P rovare a tracciare un profilo intellettuale di Antonio Caronia significa immergersi lungo tre distinte linee di pensiero: quella che segue i suoi studi sull’informazione e sui media, in particolare quelli digitali, quella disegnata dalle sue riflessioni sulla fantascienza come letteratura popolare, e quella tracciata dalla sua militanza, una forma di vita in comune, un’esperienza di ricerca dell’utopia e di storia politica e culturale peculiare per il nostro paese.
Farlo oggi, a otto anni dalla sua morte, e cogliendo come occasione l’uscita di un volume, Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale (edito da Meltemi nella collana Culture Radicali e curato da Loretta Borrelli e Fabio Malagnini), significa anche interrogarsi su qual è stato il posto che Caronia ha ricoperto nel panorama culturale italiano. Non è una domanda facile a cui rispondere, perché Caronia fu anomalo e profetico. Prendendo in prestito le parole con cui Luca Giudici apre la sua recensione della raccolta su Quaderni d’altri tempi:
La sua anomalia era evidente, sia rispetto alla sinistra, più o meno storica, a cui di fatto apparteneva e in cui era cresciuto, sia in senso lato al mondo accademico, che Caronia ha sempre percepito come troppo stretto e vincolante, e che d’altronde, a parte rare e preziose eccezioni, non ne ha mai compreso adeguatamente la capacità profetica, oltre che analitica, facoltà che invece gli venne riconosciuta nel mondo della science fiction e in quell’area, a dire il vero fumosa e poco definita, posta al confine tra letteratura, filosofia, informatica, cibernetica e teoria dei media, che si è formata a partire dalle ultime ombre degli anni Settanta per poi crescere nei decenni seguenti.
Anomalo, nell’aver intrapreso un percorso di ricerca multidisciplinare, che dalla matematica è arrivato agli studi sui media, passando questo sapere attraverso il prisma della fantascienza e dei suoi immaginari. Profetico, per la qualità anticipatrice dei suoi scritti e la lungimiranza del suo sguardo, che hanno sapute leggere, nei testi e negli autori che ha frequentato, l’emergere di fenomeni che oggi sono la quotidianità della nostra esperienza. Marginale, come lo definisce Francesco Monico, “perché porsi nel margine significava per lui stare in un luogo radicale di possibilità e contemporaneamente agire uno spazio di resistenza personale”. Dunque esterno e lontano dai centri di potere (politico, accademico o culturale). Sono queste le qualità che gli vengono attribuite più spesso negli scritti che incrociano il suo pensiero e ne ingaggiano le sfide a cui chiama. Ed è per queste qualità che Caronia resta ancora una figura centrale per gli appassionati di fantascienza e l’ambiente dei media studies italiani, ma comunque sotterranea, riscoperta di continuo per la profondità del pensiero, il rigore dell’analisi e il fascino della sua unicità.
Genovese, classe 1944, laureato in matematica con una tesi su Chomsky, Antonio Caronia dedica la parte iniziale della sua vita all’impegno politico. Dal 1964 al 1977 svolge un’intensa attività politica prima nel Partito Socialista Italiano e poi nella Quarta Internazionale. È proprio all’interno della formazione trotskista e grazie ai due anni passati a dirigerne la rivista Bandiera Rossa, che prende avvio la sua parabola di intellettuale. Questa prende una prima svolta significativa e inaspettata nel 1978, quando Caronia comincia a interessarsi alla fantascienza. Un salto, quello dalla militanza all’immaginario, dal reale al fantastico, che potrebbe apparire, a prima vista, incongruente, ma non lo è. Perché, come scriverà Caronia nel 2009, “i generi della letteratura popolare sono, più di altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi sociali”. Da qui la convinzione “che la fantascienza fosse una narrativa dotata di un particolare potenziale cognitivo: in altri termini, che leggendo la fantascienza si potesse capire meglio la società, e anche che si potesse agire più efficacemente dentro la società”. È con questa consapevolezza che entrerà a far parte del collettivo milanese Un’ambigua utopia, diventandone presto una delle figure di riferimento.
