N el 1725 girava voce che nella foresta di Hannover si nascondesse un ragazzino che viveva come una bestia. A qualcuno era capitato di avvistarlo, sporco e cencioso, apparentemente incapace di comprendere e riprodurre il linguaggio umano. Quando venne catturato, divenne famoso come Peter, il ragazzo selvaggio. Vivrà alla corte di re Giorgio I ed entrerà in contatto con le menti più brillanti dell’epoca. Ispirerà a J.M. Berrie l’eterno bambino Peter Pan e a Jonathan Swift il popolo degli Yahoo nei Viaggi di Gulliver. Non giunse mai ad apprezzare le risorse intellettuali che tutto a un tratto gli erano state messe davanti; rimase sempre selvatico, nostalgico dei suoi boschi e della natura. Per la sua storia si sono immaginati vari finali; secondo alcuni sarebbe tornato a vivere nei boschi, secondo altri sarebbe morto ancora giovane di malinconia, costretto alla cattività dei suoi bendisposti aguzzini.
In realtà Peter ha vissuto una vita lunga, e a suo modo felice. Il successore di Giorgio I non condivideva l’entusiasmo per l’eccezionalità del suo caso e lo affidò alla famiglia di un contadino. Peter poté vivere in campagna, di nuovo a contatto con la natura, di nuovo felicemente estraneo alle catene della buona educazione e del buon costume. Visse oltre i settant’anni, perlopiù disinteressato agli altri esseri umani, benché fosse in buoni rapporti con la famiglia che lo ospitava e con tutto il paesino di Berkhamsted.
La leggenda più diffusa, che ricorda le allegre fiabe dei fratelli Grimm, voleva che Peter fosse stato abbandonato in mezzo alla foresta poco più che lattante, e che si fosse inselvatichito per la forzata lontananza dalle persone. In realtà Peter era cresciuto in una famiglia normale che aveva cercato di educarlo come meglio poteva, ma era selvatico in partenza, non sopportava i vestiti né la costrizione delle più blande regole sociali. Continuava a scappare nella foresta per vivere nudo e felice, e alla fine i genitori si sono arresi e ce l’hanno lasciato. La sua indole selvatica era innata: inconsapevole di avere ispirato due classici senza tempo della letteratura, Peter è stato il primo caso conclamato – a posteriori – di autismo.
Un caso più noto è quello di Sherlock Holmes, il consultant detective creato da Arthur Conan Doyle ispirato al dottor Joseph Bell, uno degli insegnanti di Doyle quando studiava medicina a Edimburgo, considerato un pioniere nelle scienze forensi e medico personale della regina Vittoria. Il dottor Bell era uno strano personaggio, con un senso dell’umorismo sottile, innegabili capacità oratorie e una competenza deduttiva non dissimile da quella che renderà famoso Sherlock Holmes. Sapeva registrare dettagli apparentemente ininfluenti e isolarli per dare loro la forma di una corretta anamnesi. Durante una celebre lezione di cui ci rimangono i fedeli appunti dello stesso Doyle, dedusse dalla gestualità e dall’accento che un paziente avesse un passato militare, che fosse stato congedato soltanto di recente e perfino dove aveva prestato servizio, proprio come Sherlock Holmes all’inizio di Uno studio in rosso, quando fa per la prima volta la conoscenza del dottor John Watson.
Sherlock Holmes presenta molte caratteristiche che potrebbero facilmente identificarlo come un autistico ad alto funzionamento; la memoria sorprendente, la noncuranza per le norme sociali, gli interessi specifici, la distanza emotiva – e già tacciare Sherlock Holmes di emotività pare un’iperbole – tra sé e il resto del mondo. Il suo stesso metodo deduttivo ricalca la modalità di interpretazione dello spazio tipicamente autistico – dal dettaglio al quadro complessivo – e unito alla sua memoria prodigiosa, gli conferisce lo status di savant.
Per comprendere come sia mutato negli ultimi decenni il racconto dei disturbi dello spettro autistico è necessario conoscerne la storia medica e neuroscientifica.
