono con gli animali addomesticati una tendenza ad avere meno reazioni aggressive istintive rispetto a quelli selvatici. Nel 1959 l’etologo russo Dmitry Belyayev iniziò, all’Istituto di citologia e genetica di Novosibirsk, in Siberia, un esperimento di selezione artificiale sulla volpe argentata per studiare gli effetti della domesticazione nel corso delle generazioni – un lavoro portato avanti dalla sua allieva Lyudmila Trut fino ai giorni nostri.
A partire da individui selvatici, quelli meno aggressivi e più tolleranti alla vicinanza umana venivano selezionati e fatti accoppiare. Le volpi argentate addomesticate sono arrivate oggi a esibire un “pacchetto” riconoscibile di caratteri, non solo comportamentali, ma anche morfologici e fisiologici: orecchie all’ingiù, code arricciate, un muso più corto, sembianze giovanili mantenute fino all’età adulta, cambiamenti nel colore della pelliccia (a chiazze chiare), una fase riproduttiva prolungata e una leggera riduzione della massa cerebrale. L’insieme di questi tratti è oggi noto come “sindrome da domesticazione”. Molte di queste caratteristiche sono riscontrabili ad esempio nel cane: a partire da individui selvatici, nel corso delle ultime decine di migliaia di anni l’uomo ha selezionato i lupi più tolleranti alla vicinanza umana e li ha fatti accoppiare per generazioni fino a ottenere un ampio spettro di razze canine.
Belyayev e Trut avevano già intuito alcuni dei meccanismi fisiologici alla base del comportamento più docile: dimensioni più ridotte delle ghiandole surrenali e dunque un minore tasso di ormoni dello stress (come il testosterone) nel sangue, una diversa concentrazione di neurotrasmettitori con livelli più alti di serotonina.
Le volpi argentate addomesticate sono arrivate oggi a esibire un “pacchetto” riconoscibile di caratteri, non solo comportamentali, ma anche morfologici e fisiologici.
Per lungo tempo tuttavia gli scienziati non hanno saputo stabilire perché questo eterogeneo insieme di caratteri si presentasse tutto insieme. Una spiegazione sarebbe potuta essere la dieta, come aveva ipotizzato Darwin, modificata in stato di domesticazione. Ma questa teoria non rendeva conto dell’ereditarietà dei tratti trasmessi da una generazione all’altra: la docilità era, in qualche modo, genetica. Nel 2014 uno studio pubblicato su Genetics ha proposto una nuova ipotesi. Nei vertebrati esiste una specifica classe di cellule staminali, le cellule della cresta neurale (che durante le prime fasi del processo di sviluppo dell’embrione compaiono dapprima sulla regione dorsale del tubo neurale e poi migrano verso la regione ventrale e del tronco) che favoriscono lo sviluppo di molti tipi di cellule e tessuti, tra cui le ossa del cranio e della faccia, le ghiandole surrenali, le cellule della pelle responsabili della sua colorazione (melanoblasti) e le cellule da cui nascono i denti (odontoblasti).
Secondo gli autori dell’articolo, l’insieme dei cambiamenti fenotipici registrati negli animali addomesticati può avere un’unica spiegazione: l’attenuata azione delle cellule della cresta neurale. Scegliendo le volpi più docili, in pratica, Belyayev e Trut selezionavano inconsapevolmente individui il cui processo di sviluppo embrionale era caratterizzato da una ipofunzione delle cellule della cresta neurale. In altre parole: la selezione che veniva fatta era per la docilità, ma come sotto-prodotto, a livello genetico, veniva selezionato un insieme di caratteri accomunati dal medesimo processo generativo.
Una malattia genetica che racconta l’evoluzione
La biologia è un universo di interazioni complesse: se il processo di sviluppo da cui dipende la sindrome da domesticazione è uno solo, i geni che lo governano sono moltissimi e ciascuno controlla un piccolo ingranaggio dell’intero meccanismo. Alcuni geni di questa rete possono tuttavia essere più importanti di altri e se modificati possono dar luogo anche a disfunzioni, condizioni patologiche, note in medicina come neurocristopatie.
Nell’uomo ne esiste una, di queste neurocristopatie, nota come sindrome di Williams-Beuren (WBS), una malattia genetica causata da mutazioni a 28 geni collocati in una specifica regione del settimo cromosoma. Gli individui che ne sono affetti, oltre a riscontrare problemi neurologici e comportamentali, presentano un’esagerazione di alcune delle caratteristiche tipiche della sindrome da domesticazione, come una retrazione della faccia, un’affabilità marcata e minori reazioni aggressive. Alcune mutazioni genetiche coinvolte nella WBS sono esattamente le stesse responsabili di ipersocialità nelle volpi e nei cani addomesticati.
