L eggere nelle stelle l’ineluttabilità di un’impresa è il prodromo del suo fallimento, specialmente se si tratta di una rivoluzione politica. E non soltanto perché nulla va mai come s’immagina: sarebbe un truismo. Fra l’impeto rivoluzionario e il fato scritto negli astri – la Necessità degli antichi – c’è una contraddizione in termini. Il credo moderno, che impone il nuovo a scapito dell’antico, del perenne, dell’eterno, prevede l’emancipazione dall’arcaico ordine cosmico. Il suo dogma è l’autonomia: del pensiero, dell’identità (o dall’identità), dall’autorità – Kant docet. Per Baudelaire, in pagine mai lette a sufficienza, che fosse animato dagli agitatori rivoluzionari o dal buonsenso borghese, placidamente ottimista, il suo era in ogni caso “un secolo orgoglioso che si crede al di sopra delle sfortune della Grecia e di Roma”. Ostili e sospette sono allora quelle scuole e discipline per cui l’essere umano è il risultato di fattori esterni che lo determinano, se non totalmente, almeno in modo predominante.
Estinte le cause innate, ogni fenomeno dev’essere essenzialmente sociale, svilupparsi dialetticamente in un groviglio di fattori sempre riconducibili, in ultima istanza, al sociale. Ma il sociale è anche quel palinsesto su cui si può sempre riscrivere e ricominciare da capo: tutte le rivoluzioni azzerano i calendari. Da una parte, i cicli eterni del cosmo, la regolarità del cielo, lo scorrere del karman, le linee di sangue, le colpe dei padri, le buone e le cattive stelle; dall’altra, l’autodeterminazione. Non è solo filosofia della storia, massimi sistemi: persino nel Political Compass, noto questionario generalista per determinare l’orientamento politico in base a 62 affermazioni economiche e sociali, sostenere la validità delle predizioni astrologiche spinge in direzione dell’autoritarismo. Che vi possa essere un “collegamento psicologico” fra determinismo e tendenze autoritarie, o rassegnazione fatalista, di certo lo pensava già nel 1946 Robert Eisler (The royal art of astrology), passato da Dachau e Buchenwald, prendendosela con le rubriche sull’oroscopo.
Un rivoluzionario che creda nel Fato e lotti contro un ordine inscalfibile – si capisce – è un controsenso. Perciò lo spirito della rivoluzione ha in odio la natura, madre di ogni ingiustizia. Se questa avesse l’ultima parola, la lotta sarebbe titanica, persa in partenza. A partire da queste premesse, è paradossale che il sommo rivoluzionario del XIX secolo, Auguste Blanqui, abbia scritto in carcere un trattatello visionario sulla cosmologia che sembra smentire la pratica insurrezionalista per cui era finito innumeri volte nelle mani dell’autorità, incarnando alla perfezione il personaggio maledetto dell’enfermé indomito e invitto. L’eternità viene dagli astri è il suo opuscolo sull’“enigma dell’universo” che costantemente ci assilla, ora riproposto per Adelphi nella traduzione di Raffaele Fragola.
Un rivoluzionario che creda nel Fato e lotti contro un ordine inscalfibile è un controsenso.
Nato nei pressi di Nizza nel 1805, nel ricordo di Tocqueville Blanqui era un uomo dall’“aria malaticcia, malvagia e immonda, un pallore sporco, l’aspetto di un cadavere ammuffito”, qualcuno che “sembrava aver vissuto in una fogna”. Non era lontano dalla realtà: dei 75 anni in cui visse, ricorda Ottavio Fatica nel saggio in conclusione, fu al governo per circa 10 ore e per 42 anni in prigione, in esilio o agli arresti domiciliari. Blanqui si iscrisse alla Carboneria da giovane, formandosi nell’epoca della Restaurazione come cospiratore, parte da cui non si sarebbe più separato. Militò in ambienti antimonarchici e fondò società segrete alle cui cellule, votate all’assoluta obbedienza, non era nota l’identità dei capi. Fermamente dirigista, sosteneva la necessità del partito guida, del nucleo di comando, del capo, come scrisse nel suo trattato di tecnica e tattica per l’insurrezione urbana del 1848. Tentò varie volte di prendere il potere, fallì sempre, fu condannato a morte. Nel 1871, i comunardi proposero uno scambio di prigionieri: tutti gli ostaggi che avevano per il solo Blanqui. Il governo rifiutò: il cospiratore supremo valeva “un corpo d’armata”. L’ultimo giornale da lui fondato si chiamava Ni Dieu ni maître. Morì nel 1881 dopo un colpo apoplettico.