Né Arthur Conan Doyle – che pure aveva una formazione medica – né tantomeno James Berrie e Jonathan Swift potevano immaginare che l’origine dei comportamenti che trovavano tanto interessanti fosse una condizione genetica, e alla storia della letteratura questo importa poco. Ma scrivere di autismo oggi significa rifarsi a un vasto corpus di conoscenze, che possono essere più o meno dirette a seconda dei casi. Per comprendere come sia mutato negli ultimi decenni il racconto dei disturbi dello spettro autistico è necessario conoscerne la storia medica e neuroscientifica.
Uno spettro si aggira
La prima menzione del termine “autismo” risale al 1943, quando sulla rivista Nervous Child esce un articolo intitolato “Autistic Disturbances of Affective Contact” a firma dello psichiatra infantile Leo Kanner. Nel suo studio, Kanner riepilogava le analogie nel comportamento di undici bambini e ne proponeva una diagnosi unificata fino ad allora inedita, sviluppando la teoria della madre frigorifero, secondo la quale l’inattaccabile distanza emotiva del bambino autistico sarebbe il risultato di una genitorialità fredda e assente, un rapporto causa-effetto che ribalterà in seguito.
L’anno seguente il pediatra austriaco Hans Asperger usa lo stesso termine in “Die autistichien und Psychopaten im kindesalter”, pur senza aver letto l’articolo di Kanner, riferendosi ad alcuni bambini sotto le sue cure, incapaci di muoversi e comunicare correttamente, eppure privi di malformazioni fisiche. Nel 1959 l’esule austriaco Bruno Bettelheim riprendeva i primi studi di Kanner sulla “madre frigorifero”e scriveva su Scientific American che un fattore scatenante dell’autismo infantile poteva trovarsi nel rifiuto da parte dei genitori, ipotesi che svilupperà in La fortezza vuota (1967), opera che avrà una fortissima risonanza anche al di fuori dell’ambiente neuropsichiatrico e psicanalitico e che solo alla morte dell’autore si scoprirà essere un miscuglio di ipotesi stiracchiate e risultati inventati; Bettelheim non era mai stato allievo di Freud, aveva mentito sulla sua preparazione psicanalitica e perfino sul tempo trascorso nel campo di concentramento di Buchenwald, dal quale era stato rilasciato nel 1939 in occasione dell’armistizio per il compleanno di Hitler. I suoi metodi brutali prevedevano l’allontanamento forzato dei giovani dai genitori, e pare che nei suoi istituti fossero messe in atto punizioni corporali e molestie da parte del personale.
La prima menzione del termine “autismo” risale al 1943, quando sulla rivista Nervous Child esce un articolo a firma dello psichiatra infantile Leo Kanner.
Fino al 1980, nel Manuale Medico Diagnostico – o DSM – il termine “autismo” compariva solo per descrivere alcuni comportamenti tipici della schizofrenia, ma nella terza edizione (DSM-III) l’American Psychiatric Association lo inserisce tra i disturbi pervasivi dello sviluppo. I sintomi comprendono deficit del linguaggio, resistenza ai cambiamenti, assenza di “responsività” nelle relazioni con gli altri. I criteri diagnostici si moltiplicarono nella revisione del manuale pochi anni dopo, e con l’edizione del DSM-IV, nel 1994 si giunse all’individuazione della sindrome di Asperger e alla concezione dell’autismo come di uno spettro.
L’autismo è una condizione genetica altamente pervasiva che si manifesta in deficit di varia entità in campo sociale e delle interazioni, nella messa in pratica di pattern comportamentali ripetitivi e nello sviluppo di interessi ristretti. Alcuni autistici possono avere difficoltà linguistiche fino alla totale non verbalità, altri sono iperverbali. Certi faticheranno a stringere amicizia fin da piccoli, o sembreranno del tutto disinteressati al rapportarsi coi coetanei, altri inizieranno ad avere difficoltà solo in età adolescenziale. Certi soffriranno di disturbi sensoriali e saranno particolarmente sensibili alla trama di un particolare tessuto sulla pelle, avranno difficoltà a sentire le consonanti nel parlato o a memorizzare i volti delle persone.