Attivo dal 1977 al 1982, il collettivo Un’ambigua utopia dà alla luce nove numeri dell’omonima rivista “di fantascienza radicale” e cultura fantastica (il decimo numero è stato pubblicato nel 2020, come continuazione e omaggio alla rivista originaria). Un’ambigua utopia nasce come reazione alla lunga polemica suscitata in seguito alla pubblicazione, sulla rivista Robot, di un articolo in cui Remo Guerrini (scrittore di fantascienza e giornalista; fu l’ultimo direttore di Epoca) si occupava di tracciare una mappa dei rapporti tra fantascienza e politica, sostenendo che anche questo genere riflette le idee politiche di chi lo pratica, un gesto che, nel contesto italiano, venne letto come una denuncia della forte e organizzata presenza culturale dell’estrema destra italiana nell’ambito del fantastico. È grazie al dibattito sollevato dall’articolo che Vittorio Curtoni, scrittore e traduttore di fantascienza, che all’epoca era direttore di Robot, mette in contatto Giancarlo Bulgarelli e Danilo Marzorati (curatori di una rubrica di fantascienza su una radio libera brianzola) e Giuliano Spagnul (all’epoca militante politico, appassionato di fantascienza, che a Curtoni aveva confidato la volontà di dare vita a una rivista di fantascienza schierata politicamente a sinistra). Sono loro a costituire il nucleo del collettivo, a cui prenderanno parte anche Gerardo Frizzati, Marco Abate, l’illustratore Michelangelo Miani e, appunto, qualche mese dopo, Antonio Caronia, la cui presenza e il cui impulso saranno decisivi nello sviluppo della rivista.
Pienamente inserito nel filone dedito alla politica culturale del Movimento del ‘77, con cui condivide aspirazioni e destino, il lavoro del collettivo Un’ambigua utopia (nome preso in prestito dal sottotitolo del romanzo di Ursula K. Le Guin I reietti dell’altro pianeta) si occupa soprattutto di indagare i rapporti che corrono tra politica, fantascienza e immaginario; ponendosi così come antidoto a quella forte e organizzata presenza della destra nella fantascienza che l’articolo di Guerrini aveva denunciato. Lo fa scegliendo, per la rivista e per le iniziative che organizza sui territori, uno stile critico, politicamente schierato, e un atteggiamento provocatorio che ne caratterizzano profondamente l’identità al punto da ritagliare al collettivo un posto di rilievo nel panorama della controcultura italiana, che aveva sempre mostrato una certa indifferenza verso le realtà dedicate alla fantascienza.
Valga come esempio la struttura del terzo numero della rivista, uscito nell’estate del 1978 e dedicato ai robot, un tema che la redazione sceglie partendo dal riconoscimento della distanza tra il modo in cui la fantascienza ha raccontato il robot e le conseguenze determinate dalla sua introduzione nel processo produttivo: disoccupazione, battaglie sindacali, disarticolazione del potere operaio. Una tensione, questa tra l’immaginario e la realtà concreta e vissuta, che costituisce il nucleo di novità della proposta del collettivo, tesa a usare la fantascienza come chiave di lettura per il reale e il reale come posta in gioco per ripensare il ruolo e la funzione della fantascienza.
Per gli appassionati di fantascienza e l’ambiente dei media studies Caronia è una figura centrale ma sotterranea, riscoperta di continuo.