Blanqui sosteneva che l’insurrezione andasse iniziata da un’élite militarmente organizzata di rivoluzionari di professione come lui; il popolo si sarebbe aggiunto in un secondo momento. E poi? Blanqui rifiutò sempre di progettare il ‘poi’, come se il fatto rivoluzionario bastasse a se stesso. Data la vaghezza, forse costitutiva, dei suoi programmi politici, fu essenzialmente un antagonista, un combattente feroce, spesso un nemico dei suoi stessi compagni, mai oltranzisti abbastanza. Avverso a qualsiasi moderazione, rifiutava di scendere a patti con un ordine sociale per lui corrotto alla radice, senza bisogno di ragionare sulle cause di ciò che andava anzi estirpato qui e ora: “una rivoluzione”, scrisse, “improvvisa in un giorno più idee di quante trent’anni di veglia non siano in grado di cavare dal cervello di mille pensatori”.
Presto ‘blanquista’ sarebbe diventato una specie di insulto in seno all’Internazionale: era l’uomo d’azione allergico alla teoria; il rivoluzionario più autoritario dell’autorità che avversa; il cospiratore d’élite che si muove fra camarille senza sostegno popolare. Ispirò Mussolini (il motto “chi ha del ferro ha del pane” sulla testata de Il Popolo d’Italia è di Blanqui), il precursore del bolscevismo Pëtr Tkačëv e il suo sodale, il temuto Sergej Nečaev, il quale sosteneva la legittimità di qualunque mezzo – la violenza nella violenza – per raggiungere lo scopo e diede a Dostoevskij l’idea dei Demoni. Nel Catechismo del rivoluzionario, talvolta attribuito proprio a Nečaev, si legge che il perfetto cospiratore “ha rinunciato alle scienze profane” per “un’unica scienza, la scienza della distruzione”. Qualsiasi suo studio, dalla meccanica alla chimica alla fisica, ha soltanto uno scopo: “la distruzione rapida di questo immondo regime”. La tentazione di leggere L’eternità viene dagli astri sotto questa luce è forte; l’esito, però, sembra dare pochi frutti.
Per Benjamin, Blanqui è l’avversario più temuto della società moderna, ma dal suo libro l’umanità esce spacciata.
L’opuscolo risale al periodo in cui Blanqui era rinchiuso nel Fort du Taureau, in Bretagna, in una cella con vista sul mare da cui gli era proibito affacciarsi, perché non si avvicinasse troppo alle sbarre. Il cielo che non poteva vedere divenne il cielo che era costretto a immaginare: nacque allora il libro come “un’oasi d’orrore in un deserto di noia”. Raccolse, al tempo dell’uscita, solo imbarazzo e commiserazione; nemmeno sua sorella si prese la briga di leggerlo. Walter Benjamin, decenni più tardi, lo riscoprì, facendo del suo autore una figura centrale nel progetto dei “Passages” di Parigi, dove ha il suo posto d’onore nella stessa costellazione di Baudelaire e Nietzsche e viene ricordato come “l’avversario più temuto di questa società”, quella moderna. Perché, secondo Benjamin, proprio in questo libricino Blanqui avrebbe rivelato “i tratti tremendi” della sua “fantasmagoria”. Ma di cosa parla allora L’eternità viene dagli astri?
La sua tesi principale si vuole more geometrico demonstrata a partire da pochi assiomi: l’infinità dello spazio, indivisibile; l’eternità del tempo, senza origine e senza fine; dunque l’eternità della materia (nulla si crea, nulla si distrugge…). Solo le sue forme, “umili o sublimi, sono transitorie e periture”, in perenne trasformazione. Data l’infinità dello spazio, si danno infiniti soli, e infiniti pianeti attorno a loro, e dunque “miriadi di forme e meccanismi”, ognuno adattato al suo particolare ambiente in una “diversità pressoché senza limiti”. Pressoché: perché a ben vedere un limite c’è, ed è fondamentale. Gli elementi di base sono sempre gli stessi, e sono limitati, procede Blanqui: al tempo in cui scriveva, la tavola periodica contava 64 elementi, ma l’autore riponeva tutta la sua fiducia nel fatto che sarebbero arrivati al centinaio (non aveva tutti i torti: sono oggi 118, di cui 89 presenti in natura). In ogni caso, una quantità finita.
