I l primo esperimento sul campo è iniziato, involontariamente, nell’aprile del 2019, quando la prima sonda di un’azienda privata, la Bersheet della Israel Aerospace Industries, anziché atterrare dolcemente sul suolo lunare e iniziare a svolgere i compiti assegnati, si è fracassata al suolo nel Mare della tranquillità, sancendo il fallimento della missione.
Tra i rottami, però, c’era anche un pacchetto delle dimensioni di un DVD contenente 25 dischetti di nichel inviato dalla Arch Mission Foundation, un ente no profit che si propone di conservare la memoria della razza umana per le generazioni future o, se questa dovesse scomparire, per altre intelligenze. Oltre a migliaia di classici della letteratura, 60.000 vetrini leggibili da molti tipi di microscopi, frammenti di DNA e informazioni sui siti sacri dell’umanità, alcuni dischetti erano stati spalmati con una coltura di quelli che sono considerati tra gli esseri più strani e resistenti che la Terra abbia mai prodotto: i tardigradi, nella loro forma disidratata, detta criptobiosi.
I tardigradi, volgarmente chiamati orsi d’acqua, anche se sono lunghi in media un decimo di millimetro, sono eucarioti invertebrati antichissimi, e straordinariamente capaci di sopravvivere in condizioni estreme, grazie proprio allo stato di super-ibernazione che li spinge a ritrarre le zampe, a diminuire del 99,9% il metabolismo e a produrre un antigelo naturale, il glicerolo, assumendo a tutti gli effetti la forma di spore. Così trasformati, possono campare per decenni senz’acqua, con una pressione e una temperatura bassissime e senza risentire neppure delle radiazioni cosmiche, come ha dimostrato un esperimento condotto dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) nel 2007, dopo l’esposizione a una micidiale pioggia di raggi durata dieci giorni.
Il primo esperimento di astrobiologia sul campo è iniziato, involontariamente, con lo schianto di una sonda che trasportava, anche, alcuni tardigradi, volgarmente chiamati orsi d’acqua.
Tutto lascia perciò pensare che siano ancora lì, dormienti, in attesa, e che la prossima sonda, con un po’ di fortuna, possa recuperare i dischetti, che sarebbero già stati individuati dalla NASA, e riportarli a terra per studiarli e capire se qualcuno di loro si è risvegliato ed è riuscito a riprodursi – ma è un’eventualità del tutto improbabile: per farlo avrebbe dovuto probabilmente mutare e acquisire capacità al momento assenti in qualsiasi organismo terrestre conosciuto, ovvero svolgere funzioni vitali in quelle condizioni e senz’acqua.
La vicenda della contaminazione della Luna con i tardigradi ha fatto conoscere al grande pubblico una scienza relativamente giovane, ma che sta diventando sempre più importante, via via che i progetti per stazioni orbitanti, lunari e marziane prendono corpo: l’astrobiologia, cioè quella disciplina ibrida, dalle molte anime, che unisce alle scienze spaziali quelle biologiche per indagare la possibilità di forme di vita su altri pianeti, e che ci costringe a confrontarci, ancora più in generale, con l’origine e l’evoluzione della vita come la conosciamo.
Non è certamente un caso se la rivista Nature nel 2015 ha messo tra le scoperte dell’anno lo studio compiuto sulla Stazione Spaziale Internazionale, e coordinato da Silvano Onofri, nel quale microfunghi dell’Antartide e due specie di licheni sono stati esposti per 18 mesi alle condizioni orbitali e poi riportati all’Università della Tuscia. Lì è stato possibile dimostrare un fatto che ha segnato un punto di svolta: più della metà dei campioni erano ancora vivi. E ciò implica che potrebbero restare vivi a lungo, anche durante una missione.
Ad Onofri, ordinario di botanica dell’Università della Tuscia, per più di 20 anni responsabile degli studi sui funghi nell’ambito del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, abbiamo chiesto di raccontare i connotati di questa disciplina sempre più rilevante. “Intanto è interessante l’evoluzione del nome: astrobiologia”, racconta al Tascabile. “È stato scelto dopo che, dagli anni Cinquanta, si utilizzava il prefisso eso o exo, per indicare qualcosa di estraneo a ciò che accade sulla terra. Esobiologia, quindi”. Altri nomi utilizzati negli anni sono stati biologia spaziale, biologia extraterrestre, cosmobiologia, che richiamavano tutti scenari alieni, distanti, o troppo legati all’esplorazione dello spazio. “Ma via via che iniziavamo ad avere dei dati, ci siamo accorti che le leggi che regolano la vita sono apparentemente sempre le stesse, anche se noi ne conosciamo solo una parte”. Non c’è differenza, in buona sostanza, tra ciò che succede alle bassissime temperature qui o su Marte, racconta Onofri. Non c’è nulla di davvero “alieno”, quello che cambia dipende dalle altre condizioni, come l’atmosfera. “Per questo, dopo aver vagliato diverse ipotesi, si è scelto di eliminare quel prefisso e si è optato per astrobiologia”.