Negli anni, in articoli, saggi e libri, Caronia ha continuato a seguire e a raccontare i mutamenti che la fantascienza stava vivendo: nel passaggio dai Settanta agli Ottanta si stava infatti ormai esaurendo la carica innovativa della cosiddetta New Wave della fantascienza, un movimento caratterizzato da una grande sperimentazione, formale e di contenuto, da una spiccata sensibilità artistica e letteraria e da uno scarto di interesse dalle scienze “dure” – fisica, astronomia – a quelle “molli”, sociali. Tra gli autori più significativi di questa corrente possono essere citati sicuramente Michael Moorcock, Ursula K. Le Guin, Samuel Delany, James Ballard e, anche se in maniera più sfumata, Philip K. Dick (a cui Caronia dedicherà un volume, La macchina della paranoia, scritto con Domenico Gallo, per Agenzia X). Rispetto alle trame del periodo precedente, la cosiddetta Golden Age della fantascienza, caratterizzate da sviluppi lineari, dalla presenza di figure eroiche e da una fiducia nella tecnologia come forza in grado di risolvere i problemi dell’umanità, gli autori della New Wave si concentrano su una dimensione più personale, intensiva piuttosto che estensiva, legata alla sensazione e a quella forma peculiare di inconscio che Ballard definì con l’espressione “spazio interiore” – la sola che, per lo scrittore britannico, valeva la pena esplorare. Affiorano così, nella produzione di fantascienza, temi come la sessualità, la droga e la sua cultura, le questioni ambientali; ma anche l’alienazione, l’isolamento sociale e il conflitto di classe.
Fu da questa lezione (e dal suo tramonto) che presero avvio molti dei sottogeneri più interessanti della fantascienza successiva. Tra questi il cyberpunk è quello più significativo. Con la sua combinazione di “low-life and high tech”, questo nuovo genere provò a fare sintesi tanto della dimensione cosmica della tecnologia, che ritorna a essere lo sfondo su cui si stagliano nuovi mondi, quanto sulla dimensione interiore, personale, dei personaggi che li abitano. L’interiorità, nel lavoro di autori come William Gibson o Bruce Sterling, prende a disseminarsi verso l’esterno proprio grazie alle nuove tecnologie, che dominano il panorama dei loro romanzi. Opere che furono fondamentali per virare l’interesse della fantascienza verso un’esplorazione delle mutazioni imposte all’uomo dalle tecnologie di alterazione del corpo e dai nuovi media digitali, di cui anche Caronia fu uno studioso appassionato e al cui studio, grazie al suo variegato percorso di formazione, diede un contributo personale e peculiare. “Si ritrova nei suoi testi” dice ancora Monico a questo proposito “una specifica competenza nel trattare testi e processi solitamente in mano alle pratiche scientifiche, ma con una costante e feconda tensione verso l’immaginario e le forme artistiche della letteratura (fantascienza). Ovvero Caronia conosceva il metodo scientifico, ma lo leggeva sempre a fronte del problema dello statuto epistemologico delle teorie scientifiche”.
Questa dimensione portò la sua carriera oltre l’esperienza di Un’ambigua utopia. Fu autore di MediaMente, fondamentale trasmissione televisiva della Rai dedicata alle nuove tecnologie; intraprese una proficua carriera da docente, insegnando prima comunicazione all’Accademia di Brera e partecipando poi alla Scuola di media design & arti multimediali della Nuova accademia di belle arti di Milano (NABA). Qui fu titolare della cattedra in estetica dei media al diploma triennale omonimo e di quella di culture digitali alla laurea di specializzazione in film & new media. Fu, inoltre, direttore di ricerca del nodo milanese (M-Node) del Planetary Collegium, una piattaforma di ricerca internazionale dedicata alla promozione dell’integrazione tra scienza, arte e tecnologia, con una forte componente tecnoetica.
Nell’introduzione al volume Universi quasi paralleli (2009, Cut-Up Edizioni), Caronia scrive che “la fantascienza non poteva sopravvivere, né nella sua forma ‘ottimista’ né in quella di ‘testimonianza’ della crisi, all’avvento della nuova fase del capitalismo iniziata sin dalla metà degli anni Settanta. I generi della letteratura popolare sono, più di altri, fenomeni storici contingenti, che nascono e muoiono in simbiosi con i processi sociali”. È con questa consapevolezza che la riflessione di Caronia attraversa questo passaggio storico, verso la nuova fase del capitalismo, e culturale, verso una nuova fase della fantascienza. Lo fa traghettando da una sponda all’altra la convinzione che la fantascienza sia un genere capace di riflettere i cambiamenti sociali, che questi siano legati ai cambiamenti tecnologici e che la scienza che li rende possibili vada indagata con un rigore estremo. La sua figura e la sua riflessione garantiscono così una continuità tra la riflessione sulle dimensioni politiche della fantascienza e dell’immaginario inaugurata con il lavoro del collettivo Un’ambigua utopia e il periodo successivo, caratterizzato tanto dalla critica quanto dall’esplorazione delle possibilità di uso sociale delle nuove tecnologie, quelle digitali in primis.