Una volta esaurite tutte le possibili combinazioni, sostiene Blanqui, nell’eternità del tempo la natura non potrà che ripetersi, dovendo riempire l’infinito. Prima o poi, in altre parole, si avrà un doppio. A ben vedere, continua, è già accaduto infinite volte nell’eternità che ci precede. E infinite altre accadrà di nuovo. “Questa vita, come tu ora vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte…”: Nietzsche è nei paraggi.
Blanqui anticipa la tesi della pluralità dei mondi, quello che siamo abituati a chiamare multiverso.
Ammesso e non concesso che i conti tornino, ecco un universo di menecmi (dal nome della commedia plautina sulle peripezie di due gemelli separati nell’infanzia) se non di perfetti sosia (Blanqui parla di “miliardi di alter ego” di ciascuno, “in pantaloni e paletot, in crinolina e chignon”), copie infinite di “tipi” limitati in eterna ripetizione di tutte le possibili combinazioni, tutti gli scenari. Ogni variante concepibile, in linea con le leggi naturali, è realtà da qualche parte dell’infinito, lo è già stata infinite volte e lo sarà infinite altre. È la tesi della pluralità dei mondi, quello che siamo abituati a chiamare ‘multiverso’ e a cui, a tutt’oggi, danno credito soltanto qualche fantasioso teorico della meccanica quantistica e gli sceneggiatori di Hollywood. Ma la versione di Blanqui ha una sfumatura di horror mundorum in più, alla Rick & Morty: la noia di un cosmo dove tutto è già successo infinite volte e tutto ritornerà identico da qualche altra parte:
Il passato è un fatto compiuto; è il nostro passato. Il futuro si concluderà solo alla morte del globo. Da qui fino allora, ogni istante porterà la sua biforcazione, la strada che si prenderà e quella che si sarebbe potuta prendere. Qualunque sia, quella che dovrà completare l’esistenza propria del pianeta fino al suo ultimo giorno è già stata percorsa miliardi di volte. Non sarà che una copia impressa in anticipo dai secoli.
Né fato né fatalità nell’infinito: per ogni mondo condannato a un dato percorso, ve ne sarà un altro il cui corso è opposto. L’eternità “ignora l’alternativa e ha posto per tutto”. Vincere o perdere, avere o non avere, essere o non essere sono la stessa cosa, ma non c’è nulla di consolatorio quando Blanqui, storicamente sconfitto, afferma che “tutto ciò che avremmo potuto essere quaggiù lo siamo da qualche altra parte”: ogni cosa è singolarmente costretta all’irrilevanza e al nulla e, tramite copie (ciascuno di noi una versione del proprio ‘tipo’), all’eternità del taedium vitae degli Immortali di Borges, che non per nulla fu tra i più attenti lettori di Blanqui. Quella in cui tutto è indifferente e non ci sono meriti, perché se Omero compose l’Odissea, “dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea. Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini”.
La tesi cosmologica di Blanqui sembra smentire qualsiasi proposito di rivoluzione.
Da una parte, la pluralità dei mondi annulla l’univocità fatalistica, il destino e dunque la tragedia, rendendo la vita individuale solo il canovaccio di una maschera, di un personaggio di carattere, come in un cartone animato in cui nessuno invecchia o muore o va mai davvero da qualche parte, ma perdura nel proliferare delle sue avventure episodiche e presumibilmente senza fine. Dall’altra, ciascuna copia è condannata a una sola storia, una sola traiettoria desacralizzata, priva di senso nell’ampio non-schema delle cose, che è insensato proprio perché contiene, nella sua infinitezza, tutti i significati. Viene meno così anche l’esuberanza ridanciana propria del personaggio di carattere, protagonista della commedia. Solo il superuomo nietzscheano potrebbe esaltarsi a un pensiero del genere, ammesso che ciò non sia già un segno di pazzia. Meglio devenir immortel et puis mourir, come dice Jean-Pierre Melville a Jean Seberg in Fino all’ultimo respiro.