Il processo di sviluppo da cui dipende la sindrome da domesticazione è uno solo, ma i geni che lo governano sono molti e ciascuno controlla un piccolo ingranaggio dell’intero meccanismo.
Così Giuseppe Testa, biologo molecolare direttore del laboratorio di epigenetica delle cellule staminali dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, ha pensato di sfruttare le conoscenze disponibili su questa malattia genetica per provare a far luce sulla nostra storia evolutiva. Uno studio da lui diretto e pubblicato a fine 2019 su Science Advances, si è concentrato su BAZ1B, un gene (per l’esattezza un fattore di trascrizione) coinvolto nella WBS, responsabile della formazione dei tratti craniofacciali.
Testa e i suoi collaboratori hanno ottenuto cellule staminali della cresta neurale da individui affetti da due varianti della WBS. Le cellule sono state poi coltivate in vitro, dove sono state fatte differenziare, ovvero si sono moltiplicate per dar vita ai diversi tipi di cellule come farebbero all’interno dell’embrione. In questo processo si è potuta osservare l’azione regolatrice di vari geni. Si è così scoperto che dall’attivazione di BAZ1B dipende l’espressione di centinaia di altri geni, anch’essi coinvolti nello sviluppo delle ossa craniofacciali.In altri termini, BAZ1B è un gene gerarchicamente molto importante, che dirige il lavoro, più specializzato, di altri geni.
L’altra parte fondamentale dello studio è consistita nel confrontare i genomi di Homo sapiens con quelli dei nostri cugini evolutivi più prossimi, ossia Neanderthal e Denisova. Le analisi dei geni a valle dell’azione di BAZ1B hanno mostrato che quelli sapiens hanno accumulato numerose mutazioni funzionali – ovvero che danno luogo a innovazioni utili anziché deleterie –, assenti negli stessi geni appartenuti a Neanderthal e Denisova. Dopo la separazione del nostro ramo evolutivo dal loro, avvenuta all’incirca 600.000 anni fa, si sono accumulate mutazioni che hanno leggermente ridotto le nostre ossa craniofacciali e tali cambiamenti sono stati ben accolti dalla selezione naturale.
Abbiamo oggi la prima evidenza sperimentale genetica a favore del fatto che la nostra specie ha intrapreso un processo evolutivo di auto-domesticazione.
I risultati ottenuti costituiscono dunque la prima evidenza sperimentale a favore del fatto che la nostra specie ha intrapreso un processo evolutivo di auto-domesticazione: nel corso della nostra storia evolutiva l’adozione progressiva di comportamenti più cooperativi ha favorito la selezione di una serie di caratteristiche morfologiche (ossa del cranio e della faccia più piccole) le cui basi genetiche sono oggi state trovate (i geni controllati da BAZ1B). La ragione per cui i comportamenti più docili si presentano insieme a queste caratteristiche fisiche è che entrambi sono il risultato del medesimo processo di sviluppo, caratterizzato da una attenuata azione delle cellule della cresta neurale. Esattamente come è avvenuto per le volpi argentate, selezionando gli individui più socievoli abbiamo involontariamente selezionato anche altre caratteristiche fisiche e genetiche.
La prova genetica ottenuta da Testa e colleghi in realtà si somma a evidenze paleoantropologiche di cui eravamo già in possesso. Alcuni dei tratti tipici della domesticazione erano stati recentemente trovati anche su crani fossili di Homo sapiens rinvenuti in Africa negli ultimi 200.000 anni. Confrontandoli con quelli più arcaici, le ossa facciali di quelli più recenti sono risultate più piccole, il prognatismo ridotto, così come sono risultate meno pronunciate le ossa sopraorbitali. Questa ridotta dimensione della faccia, che i ricercatori hanno chiamato “femminizzazione”, indica una minore presenza di testosterone, ormone coinvolto nel processo di sviluppo delle ossa.
Richard Wrangham, antropologo evoluzionista di Harvard, dalle pagine di Science ha accolto con entusiasmo il lavoro di Giuseppe Testa. Ha sottolineato però che sono molti i geni che possono essere stati interessati dal processo di auto-domesticazione e BAZ1B non può essere considerato il “gene della domesticazione”. La selezione piuttosto deve aver agito gradualmente accumulando tante piccole variazioni in geni diversi, responsabili di funzioni diverse.
Alla ricerca della nostra unicità
Proprio Wrangham, assieme al suo collega Brian Hare della Duke University, sostiene che l’auto-domesticazione sarebbe alla base non solo di distintivi tratti morfologici e fisiologici, ma anche cognitivi e addirittura morali della nostra specie. Nel suo ultimo libro, Il paradosso della bontà (Bollati Boringhieri, 2019) Wrangham sostiene che se da un lato l’adozione di comportamenti più docili ci ha permesso di evolvere un controllo delle reazioni aggressive istintive, dall’altro abbiamo mantenuto, e anzi aumentato, un tipo di aggressione consapevole, pianificata. Da questi due tipi di risposte deriverebbe, secondo Wrangham, la nostra natura ambivalente, capace di infima perfidia così come di gratuita generosità.