Sappiamo che l’ereditarietà gioca un ruolo chiave, ma non di facile lettura, e che anche i fattori ambientali sono importanti; che le diagnosi maschili sono da due a cinque volte più frequenti rispetto a quelle femminili: a lungo si è pensato che questo potesse dipendere dalla differenza in numero e in comportamento delle cellule microglia, deputate alla difesa e alla pulizia del sistema nervoso centrale, oppure da criteri diagnostici tarati esclusivamente su individui di sesso maschile, e solo negli ultimi anni stiamo conoscendo meglio l’origine genetica di questa diversità di genere. Sappiamo anche che gli autistici tendono a focalizzarsi sui dettagli piuttosto che sul quadro complessivo, e che una percentuale significativa degli autistici, circa il 10%, sono savant – individui con capacità prodigiose apparentemente innate – e che il 50% dei savant sono autistici.
È difficile stabilire i confini di una condizione organica dai parametri così ampi. Dobbiamo molto di quello che sappiamo sul funzionamento del cervello autistico – come lo definisce lei stessa in uno dei saggi che ha scritto sull’argomento – a Temple Grandin, professoressa associata alla Colorado State University, progettista di allevamenti, scrittrice e autistica. Il suo è un lavoro di divulgazione e sensibilizzazione a doppio taglio: da un lato si affianca a neurologi e neuropsichiatri per offrirsi come caso studio, dall’altro i suoi saggi forniscono a chiunque si trovi nello spettro autistico una serie di linee guida per orientarsi e adattarsi a un universo sociale e lavorativo tarato su tutt’altre esigenze. Nei suoi libri racconta la sua esperienza come autistica e la mette in relazione alle teorie più recenti, analizza le problematiche derivanti da un cervello atipico e ne accenna le potenzialità, senza patetismi né tendenze autoconsolatorie. Quello che sappiamo del cervello autistico è che funziona diversamente da quello di un individuo normotipico, e anche se possiamo riconoscere le cause di determinati comportamenti stereotipati – grazie allo scanning cerebrale si è potuto osservare che il cervello autistico reagisce diversamente a certi stimoli, e che si differenzia anche per lo sviluppo di determinate aree – ancora non sappiamo spiegare perché.
È difficile stabilire i confini di una condizione organica dai parametri così ampi. Dobbiamo molto di quello che sappiamo sul funzionamento del cervello autistico a Temple Grandin, docente, progettista di allevamenti, scrittrice e autistica.
Chi oggi scrive di autismo, può fare affidamento su una corposa bibliografia specialistica a portata di biblioteca o di wi-fi. Per farsi un’idea di come funzioni il cervello autistico basta consultare gli scritti di Oliver Sacks, che ha diffusamente scritto delle sue esperienze con soggetti autistici nei suoi saggi tra letteratura e neuropsichiatria, della già citata Temple Grandin o di Paul Collins, che in Né giusto né sbagliato racconta la scoperta del disturbo del figlio di tre anni, e ripercorre a ritroso la propria infanzia – lui stesso è probabilmente un autistico ad altissimo funzionamento – e le prime tracce dell’autismo nella storia. Affrontare il racconto dell’autismo dal punto di vista di un individuo nello spettro, significa conoscere e saper riprodurre i sistemi di interpretazione e ragionamento di un neuroatipico.
Non si tratta di un disturbo che possa essere curato farmacologicamente o con apposite terapie; l’autistico esperisce il mondo differentemente perché il suo cervello è meccanicamente progettato in un certo modo, e tutti gli sforzi che metterà in atto per riallineare i propri schemi comportamentali con quelli dei neurotipici, sono aggiustamenti cognitivi.
Casi letterari e casi di studio
Negli ultimi decenni il mercato editoriale occidentale – soprattutto anglofono – si è dapprima aperto e poi concentrato sulla narrazione dei disturbi dello spettro autistico. In mezzo a una letteratura tanto vasta, è difficile isolare i titoli che riteniamo significativi per studiarne i mutamenti, le variabili di prospettiva, le tendenze tematiche, ma per capire un contesto generale è necessario studiare il caso particolare – o in questo caso, una selezione di titoli specifici.
Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte esce nel 2003 a firma di Mark Haddon, diventa un caso editoriale e col tempo si trasforma in un long seller. Christopher, un quindicenne con la sindrome di Asperger, cerca di scoprire chi abbia ucciso il cane della vicina di casa, scombina la propria routine e finisce per scoperchiare una coltre di segreti famigliari. Lo stile è scorrevole e diretto e l’empatia col protagonista e narratore è immediata: Haddon riproduce lo schema di ragionamento, le difficoltà in cui incorre quando cerca di interpretare gli stimoli esterni, l’incapacità di mettere a fuoco le proprie emozioni e di stabilirne le cause.
