D a un punto di vista filosofico, Aristotele è stato un genio simile a quello meccanico di Leonardo da Vinci, cioè una fontana inesauribile, uno straordinario risolutore di problemi. Non esiste quasi argomento sul quale non abbia detto la sua: etica, politica, scienze naturali, cosmologia, gnoseologia, psicologia, teologia, logica e metafisica. Forse era prolifico perché si accorgeva di avere a disposizione un cervello particolarmente potente, forse soltanto perché provava una soddisfazione incontenibile nel pensare, di certo perché – a differenza di tanti altri uomini della sua epoca – si è trovato nelle condizioni per farlo; comunque sia le sue invenzioni sono state moltissime, e vale la pena di metterne in fila sette che, raccolte insieme, producono un ritratto interessante del suo stile di pensiero e del suo sguardo.
Una premessa necessaria è che Aristotele ha dato vita alla logica. Con la logica i discorsi diventano delle grandi operazioni matematiche dove al posto di ogni frase è possibile mettere un semplice fermaposto, spesso una lettera. Così la frase “se piove, allora mi bagno”, ridotta ai minimi termini, assume un aspetto completamente nuovo: “se A, allora B”. Con questo espediente è possibile guardare se i discorsi funzionano senza sapere assolutamente niente di ciò che dicono.
Da un punto di vista filosofico, Aristotele è stato uno straordinario risolutore di problemi.
Scrivendo di logica, Aristotele ha avuto un’urgenza molto specifica. Alcuni dei pensatori che erano venuti prima di lui avevano messo in dubbio la possibilità di parlare di qualcosa senza contraddirsi: dire che “ogni uomo è mortale” per loro significa dire che “A è C”, mentre l’unica affermazione incontrovertibile e onesta sarebbe “A è A”. Questo, però, significa non andare molto lontano con il pensiero e il linguaggio, usarlo solo per dire cose che si sanno già: per esempio che “un uomo è un uomo”, ribadendo il mondo e le cose.
Nessuno di noi parla così, farlo sarebbe inutile. Per risolvere l’inghippo, Aristotele non solo ha visto che l’essere si può dire in molti modi, ma ha inventato un discorso – il sillogismo – in cui ogni giudizio collega due termini estremi e uno medio. Per esempio: se “ogni animale è mortale” e “ogni uomo è animale”, allora “ogni uomo è mortale”. Non ha fatto altro che applicare la proprietà transitiva: il termine medio (animale) è il giunto che collega A a C e ci rende possibile continuare a dire le cose che diciamo, senza scrupoli. A e C restano cose diverse, ma adesso si possono unire senza paura.
Alcuni dei pensatori venuti prima di Aristotele avevano messo in dubbio la possibilità di parlare di qualcosa senza contraddirsi.
Tra le invenzioni linguistiche più notevoli di Aristotele, c’è un utilizzo nuovo della parola categoria. Ancora oggi noi usiamo la parola nel senso in cui lui l’ha intesa,per dividere la realtà stessa in sottoinsiemi riconoscibili e ultimi. Le categorie sono dei termini irriducibili, i modi di essere delle cose. Per capire quante sono, Aristotele si è fatto una domanda tutto sommato semplice, cioè: “Che cosa è questo?”, e dopo ha raggruppato tutte le risposte possibili in dieci famiglie: sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, avere, agire, subire. Le categorie sono uno strumento estremamente potente, perché grazie a esse si può ordinare il mondo e si possono scrivere i dizionari.
A proposito di dizionari, sempre usando la logica, Aristotele ha inventato una forma moderna di definizione. Se vogliamo dare la definizione di qualcosa, dobbiamo dire il suo genere sommo, cioè la classe più generale a cui appartiene, per esempio “animale”, e la specie che differenzia quella cosa dalle altre del suo genere, per esempio “uomo”.
Già Platone aveva imparato a definire gli oggetti usando specificazioni progressive, ma Aristotele fa un passo in più, perché si spinge a spiegare che cosa tiene uniti il genere e la specie, cioè la differenza specifica. L’attributo “razionale” mostra perché, tra tutti gli animali, solo alcuni sono umani. Senza questo strumento ciascuna definizione è troppo arbitraria; costruita così, invece, è come la formula chimica che contiene le caratteristiche essenziali di una determinata cosa. L’uomo Socrate, per esempio, è un “animale razionale”.
Ancora oggi noi usiamo la parola ‘categoria’ nel senso in cui Aristotele l’ha intesa.
La prossima invenzione aristotelica proviene dalla fisica, lo studio della natura: sono le quattro cause fondamentali delle cose. A furia di osservare gli oggetti naturali e le loro trasformazioni così come i prodotti dell’ingegno umano e la loro origine, Aristotele ha immaginato che il miglior modo per spiegare qualsiasi fatto naturale o reale sia farlo risalire a quattro cause: una causa materiale, una causa formale, una causa efficiente, una causa finale.
Se prendiamo per esempio la Torre di Pisa, la materia è il marmo, la forma è la torre stessa, la causa efficiente è l’architetto Bonanno Pisano, mentre il fine è dare un bel campanile trionfale alla basilica della città. Ma se si considerano invece una rondine o un uragano, cioè le sostanze naturali, le cause sono solo due, cioè quella materiale e quella formale.
Sempre alla riflessione sulla natura si deve l’invenzione del sostrato. La parola greca rende meglio l’idea, perché hupokeímenon vuol dire “ciò che sta orizzontalmente sotto”. Al di sotto di tutti i cambiamenti che si possono osservare, qualcosa resta: c’è qualcosa di immutabile che rende riconoscibile il paesaggio tra il prima e il dopo, tra la notte e il giorno, ieri o tra due milioni di anni.