Stando a un suo contemporaneo che lo recensì all’uscita, il libretto di Blanqui “è un sogno, il sogno di un detenuto. Non andate a cercarvi vera astronomia, ma cercatevi fino a qual grado di tensione la solitudine può spingere l’immaginazione umana”. Un prodotto della follia alimentato dal carcere, della stessa famiglia del dialogo di Torquato Tasso con il “folletto” che lo tormentava e delle 120 Journées di Sade. Alla sorella, Blanqui confessò di averlo scritto “per difendermi dal dragone che vedevo minaccioso. Ogni mio rifugio, ogni mia difesa era in quest’opera”. L’avrebbero preso per matto, ma che importava?
Il fatto è che la sua tesi sembra smentire qualsiasi proposito di rivoluzione. Come aveva visto Benjamin, queste “riflessioni ingenue da autodidatta” sono lo scacco matto all’élan rivoluzionario, producono “une vision d’enfer”, una rassegnazione senza speme, il peggior fatalismo concepibile. “L’eterno ritorno ‘smaschera’ il mito del progresso”, commenta Fatica. Per il rivoluzionario, infatti, “L’ingranaggio delle faccende umane, a differenza di quelle dell’universo, non dipende affatto dal fato. Esso è modificabile a ogni minuto”: sono parole di un Blanqui più giovane, non ancora arresosi alle stelle. Ma che cos’è il miglioramento della condizione umana rispetto alla morte del sole? Che cos’è l’insurrezione, fosse anche planetaria, di fronte alle rivoluzioni cosmiche delle galassie in collisione? E che cos’è ogni cosa al cospetto della ripetizione eterna per cui ogni fatto avviene, è già avvenuto e sempre avverrà mentre, da qualche altra parte, è vero anche l’opposto? Sempre, mai, non ancora: amminicoli da canzonetta amorosa.
La visione infernale di Blanqui fa entrare la modernità, con prepotenza, in tutto l’universo.
Per Benjamin, da questo libro l’umanità esce spacciata: “Ogni cosa che poteva sperare di nuovo non si rivelerà altro che una realtà sempre presente; e tale nuovo sarà tanto poco capace di offrire una soluzione liberatrice quanto una nuova moda lo è di rinnovare la società”. Per poi concludere: “La speculazione cosmica di Blanqui insegna che l’umanità sarà in preda a un’angoscia mitica fintantoché avrà luogo la fantasmagoria” della modernità. E qui bisogna tornare – come sempre – a Baudelaire.
Secondo il poeta, l’idea del progresso – “fiorita sul terreno putrido del fatuo moderno”, “segno diagnostico di una decadenza ormai più che visibile”, “fanale senza luce” – è qualcosa che “sconfina nell’orrore”. Precisamente, è l’orrore di passare una non meglio determinata eternità “raffinando l’umanità in ragione dei nuovi godimenti” che il progresso procura, nuova uscita dopo nuova uscita, moda dopo moda, trend dopo trend. La “più ingegnosa e più crudele tortura”, chiosa Baudelaire. Ma in Blanqui tutta la smania moderna del nuovo, la pretesa malriposta del mai visto, del mai sentito, del non ancora, della prima come dell’ultima volta – tutto si disperde nel tedio dell’eternità, moltiplicato all’infinito da una ruota che gira a vuoto. Dal multiverso sparisce l’unico, sommerso dalle sue copie fino alla noia e alla nausea, come in un grande magazzino e, oggi, in ogni angolo della Rete, che di quel cosmo è la trascrizione digitale.
La proliferazione infinita ed eterna delle copie di copie, noi compresi, nell’universo visto da Blanqui allarga la portata psichica della rivoluzione industriale al piano cosmologico, sostiene Benjamin. In altre parole, quella di Blanqui è un’espansione allucinata della fantasmagoria del suo tempo al cosmo intero. Per questo, per Benjamin, il cosmo “divenuto abisso” di Blanqui è il cosmo moderno: la sua visione infernale fa entrare la modernità, con prepotenza, in tutto l’universo (“in questo scritto si dispiega il cielo in cui gli uomini del XIX secolo vedono fissate le stelle”). E per questo Benjamin legge nelle pagine di Blanqui una dichiarazione di sconfitta, una resa all’ideologia della copia e della merce, un’abiura, insomma, di quanto precedentemente tentato dal martire della rivoluzione mancata.