Il romanzo inizia immediatamente con la scena promessa dal titolo; Christopher incappa nel cadavere del cane della vicina, sgozzato. Piange, urla, ha una crisi. La vicina chiama la polizia, la polizia non ha idea di come gestirlo e lo arresta. Il padre lo raggiunge alla stazione di polizia, visibilmente preoccupato – il figlio adolescente nelle mani della polizia, incapace di spiegarsi e di comportarsi correttamente. Quando tornano a casa, Christopher gli chiede se sia triste per la morte del cane:
Rimase a osservami a lungo, trattenendo il fiato. Poi biascicò: – Sì, Christopher, diciamo di sì. Sì, mettiamola così.Decisi di lasciarlo solo perché quando io sono triste voglio essere lasciato solo. Non dissi una parola. Andai in cucina, mi preparai l’aranciata e salii in camera mia.
Christopher non coglie quanto sia evasiva la risposta del padre, né quest’ultimo si preoccupa di nasconderglielo. Invece di cercare di tirargli su il morale offrendogli la sua compagnia, decide di defilarsi, in quello che per lui è un chiaro gesto di premura. Sa che una persona arrabbiata urla e che una persona triste piange, ma la sua capacità di interpretare le emozioni altrui non va molto oltre. Dà per scontato che il mondo interiore del padre somigli al suo, e incapace di leggere gli stimoli emotivi del mondo esterno, proietta il proprio funzionamento emotivo sugli altri.
Nei romanzi di Haddon, Gottlieb e Ludwig seguiamo le storie di protagonisti che scardinano la prigione prevedibile e rassicurante della loro routine per affrontare la concretezza di un mondo che non è fatto su misura per loro.
Le sue giornate sono prevedibili e accuratamente pianificate. Le sue fissazioni riempiono i suoi pomeriggi altrimenti poveri di amici e interazioni. E tuttavia non si ha l’impressione che la sindrome abbia tolto tutto a Christopher; adora i romanzi gialli e vuole scriverne uno. Gli piacciono gli indovinelli matematici, e vanta un’eccellente capacità di calcolo che lo fa rientrare nella categoria di savant. Se non sapessimo che soffre della sindrome di Asperger, lo troveremmo spesso crudele, perché appare del tutto ignaro e perfino ingrato rispetto ai sacrifici che vengono fatti per lui e all’affetto incondizionato del padre. Christopher è egoista, perché le esigenze del mondo esterno non riescono a raggiungerlo. Non è incapace di sentire, quanto di elaborare quello che sente, ed è anche attraverso questo scollamento tra le difficoltà con cui Christopher si trova a confrontarsi e l’incapacità di riconoscerle come combustibile dei suoi stati d’animo, che Haddon riesce a raccontarci con efficacia il paradosso emotivo della vita di un autistico.
Eli Gottlieb, autore di Un ragazzo d’oro (minimum fax, 2018), è cresciuto con un fratello gravemente autistico. Conosce i meccanismi di ragionamento schematici di un neuroatipico e le frustranti limitazioni annesse. Scrivendo in prima persona le esperienze del protagonista Todd Aaron, ospite di lunga data in una comunità per malati mentali, mantiene uno stile diretto e conciso, ripercorrendo capitolo per capitolo la sua storia familiare, il rapporto con la madre defunta, i conflitti col padre violento e il fratello neurotipico che l’ha vessato duramente per tutta l’infanzia e dal quale ora dipende economicamente. Divide la casa con uno schizofrenico che sfoga su di lui i suoi scatti d’ira, legge l’Enciclopedia Britannica e ascolta molta musica. Todd vive la propria condizione come una condanna, intrappolato in una routine insoddisfacente sulla quale non ha voce in capitolo, fatta di farmaci e regolamenti stringenti, con la possibilità di subire abusi dagli educatori della comunità – evidente la critica dell’autore al sistema sanitario e alla gestione pressoché anarchica delle strutture private. Avendo esperito attraverso il fratello i disagi e le sfide quotidiane cui va incontro un autistico in un mondo normotipico, la visione di Gottlieb è tutto fuorché distante e consolatoria.