Per capire meglio entro quali estremi si collochi il suo pensiero, proprio la recente raccolta Dal cyborg al postumano è un buon punto di partenza. Al centro di queste riflessioni c’è infatti il concetto di uomo artificiale: un immaginario che ha radici antichissime, quasi un archetipo. Caronia lo illustra ricostruendolo storicamente in tre fasi. Nella prima, quella del puro “corpo artificiale”, prima dio e poi l’uomo è impegnato nella costruzione di uno suo doppio, in grado di replicarne aspetto, pensiero ed emozioni. Scrive Caronia che “gli antichi progenitori, i protouomini, quando ne viene narrata la creazione, appaiono essi stessi come dei prodotti artificiali, esseri nati dal fango o dalla pietra”. Adamo, Deucalione e Pirra o Kvasir appartengono tutti a questa categoria. Sono i progenitori dell’uomo e, al tempo stesso, la creazione artificiale di un dio. Un gesto che, essi stessi, proveranno a ripetere per lungo tempo. La nutrita schiera degli uomini di metallo mitologici e degli automi letterari e reali sta lì a dimostrarlo.
Una seconda fase, che Caronia chiama del “corpo invaso”, vede il corpo dell’uomo (dunque l’uomo stesso) farsi artificiale grazie all’innesto di tecnologie al suo interno. Uno stadio in cui “l’artificiale sta invadendo il nostro corpo con pacemaker, vene artificiali, tra breve interi organi. Più ancora, la modificazione dell’uomo non può passare più attraverso aggiunte artificiali al nostro corpo o estensioni della nostra memoria e di alcune capacità “intelligenti” al di fuori di noi: può riguardare direttamente il nostro materiale genetico, il sistema informativo che presiede alla programmazione del nostro aspetto fisico e delle nostre caratteristiche mentali”. A questa segue una terza fase, che Caronia chiama del “corpo disseminato”, vede il corpo dell’uomo spargersi nel regno dell’artificiale, grazie alle tecnologie di telepresenza che ne aumentano le capacità, rendendole discrete e spargendole grazie alle reti di collegamento e alle infrastrutture che le rendono possibili. L’uomo supera se stesso grazie alla tecnologia. Evolve verso un ibrido tecnologico post umano, di cui l’intelligenza artificiale rappresenta il limite più estremo. Perché, dice Caronia:
Non è un paradosso affermare che proprio lo sviluppo della prospettiva dell’intelligenza artificiale, comunque la si voglia concepire, come settore dell’informatica o della psicologia cognitiva, realizza le condizioni per il superamento della paralizzante visione antropocentrica con cui l’uomo ha finora guardato la macchina.
Attraverso la lente del corpo – delle sue ricostruzioni, manipolazioni o disseminazioni – Caronia rilegge anche le tre grandi correnti della fantascienza. La Golden Age, che esplora l’androide come creazione artificiale, lo confronta all’uomo e finisce per ricondurlo “alla categoria del doppio, ombra, riflesso dell’io o vero e proprio sosia dotato non solo di straordinaria rassomiglianza ma di una angosciosa e inestricabile intersezione con la vita del protagonista”. La seconda, la New Wave, che esplora il modo in cui gli innesti tecnologici agiscono sull’uomo e il suo corpo. Una fase in cui “il cyborg è un personaggio dell’immaginario che segnala un processo reale, un mutamento del rapporto fra uomo e tecnologia, il mutamento per cui la tecnologia, da protesi riconoscibile come tale e separata dall’uomo, si fa parte del suo corpo, e contemporaneamente, molto più di prima, paesaggio sociale”. Infine la terza, quella cyberpunk, che esplora le possibilità e le conseguenze che nascono dalla disseminazione dell’uomo nelle reti di computer. Una fase in cui “con la comunicazione telematica, in linea di principio, non solo può essere riprodotto il mondo fisico in cui viviamo, non solo può essere prodotto un qualunque mondo alternativo, anche radicalmente alternativo, ma può anche essere riprodotto il mondo mentale, e cioè il mondo delle elaborazioni immaginarie e fantasmatiche dei corpi, e possono essere messi in contatto direttamente i corpi”.