Blanqui, in ultimo, si batte contro il principio di centralità dell’essere umano nell’universo.
C’è, però, almeno un modo di leggere L’eternità viene dagli astri come arma della ‘scienza della distruzione’. Estinto il fuoco rivoluzionario, resta il desiderio di vilipendere il cosmo, svuotarlo di senso trascendentale, rimuovervi qualsiasi residuo divino. Inserirsi, in altre parole, in una tradizione di speculazione materialista, metafisica ma atea: quella di Feuerbach e Laplace, ma anche di Democrito, Epicuro e Lucrezio. L’ultimo nemico, per Blanqui in carcere, resta Dio, e in senso lato il cristianesimo (“C’è un libro fuori luogo, un libro di troppo nel mondo moderno”, scrisse nel 1868, e “questo libro è la Bibbia”). O Dio o l’eterno ritorno, sospettava il Nietzsche dei frammenti, tertium non datur.
Blanqui, in ultimo, si batte contro il principio di centralità dell’essere umano nell’universo, contro il primato della terra, questa terra, la teleologia, l’attesa messianica, il tempo cairologico, il giorno del giudizio, la redenzione. Gli esseri umani e il loro pianeta sembrano, anzi, “quasi degli intrusi”, e la natura “non si occupa di noi”. Rapito dalla vertigine dell’infinito, che misura in leghe e tempi di percorrenza ferroviari, come a voler oltraggiare l’ottimismo della locomotiva, a Blanqui non importa se deve precipitare a sua volta con tutto il cielo antico scardinato dalle sfere, trascinando con sé la rivoluzione, ormai una barzelletta tra studenti. Anche il libertino sadiano, distruttore in ossequio a una Natura malvagia rigorosamente dimostrata, accetta infine la propria distruzione per confermare la correttezza del teorema del delitto.
Non solo nel suo cosmo non c’è più l’amichevole selenita sul “cadavere della luna”, ma anche il sole è descritto con la foga del bombarolo come “una stella in declino”, le comete non sono più presagi, annunciatrici di prodigi o “messaggere della morte”, ma tristi corpi erranti strattonati da masse più imponenti, e il nostro mondo è destinato a cadere “nella notte eterna”. Miliardi di astri morti riempiono un cielo ostile come “tombe vaganti” in attesa di processi di distruzione e rinascita che durano milioni di secoli, ammassando polveri, detriti e nebulose in un crogiolo di proporzioni inimmaginabili. Un “pandemonio universale” – in realtà poco più che una “pioggia di scintille”, dal punto di vista dell’eterno – che preserva l’universo da una morte altrimenti lenta e inesorabile. Non più le dantesche “ninfe etterne” splendidamente ordinate in figure fisse e indubitabili, e dunque in storie, genealogie e intrecci di destini, ma al loro posto un disordine necessario, perché eternamente creativo. Almeno fino a quando non inizia a ripetersi.
Sostenere tutto questo (l’“assoluta certezza” dell’infinità e dell’eternità), tra entusiasmi scientisti e rigurgiti illuministi, voltairiani, anche per Blanqui si rivela infine una questione di fede di fronte a un cielo muto – come per tutti gli scientisti, gli illuministi, i voltairiani. Poco importa – ma importa poco solo a Blanqui – se per smontare la metafisica sacra deve sostituirvi il nuovo mito della pluralità non gerarchica dei mondi. Qualcuno, correttamente, lo giudicherà un errore, da sommarsi agli altri. Resta il fatto indiscutibile che, da che mondo è mondo (e ne basta uno), come ricorda Fatica con l’ironia di cui Blanqui scarseggia,
condizione permanente è la fede, una fede, anche astronomica, politica, economica, amorosa, al limite sportiva. La perfezione della trama, nostra mira ultima, è irraggiungibile, modellata com’è da un’intelligenza finita. Le trame di Dio sono perfette. L’universo è una trama di Dio. Ha ereditato tutti gli attributi ontologici della divinità, ma solo quelli. Gli altri, nel lasciare il mondo, Dio li ha portati con sé.
Nessuno esce dall’angoscia mitica. Nemmeno – e soprattutto – i moderni.