Benjamin Ludwig invece ha insegnato per anni in una scuola pubblica, prima di decidere di dedicarsi completamente alla scrittura dopo il successo del suo esordio, Ginny Moon, pubblicato in Italia col titolo A bocca chiusa non si vedono i pensieri (Harper Collins, 2017). È il racconto in prima persona di una tredicenne autistica intrappolata nell’ossessione del proprio passato. Ludwig ha adottato con la moglie un’adolescente autistica, e come Gottlieb ha potuto farsi un’idea di prima mano di come funzioni un cervello neuroatipico nel difficile approccio col mondo esterno, la costante sfida del porsi in essere come individuo nel qui e ora. Ginny ha alle spalle una storia di droghe e abusi. La madre biologica – il padre non l’ha mai conosciuto – è una donna instabile che ha trascinato nel loro nucleo famigliare una serie di uomini violenti.
Viene sottratta alla sua custodia grazie all’intervento delle autorità e salta da una casa famiglia all’altra fino ad approdare alla sua famiglia Per Sempre, una coppia amorevole e comprensiva con la quale tutto sembra filare alla grande, finché la Mamma Per Sempre non rimane incinta, e la presenza di Ginny in casa diventa una possibile minaccia per l’incolumità di un neonato. Come Todd, Ginny non si può definire ad alto funzionamento. Frequenta una classe per bambini speciali, è ossessionata dal numero nove – l’età in cui è stata portata via dalla madre – e da Michael Jackson. Lasciata a se stessa rischia immediatamente di mandare a fuoco la casa, la sua attenzione resta ancorata al mondo esterno con grande fatica (“Esco dal mio cervello e mi tormento le dita”), i suoi schemi di ragionamento sono statici e ripetitivi.
I tre i romanzi hanno in comune l’evidenza di una condizione riconosciuta e diagnosticata durante l’infanzia. Ma l’autismo non è sempre visibile.
In tutti e tre i casi seguiamo le storie di protagonisti che scardinano la prigione prevedibile e rassicurante della loro routine per affrontare la concretezza di un mondo che non è fatto su misura per loro. Contrariamente a Christopher, le cui abilità matematiche suggeriscono la possibilità di un’emancipazione professionale soddisfacente, Todd e Ginny non sono savant, e il massimo cui possono aspirare è una crescita personale che subisce comunque le limitazioni di un cervello autistico. Ma le differenze tra loro non si esauriscono qui; l’autismo di Christopher non è meno marcato, le sue crisi non sono meno violente e invalidanti rispetto a quelle di Todd e Ginny, e rischia di rimanere impigliato nelle proprie fissazioni quanto loro. Eppure Christopher non sembra in trappola; capace di scavarsi delle scorciatoie laddove la sua condizione gli pone davanti dei muri, mette in atto gli stratagemmi necessari per non dare in escandescenze continuando a fare quello che gli pare, cercando attivamente di divertirsi con indovinelli matematici e romanzi gialli, mentre Ginny e Todd sembrano muoversi all’interno di un loop anche quando fanno a pezzi la loro routine, prigionieri di un passato irrisolto dal quale non riescono a emanciparsi, costantemente costretti a ripetersi tutte le lezioni che hanno già imparato.
Quello che tutti e tre hanno in comune è l’evidenza di una condizione riconosciuta e diagnosticata durante l’infanzia. Ma l’autismo, nelle sue forme più blande come la sindrome di Asperger, non è sempre visibile.
Una folla di libri
Fino a pochi anni fa, lo stereotipo dei disturbi dello spettro si fermava alla versione più acuta, quella di un individuo incapace di comunicare, intrappolato in un ricco mondo interiore e spaventato dalla violenza degli stimoli esterni. Oggi sappiamo che ha molte forme, e che quelle ad alto funzionamento possono essere confuse con una spiccata timidezza e una personalità eccentrica. La diagnosi può arrivare tardi o non arrivare affatto.
Oggi sappiamo che l’autismo ha molte forme, e che quelle ad alto funzionamento possono essere confuse con una spiccata timidezza e una personalità eccentrica.