Il confronto con la fantascienza permette a Caronia di apprendere una lezione fondamentale:
[La fantascienza] non può vivere se non c’è quel minimo scarto fra progettualità e realizzazione, se non c’è una distanza sia pur piccola tra l’esistente e il germe della novità che fra le pieghe dell’esistente matura. La fantascienza ha bisogno di questo scarto, di questa distanza, per instaurare il suo sguardo sul mondo, che poi può essere profetico o ironico, catastrofico o consolatorio, ma è lo sguardo che vede allargarsi le due sfere, quella del reale e quella dell’immaginario, e in quell’allargamento vede confondersi i loro confini, vede crescere la zona di intersezione tra i due, fino a che questa zona, in cui reale e immaginario si fondono, ricopre tutto il mondo, diventa l’unica zona a cui ha accesso la nostra esperienza.
Alla base di questa articolata lettura c’è un’idea chiara:
Ogni cambiamento tecnologico di carattere epocale ha sempre rappresentato una sfida a questo equilibrio (quello tra natura e tecnica, nda), ha messo in crisi il rapporto interno/esterno che gli preesisteva, lo ha ristrutturato e ha costretto l’uomo a ricostruire su basi nuove l’equilibrio.
Caronia utilizza l’immaginario come mappa e come lente e la sua scrittura diventa il tentativo di pensare lo spostamento degli equilibri tra gli elementi che compongono la nostra società, nel momento stesso in cui essi mutano e mentre il sistema muta con loro (di recente, questo esercizio di pensiero ha preso il nome di iperstizione e la forma in cui s’esprime è conosciuta come theory fiction). Ma quale immagine del mondo emerge da questo sforzo che, è bene ricordarlo, impegna Caronia dagli anni Ottanta fin dentro la prima decade del nuovo millennio?
È l’immagine di un mondo in cui “il dilagare dei sondaggi può essere letto come un altro sintomo dell’avvento della simulazione, che mi sembra strettamente legato al fenomeno cui stiamo assistendo da una ventina d’anni a questa parte: la scomparsa, la polverizzazione, l’evaporazione delle forme moderne (e forse non solo quelle) del potere politico in occidente”. Dove “sorge un dubbio ancora più fondamentale: esiste ancora un sede in cui vengono prese le decisioni?”; in cui “l’economia soppianta e svuota la politica, ma la nuova economia, che si identifica sempre più con la comunicazione, non è più gestita dalle scelte razionali o irrazionali di più o meno grandi gruppi umani, bensì da una “intelligenza collettiva” che circola nelle reti telematiche, ed è dominata dalle relazioni tra esseri umani e un nuovo tipo di oggetti intelligenti”. È, ancora, l’immagine di un mondo in cui “la tecnica assume sempre di più l’aspetto di un’interfaccia fra noi e il mondo, e che questa interfaccia si ispessisce, si globalizza, moltiplica le interrelazioni al proprio interno e con noi, si ramifica dentro di noi, innervando i nostri copri singoli e il mondo fisico reale come un alieno invasore”. È un mondo in cui il capitalismo è già morto – parafrasando il titolo dell’ultimo libro di McKenzie Wark –, e ci troviamo a vivere senza aver trovato le parole giuste per definire ciò che stiamo vivendo. È, insomma, l’immagine del mondo che stiamo vivendo oggi, per come appariva dieci, venti o trent’anni fa, un interregno che Caronia ha saputo leggere e indagare, anticipandolo.