I campi di indagine della disciplina sono molto vasti. Per brevità, racconta Onofri, possiamo dire che l’astrobiologia risponde a tre tipi di quesiti: “il primo è quello sull’origine della vita sulla Terra, cioè su come è accaduto che molecole inorganiche, a un certo punto, abbiano formato composti organici; per esempio, si cerca di capire se il cambiamento sia stato reso possibile dall’arrivo di molecole dallo spazio, dai meteoriti o dalle comete”. In seconda battuta si vuole comprendere meglio la vita negli ambienti estremi ma ancora terrestri: “per esempio nei vulcani o negli abissi oceanici, non solo perché ne sappiamo ancora troppo poco, e ciò che scopriamo sta modificando gran parte di ciò che pensavamo di sapere, ma anche perché quelle condizioni sono quanto di più simile abbiamo a disposizione per comprendere la vita eventuale su altri pianeti”. Infine, si cerca di valutare la compatibilità delle condizioni estreme con la vita, sia nel sistema solare che al di fuori di esso. È l’ultimo passo per capire poi come realizzare missioni spaziali mirate. “Su queste direttive fondamentali sono organizzati i grandi programmi della NASA (del 2011), dell’ESA (del 2016) e di conseguenza dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), in pieno svolgimento. Si tratta, inutile sottolinearlo, di uno studio che va letto da due punti di vista: quello più vasto della conoscenza umana, e quello della sua applicabilità per i viaggi e le colonie spaziali”.
Ma come si fa, in concreto, a lavorare su temi del genere? Un’idea la fornisce il programma Italian National Project of Astrobiology coordinato da Onofri, finanziato con 3,5 milioni di euro, cui partecipano una decina di enti di ricerca e le cui linee principali sono descritte in un lavoro pubblicato sulla rivista Astrobiology poche settimane fa, nel quale sono previste ricerche sulle molecole elementari, sul ruolo dei probiotici (i batteri indispensabili alla vita anche sulla terra, presenti a miliardi nel corpo umano), sugli archea (il terzo regno, tra eucarioti e procarioti, scoperto solo pochi decenni fa) e sugli estremofili (organismi che vivono appunto in condizioni estreme) in generale, fino ad arrivare all’identificazione delle firme della vita nell’atmosfera di altri pianeti.
“Per comprendere meglio”, spiega ancora Onofri, “si possono considerare, per esempio, i cosiddetti cianobatteri, che non sono affatto batteri ma organismi unicellulari, che fissano l’azoto (e non necessitano quindi di fertilizzanti), svolgono una fotosintesi il cui risultato finale è il rilascio di ossigeno, e che resistono alle radiazioni cosmiche”. Oggi si pensa che i cianobatteri siano stati tra le prime forme di vita, e si sa che possono fornire cibo a elevato valore nutritivo. “Comprendere come reagiscono nello spazio, e che cosa si può ottenere da essi aiuta non solo a confermare o meno il loro ruolo nell’origine della vita, ma anche capire come potremmo utilizzarli in una base marziana, o durante il viaggio per arrivarci”.
Gli studi sulla vita extraterrestre, nell’astrobiologia, hanno due punti vista: quello più vasto della conoscenza umana, e quello della loro applicabilità per i viaggi e le colonie spaziali.
Un altro tema è quello delle firme biologiche della vita, attuale o passata, su altri pianeti. Tracce fondamentali per la ricerca, per ricostruire passato e futuro della storia organica. E anche in questo caso si parte dalle forme di vita più semplici. Spiega Onofri: “La vita produce scarti di vario tipo, che noi possiamo identificare. Se nel suolo o nelle rocce ci sono per esempio certe molecole organiche, oppure l’atmosfera presenta una specifica composizione di gas, si può dire che potrebbe esserci stata una forma di vita microbica, che ha determinato quella firma. Risalendo alla presenza anche passata di forme di vita possiamo capire molto, anche sulla possibilità di riportarcela”.
La vera passione di Onofri sono i funghi e i licheni, gli organismi che l’hanno portato ad appassionarsi all’astrobiologia. Di formazione botanico, da sempre studia le specie vegetali che resistono agli ambienti estremi, e la sua è una storia che ha coinciso con quella del decollo di questo genere di ricerche, e che ha una data precisa di inizio, il 1994. “Ero giovane, ed ero alla mia terza missione in Antartide (al momento ne ha effettuate sei, ndr). Studiavo i microfunghi, quando ricevetti una telefonata (con un ponte radio, erano altri tempi per le telecomunicazioni…) che mi cambiò la vita: quella di Imre Friedmann, che mi invitava a proseguire nel mio progetto, che riteneva interessante”.