Questo qualcosa per Aristotele prende il nome di sostrato ed è la parte immutabile del mondo, nonostante il passaggio continuo da A a B, nonostante il divenire. È importante, perché senza questa stella polare sarebbe più difficile orientarsi, e forse anche trovare un senso alla vita. Il sostrato è un modo particolare di intendere la sostanza, che per Aristotele è un’unione indissolubile di materia e forma.
Il sostrato per Aristotele è qualcosa di immutabile che rende riconoscibile il paesaggio tra il prima e il dopo, tra la notte e il giorno.
Per la sesta invenzione occorre passare alla teologia: di fatto si tratta di una definizione di un essere divino, che Aristotele ha chiamato motore immobile. Se gli oggetti del mondo per muoversi devono avere sempre una causa, qualcosa che li spinge, occorre una forza che muove senza essere mossa. È necessario e logico pensarlo, altrimenti si andrebbe indietro fino all’infinito senza mai trovare la prima causa del movimento: la mente di Aristotele è parecchio geometrica, non concepisce né il vuoto né l’infinito, cioè non crede che questi due oggetti esistano, sennò il nostro cervello sarebbe in grado di pensarli. Il motore immobile è l’impulso principale che permette a tutti gli oggetti che lo circondano di muoversi e di navigare.
L’ultima, tra le poche invenzioni aristoteliche di cui qui c’è lo spazio per parlare, è la cosiddetta regola del giusto mezzo, che riguarda l’etica. Aristotele ritiene che il carattere di ciascuno di noi sia istintivamente orientato verso un certo eccesso: c’è chi, per esempio, tende in maniera esagerata alla gelosia, chi invece tende a essere indifferente verso le persone che ama. Come fare a correggersi? Una volta individuata la parte verso cui propendiamo, dobbiamo cercare con tutte le nostre forze emotive e mentali di muoverci verso il vizio opposto. Inutile dire che le due forze si annullano, e chi si sforza ottiene il risultato perfetto – che è stare nel mezzo. Dal fatto che il sommo ideale etico sia la moderazione dipende una visione del mondo particolare – molto distante dalla nostra –, che è quella propria di Aristotele.
La mente di Aristotele è parecchio geometrica, non concepisce né il vuoto né l’infinito.
Se si prova a considerare queste invenzioni come tante macchine prodotte dallo stesso ingegno, si può vedere in che cosa si assomigliano: quello sarà il marchio di Aristotele, la forma del suo pensiero. Per ragioni familiari e anche didattiche – suo padre era un medico, e il suo principale allievo, Alessandro Magno, era continuamente in viaggio – si sa che Aristotele ha potuto soddisfare la sua curiosità con uno studio comparatistico degli oggetti della natura e non solo. Oggi si direbbe che era un collezionista: infatti la biblioteca del Liceo, la scuola che fondò, non conteneva solo papiri, ma anche pietre, scaglie, forse foglie, sicuramente scheletri e gusci, oltre a una collezione delle carte costituzionali in cui si era imbattuto viaggiando prima da solo, e poi al seguito di Alessandro. Da questa analisi comparata di forme, la mente di Aristotele tende a trarre sempre una regola: l’esempio delle categorie è emblematico.
Ci vuole un cervello di un certo tipo per decidere che tutto il mondo può essere ricondotto al massimo a dieci elementi. Apparentemente potrebbe trattarsi di una manifestazione di arroganza, in realtà dietro a una simile impostazione mentale ci sono una forte consapevolezza del limite e una precisa visione del mondo: l’ordine è preferibile al caos, arrivare a una conclusione è meglio che non farlo. Il cervello di Aristotele adora le tassonomie, ma al tempo stesso desidera far quadrare i conti. Non saprebbe che cosa farsene di una lista infinita e sempre aperta, quindi ama riconoscere i motivi ricorrenti tra oggetti e poi inchiodarli come farfalle sotto vetro.
Per Aristotele l’ordine è preferibile al caos, arrivare a una conclusione è meglio che non farlo.
Lo stesso ragionamento delle categorie vale per le quattro cause: come mai proprio quattro? È una decisione arbitraria, che corrisponde al bisogno di mettere un punto. E per Aristotele una frase senza il punto è insopportabile. Proprio l’ansia di far quadrare i conti produce l’idea del motore immobile o quella di un sostrato che resta identico nel tempo. Queste due invenzioni probabilmente gli danno il brivido matematico della risoluzione esatta di un problema, perché senza il motore immobile si rischierebbe di cercare sempre più indietro la causa del primo movimento e senza sostrato il mondo intero sarebbe ogni giorno completamente irriconoscibile, infinito. Così, invece, si raggiungono l’equilibrio e la pace.
Un’osservazione più sofisticata si può fare guardando alla definizione, al sillogismo, alla regola del giusto mezzo. In questi tre casi la salvezza proviene dal terzo elemento: la differenza specifica, il termine medio, la via di mezzo. Qui lo sguardo di Aristotele si distingue per la sua abilità di vedere qualcosa che gli altri non vedono e che fa la differenza. È un istinto a cercare un bilanciamento tra le cose, a guardare quello che sta a metà. Che cosa c’è tra il punto A e il punto B? Come si può fare per tenerli insieme? Lì dove sta il punto cieco, ciò che solitamente scegliamo di non prendere in considerazione perché sembra un inutile interstizio, sta la soluzione per spiegare il funzionamento del mondo. Aristotele non ha paura di puntare il suo sguardo dritto nel centro. Questa sua particolare sensibilità che riempie lo spazio tra le cose sta anche all’origine dei concetti di potenza e di atto.
Un estratto da Lo spazio tra le cose. Aristotele e la felicità del cambiamento di Annalisa Ambrosio (Treccani Libri, 2023). Treccani è l’editore di questa rivista.