Ogni disciplina scientifica ha le sue peculiarità metodologiche e in biologia evoluzionistica per testare un’ipotesi occorre affidarsi al metodo comparativo. Fortunatamente, Homo sapiens non è l’unica specie che avrebbe intrapreso un percorso evolutivo di auto-domesticazione. I bonobo sono stretti parenti degli scimpanzé, ma rispetto a questi ultimi risultano più cooperativi e meno aggressivi. Secondo Richard Wrangham, i bonobo non sarebbero altro che una varietà auto-addomesticata di scimpanzé, e in quanto tali un buon modello per comprendere qualcosa in più su di noi. Anche loro, come noi, hanno rimodellato i rapporti di dominanza all’interno del gruppo sociale e sono noti per ricorrere al sesso come strategia di risoluzione dei conflitti.
Richard Wrangham sostiene che se da un lato l’adozione di comportamenti più docili ci ha permesso di evolvere un controllo delle reazioni aggressive istintive, dall’altro abbiamo mantenuto, e anzi aumentato, un tipo di aggressione consapevole, pianificata.
Esiste una differenza sostanziale però tra noi e loro: la nostra è l’unica specie di primati con una marcata capacità di apprendimento e comunicazione vocale. Se il processo di auto-domesticazione ha dunque sostanziali analogie nelle due specie, ha agito su organismi con caratteristiche di partenza diverse ed è dunque legittimo aspettarsi esiti diversi.
Secondo alcuni studiosi infatti il processo di auto-domesticazione umana avrebbe innescato un altro tipo di meccanismo evolutivo, decisivo per l’emergere del tratto che contraddistingue forse più di ogni altro la nostra specie e della cui comparsa non conosciamo ancora i dettagli: il linguaggio verbale. Anche in questo caso per verificare l’ipotesi occorre ricorrere al metodo comparativo e per studiare l’evoluzione di un sistema comunicativo vocale altrettanto complesso occorre allontanarsi dal ramo evolutivo dei primati, dove non è presente al di fuori dell’uomo, e posarsi su quello di un’altra classe di vertebrati: gli uccelli canori.
Selezione rilassata e evoluzione del linguaggio
I Bengalese finches (letteralmente fringuelli bengalesi, ma non appartenendo alla famiglia dei fringuelli sono noti anche come passeri del Giappone) sono la varietà addomesticata di un uccello passeriforme del Sud-Est asiatico che allo stato brado è conosciuto come Lonchura striata. Da più di 250 anni questi uccelli sono stati allevati in Giappone per la colorazione del piumaggio, con funzione ornamentale. Il canto degli uccelli è fondamentale per le relazioni sociali, per il riconoscimento dei membri della stessa specie e per l’accoppiamento. Specie diverse cantano infatti canzoni diverse. Gli uccelli non nascono sapendo già cantare: apprendono il canto ascoltando i propri simili e imitandoli, proprio come noi esseri umani non nasciamo con il dono della parola, ma apprendiamo le regole del linguaggio ascoltando i membri del gruppo famigliare.
Allo stato selvatico Lonchura striata produce un canto relativamente semplice, soprattutto perché all’interno della sua nicchia ecologica un canto troppo complesso costituirebbe un rischio troppo elevato in termini di esposizione ai predatori. La selezione naturale mantiene un equilibrio tale che il livello di complessità del suo canto non può crescere troppo.
La varietà domestica, tuttavia, ha sviluppato canti molto più complessi, nonostante gli addomesticatori abbiano selezionato questi individui non in funzione del canto, bensì del piumaggio. Secondo i ricercatori l’evoluzione del canto dei Bengalese Finches è dovuta a un fenomeno alquanto controintuitivo prodotto dalla domesticazione: una minore selezione che produce un aumento della complessità del tratto.
Una delle caratteristiche degli animali addomesticati è l’ampliamento del periodo riproduttivo e della finestra dedicata all’apprendimento. Non dovendosi preoccupare dei predatori, i Bengalese Finches hanno potuto liberarsi dalle catene di una selezione naturale che limitava la complessità del loro canto. Una selezione rilassata ha quindi permesso agli uccelli di sperimentare canti più complessi, che sono persistiti nel corso delle generazioni.