Imre Friedmann è lo scopritore della vita microbica all’interno delle rocce antartiche, ed è uno dei padri dell’astrobiologia. Grazie al suo pensiero visionario ed eterodosso sono state fatte le prime scoperte che hanno permesso di capire che la vita, con ogni probabilità, non era come si credeva che fosse: non solo, quantomeno. Ungherese di nascita, sopravvissuto a un campo di concentramento nei Carpazi, dopo la guerra Friedmann va in Israele e lì, nel 1961, descrive per primo la presenza di microalghe nel deserto del Negev: la prima scoperta sensazionale. Poi, nel 1976, ne compie un’altra: nelle rocce, o meglio dentro le rocce del deserto di Ross dell’Antartide, dove nessuno li cerca, vivono dei microbi che lui chiama criptoendolitici.
Nel 2001, quando ormai da molti anni è alla NASA, ne ritroverà tracce dentro un meteorite marziano chiamato Allen Hill 84001: un’altra tappa di assoluta importanza nella nostra conoscenza della vita nello spazio.
“La storia di Friedman, scomparso nel 2007, aiuta a comprendere quanto possa essere complicato compiere questo genere di ricerche”, sottolinea Onofri, che spiega: “Ci sono diversi modi per studiare la vita in condizioni estreme. Una è quella, tuttora validissima, di andare nei luoghi più inospitali della terra e capire che cosa vive in quegli ambienti, e come ci riesce. È in questo modo che sono stati scoperti, negli ultimi anni, numerosi estremofili, cioè batteri, archea e organismi quali i funghi e i tardigradi che riescono appunto a vivere dove un tempo si pensava non ci fosse nulla di vivo”.
Poi ci sono le cosiddette camere di simulazione, cioè laboratori nei quali si cerca di ricreare il più possibile le condizioni di Marte, per esempio, o della Luna. In Europa e in Italia ce ne sono tanti, e ciascuno di essi è impegnato su aspetti specifici come gli effetti delle radiazioni, o le coltivazioni di ortaggi. Nell’ultimo anello di questa catena, ci sono gli esperimenti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), come quello condotto nel 2009, cui faceva riferimento Nature, chiamato Life, da Lichens and Fungi Experiments. “È molto difficile accedere alla stazione, ci sono bandi internazionali competitivi, ma l’Italia ne ha condotti già diversi, e continua a lavorare anche lì”.
C’è anche un altro filone di ricerca, non meno importante, che sta procedendo di pari passo con quelli su cui lavora Onofri: quello sull’uomo, portato avanti tanto sulla Stazione Spaziale quanto sulla Terra. Per restare solo agli ultimi mesi, sull’ISS è stato mandato un micro-cuore tridimensionale progettato e realizzato dall’Università di Baltimora per capire che cosa succede in microgravità (lo stesso prototipo è studiato in contemporanea sulla Terra), mentre l’università di Zurigo ha inviato 250 provette di cellule staminali per comprendere se e come quelle cellule indifferenziate possano evolvere in cellule di osso, cartilagine e altri tessuti, una volta lassù.
Si è parlato molto, qualche tempo fa, del caso dei gemelli Scott e Mark Kelly, che hanno fornito risposte cruciali alle domande sul comportamento della psiche e del corpo umano mandato nello spazio. Entrambi astronauti, hanno preso parte a un esperimento unico, il NASA Twin Study. Tra il 2015 e il 2016 Scott è rimasto 342 giorni sull’ISS, mentre Mark lo aspettava a Terra fornendo campioni di ogni genere, e sottoponendosi a test psicologici per un totale di dieci serie di esperimenti differenti.
Dalle ricerche del pioniere Imre Friedmann, scopritore della vita microbica all’interno delle rocce antartiche, agli studi degli ultimi anni sulla salute astronauti, l’astrobiologia è una disciplina ibrida, dalle molte anime.
I risultati, pubblicati su Science, hanno evidenziato, su Scott, gli effetti dello stress delle lunghe permanenze nello spazio, con modifiche al sistema immunitario, alla circolazione, agli occhi (la sindrome chiamata neuro-oculare, già vista in molti altri astronauti, provocata da un cambiamento della forma degli occhi e ancora in gran parte misteriosa), e poi l’aumento di pressione dentro il cranio (a causa dell’assenza di gravità), la modifica all’espressione di numerosi geni, alla lunghezza dei telomeri e a molto altro. Tutto ciò, aggiunto ai dati che si raccolgono da anni sugli astronauti, sta aiutando ad avere le idee più chiare su che cosa succede al corpo umano, ma moltissimo resta ancora da capire.
Mentre Elon Musk e sodali si affannano a promuovere il turismo spaziale – soffermandosi molto poco a spiegare come non sia affatto banale, per l’uomo, sopravvivere nello spazio per più di qualche giorno senza conseguenze sulla salute, o che nessun hotel lunare o marziano sarà mai realizzato fino a quando non si capirà come dargli autonomia di risorse – c’è chi lavora, dall’ Antartide a Viterbo, per capire come stanno quei tardigradi lunari e contribuire a progettare vere basi spaziali, o viaggi che durino più di qualche ora. Cominciando da una microalga.