Come muoversi tra la folla (SEM, 2019) è il terzo romanzo di Camille Bordas. Il protagonista e narratore è Isidore Mazal, un ragazzino di undici anni ultimo genito di sei fratelli, tutti savant – tranne lui – e più o meno socialmente disadattati. Isidore accenna alle difficoltà del padre a recarsi in posta – ansia sociale – e alla sua ossessione per la lingua tedesca – interesse specifico. Racconta della necessità della madre di ritagliarsi ore di completa solitudine la sera per riuscire a funzionare durante il giorno, della sua eccentricità, di quanta fatica le costi avere a che fare con gli altri. I fratelli e le sorelle sono ancora più bizzarri; alcuni non escono dalla propria stanza se non quando è strettamente necessario. Tutti – tranne Isidore – hanno saltato diverse classi, e la sorella tredicenne Simone si sta già preparando all’università. Nessuno sembra in grado di stringere amicizie profonde e durature, men che meno relazioni amorose. Non c’è un solo membro della famiglia che non sembri ritagliato dalle ultime edizioni del DSM, Isidore compreso. Incontra parecchie difficoltà di interpretazione e comunicazione quando ha a che fare col mondo esterno. Eppure, visto che tutti i fratelli sono così simili tra loro e così diversi da lui, la madre dà per scontato che Isidore sia l’unico che mostri una sensibilità in linea col mondo esterno, l’unico “normale”.
Nel DSM-IV (1994) l’autismo faceva parte dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, insieme alla sindrome di Rett e al disturbo disintegrativo dell’infanzia, entrambi associati a deficit cognitivi gravi. Nella revisione del 2000 si parla indifferentemente di disturbi pervasivi dello sviluppo e dei disturbi dello spettro autistico, di cui la sindrome di Asperger occupa il punto estremo della funzionalità. Negli ultimi anni le diagnosi di autismo si sono moltiplicate vertiginosamente; secondo uno studio statunitense del 2000 il rapporto sarebbe di un individuo autistico ogni 150. Nel 2014, uno su 59. Queste cifre non sono espressione di un’improvvisa epidemia, quanto il risultato di una maggiore consapevolezza delle svariate forme che l’autismo può assumere.
Camille Bordas non accenna apertamente a un disturbo mentale. L’autismo che racconta è nascosto, discreto, eppure sintomatologie, componente genetica e conseguenze relazionali sono tarate con precisione clinica. Non è raro trovare in romanzi scritti o ambientati in pieno Novecento protagonisti con evidenti disturbi nello spettro che per ovvie ragioni contestuali non vengono mai testati. Si tratta spesso di savant, eccentrici geni della matematica – La vita perfetta di William Sidis (William Brask, Iperborea) – o degli scacchi –La regina degli scacchi (Walter Tevis, minimum fax), La difesa di Luzin (Vladimir Nabokov, Adelphi) – che vengono tenuti a galla dal loro eccezionale talento innato, nonostante il confronto con la realtà sia difficile e doloroso.
Non esiste un unico modo giusto per raccontare l’autismo, implicito o esplicito che sia. Qualsiasi indicazione prescrittiva taglia fuori una possibilità, clinica quanto letteraria.
Negli Stati Uniti, dove negli ultimi anni le narrazioni con personaggi nello spettro si sono moltiplicate, soprattutto nell’ambito young adult, gli esperti cercano di spiegare come e perché l’autismo sia diventato alla stregua di un sottogenere letterario (The problem of Autism in Young Adult Fiction, Robert Rozema, 2014). Potremmo chiederci quale di tutti gli approcci possibili renda maggiormente giustizia agli individui nello spettro, e crogiolarci nell’impossibilità di una risposta definitiva. Potremmo porci come parametro chiave – per riuscire, quantomeno, a formulare la giusta domanda – il realismo con cui vengono rappresentati i protagonisti e il loro disturbo, ma anche questo parametro incorre in una massima basilare nello studio clinico dell’autismo ben riassunta da Stephen Shore, docente alla Adelphi University di New York: “Conosci una persona nello spettro autistico, e avrai conosciuto una persona nello spettro autistico”. L’autismo assume una forma diversa per ogni individuo, è impossibile rappresentare un autismo che possa fare da summa di tutti gli autismi possibili; non esiste un unico modo giusto per raccontare l’autismo, implicito o esplicito che sia. Qualsiasi indicazione prescrittiva taglia fuori una possibilità, clinica quanto letteraria.