Diversi studiosi, tra cui il neuroscienziato di Berkeley Terrence W. Deacon, ritengono che una selezione rilassata abbia giocato un ruolo importante anche nell’evoluzione umana per la comparsa delle facoltà linguistiche. Se nella pianura pleistocenica africana i nostri antenati dovevano difendersi dai predatori, Homo sapiens (e probabilmente anche i suoi antenati prima di lui) è riuscito a ribaltare la sua posizione nella piramide alimentare diventando lui stesso la minaccia più temuta. Questo riposizionamento ecologico si è tradotto in una radicale ridefinizione delle pressioni selettive, ovvero delle influenze sul lungo termine che l’ambiente ha avuto su di noi.
L’aumento delle dimensioni del gruppo sociale ha prodotto una maggiore schermatura dalle minacce esterne. Al contempo, una maggiore cooperazione all’interno del gruppo ha generato un nuovo ambiente selettivo che ha favorito lo sviluppo di forme di comunicazione sempre più precise e più complesse. Ciò che veniva appreso veniva trasmesso da un individuo all’altro e le informazioni più vantaggiose venivano mantenute da una generazione all’altra. Il linguaggio verbale è probabilmente emerso in questo processo di trasmissione culturale che ha avuto esso stesso la natura di un meccanismo evolutivo di trasmissione, mutazione e selezione delle varianti migliori.
L’evoluzione del canto dei Bengalese Finches è dovuta a un fenomeno alquanto controintuitivo prodotto dalla domesticazione: una minore selezione che produce un aumento della complessità.
È sicuramente riduttivo dire che il caso dei Bengalese Finches sia esplicativo della comparsa del linguaggio articolato umano, perché la complessità dei nostri comportamenti e dei nostri tratti culturali non è paragonabile a quella dei passeri giapponesi. Tuttavia, il paragone tra noi e loro è informativo per quanto riguarda l’ambiente addomesticato, ovvero sul piano di simili pressioni selettive, rilassate, che potrebbero aver permesso lo sviluppo di sistemi di comunicazione più complessi.
Sono solo i primi passi
Se l’auto-domesticazione umana abbia favorito l’evoluzione del linguaggio resta dunque una domanda ancora aperta, che si intreccia con quesiti irrisolti più ampi sull’evoluzione del cervello. La teoria dell’auto-domesticazione predice una leggera riduzione della massa cerebrale, mentre il genere Homo ha visto crescere progressivamente questo parametro nel corso della sua evoluzione (trend di encefalizzazione). È plausibile che il processo di auto-domesticazione si sia innescato solo sul ramo evolutivo di Homo sapiens (che ha una massa cerebrale leggermente minore rispetto a quella di Neanderthal: 1300 cm3 contro 1500 cm3 in media) e non in altre specie ominine, ma è ancora presto per dirlo con certezza.
Oggi sappiamo che l’ipotesi dell’auto-domesticazione ha trovato un’importante prima conferma sperimentale che ne individua le basi genetiche. Le evidenze paleoantropologiche inoltre confermano che le ossa del cranio e della faccia di Homo sapiens si sono leggermente ridotte almeno nell’ultimo centinaio di migliaia di anni. Proprio come nelle volpi argentate della Siberia, i gruppi umani hanno dato vita a un meccanismo di selezione per i caratteri di maggiore socievolezza e maggiore tolleranza nei confronti dei membri del gruppo, con la differenza che nel nostro caso nessun addomesticatore ha guidato il processo, che si è invece naturalmente innescato.
L’adozione di comportamenti vantaggiosi sul breve termine per favorire la coesione e l’ampliamento del gruppo sociale hanno avuto effetti non previsti anche sul lungo termine, che ci hanno modificato nell’aspetto fisico e sul profilo genetico.
L’adozione di comportamenti vantaggiosi sul breve termine per favorire la coesione e l’ampliamento del gruppo sociale hanno avuto effetti non previsti anche sul lungo termine, che ci hanno modificato nell’aspetto fisico e sul profilo genetico. Con i tratti più docili sono stati selezionati involontariamente anche i geni che regolano il processo di sviluppo embrionale: un’attenuata azione delle cellule staminali della cresta neurale è responsabile di facce e crani più piccoli rispetto a quelli dei nostri antenati e cugini evolutivi.
All’interno di quest’ambiente cooperativo è aumentata anche la comunicazione tra individui. Queste condizioni hanno favorito la trasmissione di informazioni più precise, che hanno consentito di costruire strumenti e utensili più efficaci e via via più complessi. Così come la molecola di DNA è il mezzo attraverso cui passiamo da una generazione all’altra le informazioni genetiche necessarie a costruire i nostri organismi, il linguaggio verbale è stato il mezzo cognitivo che ha consentito di trasmettere da una generazione all’altra le informazioni necessarie a tenere in vita, modificare e ampliare a dismisura la complessità e la diversità della nostra cultura che, come sostiene Joseph Henrich, ha garantito il nostro successo evolutivo.